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Dall’individualità al collettivo nella pandemia: la necessità di un contropercorso

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Non nascondiamocelo, i percorsi collettivi che si propongono la rottura dello stato di cose presente nel nostro paese stanno vivendo un momento di importante impasse.

Lo stato di salute era compromesso già prima della pandemia, ma proprio la reazione a quest’ultima è stata il termometro dello stato dell’arte.

Eppure lungo tutta la fase che stiamo vivendo abbiamo visto emergere nuovi conflitti, a volte spuri e difficili da comprendere, abbiamo intuito nuove possibilità in potenza ed abbiamo osservato il ripresentarsi di conflitti storici, sopiti da tempo, ma capaci di esprimere nuove tensioni.

Non bisogna mentirsi, mentre altrove la fase pandemica ha generato polarizzazioni importanti, reazioni di massa in grado di avere una durata con un orientamento chiaro e una forza tale da intervenire, in parte, sulla ristrutturazione capitalista in corso, nel nostro paese abbiamo assistito ad un conflitto parcellizzato, celato, non comunicante, spesso prepolitico e soprattutto privo di forza.

Si possono addurre molti validi motivi oggettivi e soggettivi che hanno generato questo contesto: lo shock pandemico, i processi demografici del nostro paese, una generale tentazione ad affidarsi allo Stato in un momento emergenziale, l’atteggiamento supino fino al midollo dei sindacati confederali nei confronti del dettame governamentale e la sudditanza totale della politica a Confindustria, una certa arretratezza generale dei milieux militanti rispetto ai codici, ai comportamenti ed alle forme organizzative dei nuovi conflitti, il presentarsi rapsodico di fenomeni inediti.

Tutti aspetti a loro modo centrali, ma non sufficienti, senza la profondità necessaria per trasformarsi da cauto giustificazionismo in un realismo in grado di mettere in cantiere compiti per il presente.

Il problema probabilmente si pone ad un’altra altezza. E’ qualcosa che ha a che fare con la conoscenza, non come forma fredda ed individuale della detenzione dei saperi, ma come contro-organizzazione collettiva delle capacità e dell’esperienza (e naturalmente con il senso che assume questo organizzarsi).

Uno dei fallimenti più grandi di questa fase della macchina governamentale e del capitalismo italico più in generale è stata proprio questa: l’incapacità di riorganizzare la cooperazione sociale complessiva secondo le regole del libero mercato. Questa incapacità, tutt’altro che congiunturale, è connaturata alla collocazione nelle catene del valore internazionale del nostro paese. La risposta alla crisi pandemica è ancora una volta la svalutazione di capitali, capacità umane e la ulteriore de-integrazione di settori della popolazione. Ora, quello che per il capitale rappresenta uno scarto, o una risorsa da rivalorizzare nei livelli sottostanti, per chi si pone l’obbiettivo del cambiamento oggi rappresenta una ricchezza.

Siamo di fronte ad uno scenario inedito, dove funzioni, ruoli e saperi integrati da tempo dal capitale si ritrovano sempre di più (a volte loro malgrado) a posizionarsi per gradi oggettivamente contro di esso. Si pensi al trauma ed alle lacerazioni che vive la comunità tecnoscientifica di fronte alla doppiezza del proprio ruolo dentro gli sconvolgimenti pandemici e climatici. Si rifletta su quei saperi autonomi in contesa col capitale, quelle strategie di sopravvivenza, quelle ricchezze di vissuto che si articolano nel settore della logistica e nel suo carattere transnazionale. Ci si soffermi sulla rigidità dei giovani a svalutare le proprie capacità-merce in cambio di un salario da fame. E ancora la capacità delle lotte territoriali di appropriarsi di saperi e tecniche per controutilizzarle. Infine la contesa, posta dai movimenti sulla linea del genere e del colore, all’intero sistema di riproduzione dell’identità.

Questi sono in gran parte esempi di conflitti più o meno espliciti che abbiamo potuto vivere ed attraversare. Ma crediamo che questa ricchezza sociale in via di soppressione abbia un carattere molto più generale di cui ne emergono palesemente solo una costellazione di minuscoli frammenti.

Dunque tra questi frammenti ambiamo a muoverci, per fare cosa?

La pandemia è stata un’esperienza estremamente individuale, una fatica solitaria. Eppure è stata anche esperienza generale, totale e per alcuni omogenea. Nuove capacità sono sorte mentre altre venivano compresse, nuovi bisogni cercano potenza, ma per il momento sembrano mostrarsi per lo più come resistenze individuali, come atti di sopravvivenza gioiosa o disperata, o come una sommatoria di essi.

Per questo motivo non dobbiamo smettere di parlare delle esperienze che abbiamo vissuto nella pandemia per quanto faticoso e doloroso possa essere, di indagarle, di costruire contesti in cui la gente possa condividerle, organizzarle, rifletterci. Dobbiamo socializzare l’esperienza pandemica, e socializzarla come forza, a partire da quelle capacità ricche che se organizzate si possono fare potenza.

Si parte da qui per costruire un contropercorso, da questo dolore, da questa rabbia, da questa ricchezza.

Buona estate di lotta!

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