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I giovani e il lavoro secondo Renzi

Una lettura del Jobs Act, verso il #12A.

Appena insediato il governo Renzi non perde occasione per ribadire la propria funzione “innovatrice” tra approvazioni, cautele  e scettiscismi delle élites economico-finanziarie (vedi le critiche di questi giorni del Financial Times che rimproverano all’ex-sindaco il temporeggiamento e l’eccessiva aderenza al formalismo parlamentare).

Il campo privilegiato per dare un segnale in termini di fattività sembra quello del lavoro; in mezzo alla miriade di dichiarazioni ad ora l’unica misura concreta su cui il governo si sta spendendo è infatti quella del Jobs Act, il disegno legge che dovrebbe riformare il mondo del lavoro, con una particolare attenzione ai giovani.

Dopo l’approvazione dei primi provvedimenti, in vigore dal 20 marzo con il DL 34, e la valanga di articoli di giornale che la commentano, ci sembra importante provare ad analizzare a nostra volta il provvedimento per sondarne il portato di reale cambiamento e, laddove sia presente, quali sono le modificazioni che impone al panorama attuale.

Crediamo infatti che il jobs act altro non sia che un’accelerazione di processi già in atto da tempo e che tra le cose che cambiano non ci siano ‘garanzie per i giovani’ o le ‘maggiori tutele’ di cui si riempiono la bocca il premier e i suoi colleghi di palazzo. Vediamo nello specifico quali sono le norme già in atto e quali di prossima applicazione cercando di coprenderne le implicazioni concrete.

Il primo punto del DL prevede l’allungamento della possibilità di rinnovare i contratti a termine fino a otto volte in tre anni. Ciò significa la possibilità di spezzettare un rapporto di lavoro in contratti di 4-5 mesi fino a coprire un periodo triennale in cui, come dice un altro capo del disegno legge, le lavoratrici e i lavoratori non potranno avvalersi dell’articolo 18 in caso di licenziamento immotivato dato che non riguarderà rapporti lavorativi sotto i trentasei mesi. Ci chiediamo quindi tra l’altro come l’attenzione posta nel disegno di legge alle “condizioni favorevoli alla genitorialità” si sposi con l’evidente possibilità di interrompere il rapporto lavorativo semplicemente non rinnovando il contratto alla donna prima di entrare nel ‘periodo protetto’. Al problema delle dimissioni in bianco irregolari si risponde con una legalissima eliminazione delle tutele al licenziamento.

Altra ‘innovazione’ riguarda la formazione; il Job Act prevede l’eliminazione sia dell’obbligo a garantire formazione, sia di quello ad assumere a tempo indeterminato almeno un venti per cento degli apprendisti prima di avviare nuovi contratti di apprendistato. Inoltre se addirittura la Fornero richiedeva alle aziende di render conto delle modalità contrattuali scelte, Renzi liberalizza definitivamente il mercato del lavoro rimuovendo la causalità e garantisce una precarietà il più diffusa possibile alzando la percentuale di contratti a termine che ogni impresa può stipulare.

L’altro cardine attorno a cui ruota il disegno legge è la ristrutturazione degli ammortizzatori sociali, il famoso salario di disoccupazione, che ad ora ancora non compare nel DL 34 rimanendo solo nelle dichiarazioni d’intenti del nuovo premier. Secondo il progetto infatti, allo scadere dei tre anni di contratti a termine, nel caso il lavoratore non venisse assunto a tempo indeterminato dall’azienda nella quale era impiegato (eventualità più che probabile!), si potrà accedere all’indennità di disoccupazione, previa partecipazione a degli specifici corsi di formazione.
La promessa di ampliare la fascia destinataria di questo sussidio nasconde dietro di sè il rischio di un generale adeguamento verso il basso: oltre a non specificare la reale entità di questo indennizzo, la più immediata e tangibile conseguenza sarà l’eliminazione della cassa integrazione, unico ammortizzatore sociale di una qualche sostanza in Italia. La ristrutturazione degli ammortizzatori sociali è una tra le tante direttive volte ad uniformare lo scenario internazionale, o quantomeno europeo, del mercato del lavoro che però non tiene conto delle specificità dei territori.

Molte sono le parole d’ordine che abbiamo sentito ripetere uguali in tanti paesi, il lessico e i concetti della crisi sono condivisi tra le varie governance. Per ogni problema c’è una ricetta unica e già pronta ed è proprio il Jobs Act a far emergere ulteriormente l’imperativo di fondo che informa questa riforma del mondo del lavoro: la flessibilità. Un concetto aleatorio in cui si troverebbe la chiave della ripresa -altro termine che caratterizza la semantica della crisi.

Partendo dal presupposto che il problema nel mercato del lavoro sia l’immobilismo, si trova la soluzione nel rendere flessibili i rapporti che lo regolano. Sono tante le considerazioni che ci fanno sembrare vuota quest’equazione, primo tra tutti il fatto che universalizzare un concetto non basta a rimuovere le differenze che caratterizzano i contesti a cui lo si applica. In altre parole il mondo del lavoro non è un’idea si cui uniformare una visione ma la realtà materiale che viviamo tutti i giorni. Una realtà caratterizzata da precarietà permanente o flessibilità assoluta, che dir si voglia.

