Apologia di un “pirla”
La storia è ormai arcinota, a riprova della capacità della macchina mediatica di prendere un aneddoto insignificante per farne il cardine di una narrazione tutta funzionale alla gossipizzazione di ogni genere di scontro. Potremmo addirittura prendere come indicatore dell’incompatibilità di certe forme di piazza l’attivarsi puntuale della macchina delle “immagini simbolo”, delle “mamme coraggio”, del “commento choc” che operano una riduzione dei fenomeni sociali a episodi di colore da impacchettare e, secondo i casi, mitizzare, deridere, denigrare o denunciare.
Iniziamo con la premessa che siamo schifati dall’operazione di sciacallaggio con cui si è sbattuto sul banco degli imputati il ragazzo in questione, trasformando un ventenne nel nemico numero uno della nazione, manco fosse il responsabile della situazione drammatica in cui versano molte famiglie italiane che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese.
Anche perché probabilmente, in tal caso, avrebbe presenziato all’inaugurazione di Expo e non sarebbe stato insieme alle 30mila persone che hanno attraversato la città di Milano durante la MayDay.
Chi scrive non conosce il ragazzo intervistato, la sua storia personale, le condizioni economiche della famiglia di provenienza, ma conosce il linguaggio dei tantissimi ragazzi che abitano le province delle nostre città, cresciuti tra merda, cemento e isolamento quotidiano; e i discorsi che si sentono al bar di ritrovo, sui muretti degli oratori, nelle panchine dei giardini e delle piazze dei quartieri popolari sono caratterizzati dalle espressioni gergali, dal modo diretto e semplice, magari anche ingenuo ma genuino, con cui il ragazzo ha parlato ai microfoni di tgcom24.
E nei quartieri popolari abbandonati da istituzioni locali e giunte comunali, tra quei ragazzi dallo slang di strada, cova una rabbia pre-politica che si esprime nel desiderio di spaccare tutto. Il centro cittadino e il suo lusso vengono visti come un mondo distante, luogo del privilegio e dei privilegiati, mondo con cui non esiste comunicazione possibile che non sia la semantica dei suoi simboli distrutti e infranti.
Lo scherno e il ridicolo con cui è stato coperto il ragazzo intervistato, per il suo modo di parlare confuso, per il continuo inframmezzare le frasi da “boh, cioè”, per espressioni come “bordello” più volte pronunciate durante le riprese mostra l’estraneità della maggioranza dei commentatori, anche e soprattutto “di sinistra”, dal mondo delle periferie, dai suoi linguaggi, dalle sue anche contraddittorie realtà.
Mostra la mancanza di volontà di indagare, con umiltà, le emozioni, gli umori e i desideri che serpeggiano tra gli sfruttati che vivono le periferie abbandonate delle nostre metropoli e che vedono in cortei come quelli del primo maggio milanese degli spazi di espressione reale della propria collera.
Significa aver abbandonato un progetto di trasformazione dello stato di cose presenti che parta dagli ultimi, che sia condotto con e dagli ultimi.
In fondo cosa ci dice quel ragazzo? Che una protesta per lui non è una sfilata ed è normale che “si faccia bordello”, che le banche sono il simbolo della ricchezza a cui una generazione come la sua non accederà mai, che c’è un divario sempre più grande tra “i politici” e la “gente normale” e che se i politici non capiscono le cose “con le buone” bisogna provare “con le cattive”. Che era lì perché aveva la sensazione che – una volta tanto – stesse succedendo qualcosa.
Sono concetti triviali al punto di non essere tollerabili. Dopo la gogna mediatica arrivano puntualmente le forche caudine delle scuse obbligate. Non possiamo certa volerne a chi cede davanti alla pressione di un’informazione “libera” al punto di non poter accettare nessuno scarto, foss’anche minimo, dalla retorica che relega ogni espressione di rabbia dei soggetti giovanili a una patologia mostruosa.
Letteralmente, visto che il padre del ragazzo si è affrettato a dichiarare ai giornali di voler consultare uno “specialista” per capire se hanno “sbagliato in quanto genitori”.
Chi oggi condanna quelle persone come meri “teppisti”, “delinquenti”, “terroristi” sta facendo un osceno gioco delle parti.
Il nostro compito, abbandonata ogni presunta velleità e arroganza di superiorità morale rispetto a queste soggettività, sta nel comprendere questi comportamenti e organizzare questa rabbia in modo tale che possa esplodere verso i veri responsabili della nostra miseria.
Chissà che, così facendo, in futuro a bruciare siano i luoghi dove si esercita il comando capitalistico e, ancora più importante, che a bruciare siano le aspirazioni dei padroni di poter perpetuare questo mondo di sfruttamento e miseria…
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