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Da Marchionne all’Electrolux: l’arroganza padronale avanza

Dal nostro punto di vista se da una parte sono da elogiare le resistenze agli attacchi del padrone, il caso Electrolux è da considerare al pari dell’attacco portato avanti, e riuscito, da Marchionne. Vi è qui racchiuso un chiaro tentativo di creare un altro precedente importante all’interno della galassia lavoro. Già da diverso tempo il capitalismo globale ha individuato nel Sud Europa un bacino da deprimere sistematicamente per calmierare il costo del lavoro, tentando quindi di portare avanti modelli di lavoro e di legislazione che vogliono permettere ai padroni di produrre in uno Stato al costo e con i modelli organizzativi di un altro, sostanzialmente bypassando le norme «inadeguate» dettate dalle vittorie (sempre più residuali) delle lotte operaie del passato. Electrolux va oltre: produrre in Italia con legislazioni e relazioni industriali italiane, ma con costi di lavoro polacchi. Un evoluzione creativa del sistema lavoro, basata sul ricatto con i soliti fini di fare profitto sulle spalle dei lavoratori.

Oltre a seguire i focolai di lotta e le resistenze operaie vogliamo ripartire da questa domanda, cercando di dare anche risposte e spunti per il dibattito: perché le aziende e multinazionali possono permettersi queste manovre pienamente politiche eclatanti?

E’ evidente in primo luogo che i rapporti di forza in questa fase vedono i padroni in grado di determinare sostanzialmente l’organizzazione della produzione di fronte a una risposta operaia tenue, frammentata e spesso inefficace. Se andiamo a fare un attenta analisi del mondo del lavoro, nessuno si è sollevato o ha creato tensione nel tentativo di contrastare la feroce ristrutturazione in corso; nessuno, una volta vinta o persa una battaglia ha avuto la capacità, salvo rare eccezioni, di dare continuità alle lotte, rilanciare e creare reazioni a catena in altri luoghi e posti di lavoro. Inoltre bisogna considerare il sostanziale cambiamento strutturale degli assetti del lavoro e la difficoltà dei pochi soggetti conflittuali, o per lo meno non allineati, a costruire una strategia di lotta che si ponga su un piano innovativo, che cerchi la generalizzazione e l’uscita dalle forme corporative.

Questa complessa situazione determinata dalle trasformazioni strutturali del mondo della produzione e dall’incapacità (o non-volontà) da parte delle organizzazioni che si muovono su questo fronte di costruire resistenze e attacchi, ha consentito a padroni e sindacati confederali, con il beneplacito dello Stato, di portare avanti in maniera indisturbata il percorso di ristrutturazione totale del mondo del lavoro a colpi di accordi. Il tutto sotto gli occhi di quelle organizzazioni sindacali che hanno fatto e fanno tuttora leva sulle lotte operaie. Un fallimento di strategia palese, incapace di creare nel tempo la soggettività in grado di contrapporsi agli attacchi padronali. Un fallimento in parte determinato dalla riproduzione di modelli organizzativi del passato non consoni con i tempi attuali e le trasformazioni in corso.

L’altra domanda che ci poniamo è il «che fare» di fronte a questa situazione. I lavoratori Electrolux sono ora sotto le luci della ribalta, ma è necessario che le lotte si diffondano e pongano un terreno conflittuale più generalizzato su cui i sindacati siano costretti almeno a confrontarsi, facendo in modo di non commettere un altro errore come quello fatto dalla Fiom-Cgil nella lotta contro il modello Marchionne. Una lotta che, incapace di costruire una rigidità che travalicasse i confini della fabbrica e di ipotizzare nuove strategie di conflitto, di fatto ha portato alla sconfitta e al consolidarsi di quel modello. Le vittorie di Pirro ottenute attraverso la magistratura non hanno tracciato una messa in discussione dei rapporti di forza all’interno dei luoghi di lavoro, non si può pensare che un tribunale possa sostituirsi alla lotta operaia.

Qualche indicazione può venire dalle lotte nel mondo della logistica, coscienti però di una composizione radicalmente diversa e dell’importanza strategica che risiede in questo aspetto della produzione per il capitale. Lì dove la battaglia si pone su un livello di conflitto che esce dalle classiche forme dello sciopero sindacale e blocca sistematicamente in maniera reale i meccanismi di produzione si da un’efficacia reale. L’altra indicazione da raccogliere è quella di dare un profilo di consenso sociale alla battaglia cercando di uscire dalla vertenza in sé e provando a mettersi in comunicazione con altre lotte. L’attacco padronale di questi giorni alla lotta dei facchini infatti, si muove su questi fronti: da un lato l’erosione del consenso delle forme di lotta, da l’altro la repressione giudiziaria e poliziesca verso i blocchi e le iniziative. Ciò non toglie che il ruolo della fabbrica classica all’interno del sistema di produzione italiano è sempre più residuale e non ci si può aspettare che una ripresa della lotta di classe parta solo da lì.

E’ necessaria una visione d’insieme, consapevoli che le trasformazioni determinate negli ultimi anni nell’organizzazione del lavoro classico e quindi nella composizione operaia. Smettere di pensare in maniera corporativistica all’interno delle lotte quotidiane è ormai centrale per vincere queste battaglie. E’ inevitabile quindi porsi su una visione che sia capace di uscire dal mondo della fabbrica e del posto di lavoro e rapportarsi con le lotte esistenti e quelle da inventare, da quella per la casa al mondo della formazione, a quella contro la devastazione dei territori, ripartendo da quelle piccole indicazioni che ci hanno lasciato le giornate romane del 19 e 20 ottobre dove la dimensione del lavoro classico in lotta ha potuto amalgamarsi alle altre lotte sociali e politiche che attraversano la nostra società, cercando di impensierire chi abita i palazzi del potere.

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