Quella proposta dal governo è una soluzione che non ha nulla di appetibile per chi salta da un lavoro all’altro senza possibilità di fare progetti per il futuro; una condizione del tutto ordinaria, in particolare per i/le giovani. Una condizione così determinante rispetto alle possibilità che si aprono nelle nostre vite che non può sfuggirci l’accento sulla volontarietà della disoccupazione. Nel testo del DL compare più volte la dicitura ‘disoccupazione involontaria’… ci chiediamo a cosa corrisponda questa formula nel concreto: dove sono i disoccupati volontari? Ma soprattutto dov’è questo posto in cui si può scegliere se lavorare o meno? La maggior parte degli studenti (tanto poer fare un esempio)  è oggi costretta a lavorare per portare avanti gli studi, questo incide sui tempi in cui ci si laurea, il che si traduce in tasse universitarie più alte. Difficile incontrare qualcuno che abbia scelto questa vita di propria sponte.

Il principio di volontarietà a cui si ascrive la condizione lavorativa del singolo attribuisce una responsabilità individuale rimuovendo completamente il contesto in cui la persona si muove. Si definisce così uno scenario in cui a coloro che sul lavoro altrui legiferano e si arricchiscono, non si può attribuire troppa responsabilità. A quanto pare se non hai un lavoro probabilmente è perchè non lo vuoi abbastanza!
Il ragionamento non solo non fila ma è in aperta contraddizione con l’impossibilità di sottrarsi al circolo vizioso di contratti a termine per 3 anni, corsi di formazione, indennità-disoccupazione-riassunzione fino a tre anni e così all’infinito…

Come tutto questo non bastasse c’è da specificare che questo fantasmagorico intervento sul mondo del lavoro ha un orizzonte piuttosto limitato, restano fuori moltissime forme di contratto, per esempio le partite iva, una realtà lavorativa tutt’altro che residuale oggi. Questo Job Act, se inizialmente suscitava diffidenza come tutte le grandi riforme che dovrebbero risolvere la vita a tutti, dopo uno sguardo più attento si sostanzia nell’essere l‘ennesimo tentativo di far pagare a noi la crisi e come abbiamo fatto con i precedenti lo rispediamo al mittente, creando quante più occasioni possibili per metterlo in discussione e contrastarlo.

 

Di Infoaut, sull’argomento Jobs Act

Jobs Act: Renzi ripropone solo precarietà

Guerra ai poveri (in formato slide)

Giochi piccoli, grandi giochi: lo spodestatore spodestato


Vedi anche: Il Vangelo secondo Matteo. Un commento al Dl 34/14 (Cau-Napoli)

Appena insediato il governo Renzi non perde occasione per ribadire la propria funzione innovatrice, il proprio portato di cambiamento. Il campo privilegiato per dare un segnale in termini di fattività sembra quello del lavoro; in mezzo alla miriade di dichiarazioni ad ora l’unica misura concreta su cui il governo si sta spendendo è infatti quella del Job Act, il disegno legge che dovrebbe riformare il mondo del lavoro, con una particolare attenzione ai giovani. 

Dopo l’approvazione dei primi provvedimenti, in vigore dal 20 marzo con il DL 34, e la valanga di articoli di giornale che la commentano, ci sembra importante provare ad analizzare a nostra volta il provvedimento per sondarne il portato di reale cambiamento e, laddove sia presente, quali sono le modificazioni che impone al panorama attuale. 

Crediamo infatti che il job act altro non sia che un’accelerazione di processi già in atto da tempo e che tra le cose che cambiano non ci siano ‘garanzie per i giovani’ o le ‘maggiori tutele’ di cui si riempiono la bocca il premier e i suoi colleghi di palazzo. Vediamo nello specifico quali sono le norme già in atto e quali di prossima applicazione cercando di coprenderne le implicazioni concrete.

Il primo punto del DL prevede l’allungamento della possibilità di rinnovare i contratti a termine fino a otto volte in tre anni. Ciò significa la possibilità di spezzettare un rapporto di lavoro in contratti di 4-5 mesi fino a coprire un periodo triennale in cui, come dice un altro capo del  disegno legge, le lavoratrici e i lavoratori non potranno avvalersi dell’articolo 18 in caso di licenziamento immotivato dato che non riguarderà rapporti lavorativi sotto i trentasei mesi. Ci chiediamo quindi tra l’altro come l’attenzione posta nel disegno di legge alle “condizioni favorevoli alla genitorialità” si sposi con l’evidente possibilità di interrompere il rapporto lavorativo semplicemente non rinnovando il contratto alla donna prima di entrare nel ‘periodo protetto’. Al problema delle dimissioni in bianco irregolari si risponde con una legalissima eliminazione delle tutele al licenziamento.

Altra ‘innovazione’ riguarda la formazione; il Job Act prevede l’eliminazione sia dell’obbligo a garantire formazione, sia di quello ad assumere a tempo indeterminato almeno un venti per cento degli apprendisti prima di avviare nuovi contratti di apprendistato. Inoltre se addirittura la Fornero richiedeva alle aziende di render conto delle modalità contrattuali scelte, Renzi liberalizza definitivamente il mercato del lavoro rimuovendo la causalità e garantisce una precarietà il più diffusa possibile alzando la percentuale di contratti a termine che ogni impresa può stipulare.

L’altro cardine attorno a cui ruota il disegno legge è la ristrutturazione degli ammortizzatori sociali, il famoso salario di disoccupazione, che ad ora ancora non compare nel DL 34 rimanendo solo nelle dichiarazioni d’intenti del nuovo premier. Secondo il progetto infatti, allo scadere dei tre anni di contratti a termine, nel caso il lavoratore non venisse assunto a tempo indeterminato dall’azienda nella quale era impiegato (evntualità più che probabile!), si potrà accedere all’indennità di disoccupazione, previa partecipazione a degli specifici corsi di formazione. 

La promessa di ampliare la fascia destinataria di questo sussidio nasconde dietro di sè il rischio di un generale adeguamento verso il basso: oltre a non specificare la reale entità di questo indennizzo, la più immediata e tangibile conseguenza sarà l’eliminazione della cassa integrazione, unico ammortizzatore sociale di una qualche sostanza in Italia.

La ristrutturazione degli ammortizzatori sociali è una tra le tante direttive volte ad uniformare lo scenario internazionale, o quantomeno europeo, del mercato del lavoro che però non tiene conto delle specificità dei territori.

Molte sono le parole d’ordine che abbiamo sentito ripetere uguali in tanti paesi, il lessico e i concetti della crisi sono condivisi tra le varie governance. Per ogni problema c’è una ricetta unica e già pronta. è proprio il Job Act a far emergere ulteriormente l’imperativo che riguarda il mondo del lavoro; la flessibilità. Un concetto aleatorio in cui si troverebbe la chiave della ripresa -altro termine che caratterizza la semantica della crisi. 

Partendo dal presupposto, del tutto arbitrario, che il problema  nel mercato del lavoro sia l’immobilismo, si trova la soluzione nel rendere flessibili i rapporti che lo regolano. Sono tante le considerazioni che ci fanno sembrare vuota quest’equazione, primo tra tutti il fatto che universalizzare un concetto non basta a rimuovere le differenze che caratterizzano i contesti a cui lo si applica. In altre parole il mondo del lavoro non è un’idea si cui uniformare una visione ma la realtà materiale che viviamo tutti i giorni. Una realtà caratterizzata da precarietà permanente o flessibilità assoluta, che dir si voglia.

Quella proposta dal governo è una soluzione che non ha nulla di appetibile per chi salta da un lavoro all’altro senza possibilità di fare progetti per il futuro; una condizione del tutto ordinaria, in particolare per noi giovani. Una condizione così determinante rispetto alle possibilità che si aprono nelle nostre vite che non può sfuggirci l’accento sulla volontarietà della disoccupazione. Nel testo del DL compare più volte la dicitura ‘disoccupazione involontaria’, ci chiediamo a cosa corrisponda questa formula nel concreto; dove sono i disoccupati volontari?  Ma soprattutto dov’è questo posto in cui si può scegliere se lavorare o meno? La maggior parte degli studenti ad oggi è costretta a lavorare per portare avanti gli studi, questo incide sui tempi in cui ci si laurea, il che si traduce in tasse universitarie più alte. Difficile incontrare qualcuno che abbia scelto questa vita di propria sponte. 

Il principio di volontarietà a cui si ascrive la condizione lavorativa del singolo attribuisce una responsabilità individuale rimuovendo completamente il contesto in cui la persona si muove. Si definisce così uno scenario in cui a coloro che sul lavoro altrui legiferano e si arricchiscono, non si può attribuire troppa responsabilità. A quanto pare se non hai un lavoro probabilmente è perchè non lo vuoi abbastanza!
Il ragionamento non solo non fila ma è in aperta contraddizione con l’impossibilità di sottrarsi al circolo vizioso di contratti a termine per 3 anni, corsi di formazione, indennità disoccupazione riassunzione fino a tre anni e così all’infinito... 

Come tutto questo non bastasse c’è da specificare che questo fantasmagorico intervento sul mondo del lavoro ha un orizzonte piuttosto limitato, restano fuori moltissime forme di contratto, per esempio le partite iva, una realtà lavorativa tutt’altro che residuale oggi. Questo Job Act, se inizialmente suscitava diffidenza come tutte le grandi riforme che dovrebbero risolvere la vita a tutti, dopo uno sguardo più attento si sostanzia nell’essere l’ennesimo tentativo di far pagare a noi la crisi e come abbiamo fatto con i precedenti lo rispediamo al mittente, creando quante più occasioni possibili per metterlo in discussione e contrastarlo.

Un ultimo commento resta da fare, quasi banale; bello il paradiso delle norme ma qui sulla terra lavoriamo tutti in nero!

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