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Il tempo è il nostro, è il nostro tempo. La flessibilità lavorativa da Ikea e da Carrefour

Il tentativo dell’Ikea di aumentare la flessibilità e di pagare meno il lavoro domenicale, l’apertura dei negozi Carrefour anche di notte, la domenica ormai considerata praticamente un giorno di lavoro normale nella grande distribuzione organizzata e in gran parte del commercio, ci mostrano come l’attacco al tempo di vita dei lavoratori non si ferma. I padroni non si accontentano mai, e non si fermeranno fin quando qualcuno non gli si metterà davanti per bloccarli. è ora di dire basta e smettere di tornare indietro.

“Ringrazia che hai un lavoro!” In quest’agosto di scioperi a qualche lavoratore dell’Ikea è capitato di sentirsi ripetere questa frase da qualche cliente. E sì: perché c’è la crisi, la disoccupazione è al 13%, quella giovanile al 45% e, nonostante i proclami bimestrali del governo Renzi e di quelli che l’hanno proceduto, non se ne vede la fine.
E quindi bisogna baciare le mani che ti danno lo stipendio, che se non vuoi lavorare dietro di te c’è la fila. Quanto senso di colpa hanno provato a buttarci addosso in tutti questi anni: i disoccupati non volevano lavorare, ché ai mercati generali c’era sempre posto; i giovani universitari che protestavano contro le riforme non avevano voglia di fare nulla, ché se volevano lavorare si dovevano sbrigare a prendere la laurea e magari non essere “choosy” ed accettare il primo impiego che gli veniva offerto (quasi quasi pareva che in Italia ci fossero milioni di pizzerie in cerca di pizzaioli!); gli immigrati dovevano ringraziare solo per il fatto di essere qua, lavorare duro e poi a casa a dormire ché disturbano solo a vederli in giro; i lavoratori pubblici non facevano nulla e quelli con contratto a tempo indeterminato erano dei privilegiati. E intanto, nel mondo del commercio come dei servizi pubblici, aumentavano sempre di più la flessibilità interna, introducevano nuovi “criteri di produttività”, finivano per considerare domenica e festivi giorni lavorativi normali.

“Io ti pago la giornata di lavoro e tu devi fare quello che voglio io” così era nell’Ottocento, prima che i lavoratori iniziassero con le lotte e gli scioperi a limitare l’orario della giornata di lavoro, prima a 12 ore (ma solo per i bambini) poi a 10 e infine ad 8 ore al giorno. E così rimane nella testa dei padroni. Magari non lo vediamo nelle aziende più grandi, dove i lavoratori sono ancora in qualche modo organizzati ed oppongono ancora una resistenza allo strapotere della dirigenza. Ma se si lavora per un piccolo padrone, o per una cooperativa dove si lavora a chiamata per il giorno successivo, quante volte capita sentirsi dare i turni giorno per giorno, non sapere quando si stacca, a volte non avere certezza nemmeno se quel giorno si lavora perché se al ristorante non c’è movimento si viene mandati a casa prima. E questa è la flessibilità: il padrone compra la tua forza lavoro per una giornata e vuole poterne disporre come vuole a seconda delle sue esigenze. Ne abbiamo conosciute tante in questi anni 30 anni di riforme, si era cominciato con la flessibilità in entrata nel 1977 quando avevano introdotto i contratti di formazione-lavoro per permettere ai giovani di accedere ad un “mondo del lavoro bloccato” ed esteso la possibilità di fare contratti a tempo determinato (una volta si potevano fare solo in casi molto particolari) a turismo e commercio, poi abbiamo avuto pacchetto Treu, legge 30, Jobs Act e finalmente i padroni possono assumerci scegliendo il contratto che più gli fa comodo, perfino pagandoci con un voucher dell’Inps ogni singola giornata lavorativa fino a 7000€ l’anno nella flessibilità più totale, senza nessun diritto in più di chi lavora in nero. Poi è arrivato il turno della flessibilità in uscita, cioè della libertà di licenziamento, già le aziende potevano licenziare liberamente in casi di necessità economiche, ma grazie alla riforma Fornero e al Jobs Act che abrogano l’articolo 18, tutto è reso più veloce e sicuro anche per i licenziamenti che non hanno motivazioni produttive o inadempienze del lavoratore. Ora si tratta di rendere ancora più flessibile tutto ciò che sta tra l’assunzione e il licenziamento: la giornata di lavoro.

“Appartenete al passato! È l’economia moderna a chiederci la flessibilità, dobbiamo cambiare per non perdere il passo del mercato internazionale!” Ci urlano in coro il presidente di Confindustria e Consiglio dei ministri, i professori della Bocconi e i giornalisti di Repubblica, “guardate cosa dicono l’Ocse, la Commissione europea e il Fondo monetario Internazionale”. E giù a citare le statistiche e le raccomandazioni delle istituzioni che ci hanno portato nel baratro della crisi, nella barbarie della guerra per il posto di lavoro. Davvero è l’economia moderna a volere la flessibilità? Non è questo l’eterno desiderio di chi nei trent’anni di attacco ai diritti dei lavoratori, di taglio alle spese sociali e di riduzione delle tasse per i ricchi ha visto moltiplicare la propria ricchezza di centinaia di volte, mentre i salari dei lavoratori addirittura diminuivano?
E noi a questo desiderio egoista di chi ha bisogno di noi per mandare avanti negozi, ristoranti, fabbriche e servizi pubblici, opponiamo il nostro desiderio di una vita felice, sana, con il tempo per stare con i figli, con i parenti o con gli amici, per fare sport, leggere o fare quello che ci piace. Non solo è giusto ma anche economicamente fattibile, perché non stiamo attraversando una carestia, una siccità o la distruzione causata da una guerra o da una calamità naturale, non c’è bisogno di lavorare di più per sopravvivere. Accanto infatti a chi è costretto a lavorare più ore al giorno, a turni massacranti e ad un riposo che diventa sempre più chimera, c’è la piaga di milioni di disoccupati, costretti ad “arrangiarsi” o ad emigrare. Che poi quando un lavoro lo si trova è per l’appunto quello descritto prima, che quasi quasi manco la schiavitù… Ma c’è di più: una grande disponibilità di ricchezza, forse anche in eccesso vista la quantità di beni inutili o poco durevoli che si producono e di quelli che rimangono inutilizzati o nascosti (si pensi all’evasione fiscale). Quello che vogliamo è distribuire equamente lavoro e ricchezza perché a goderne siano tutti, e non un’arrogante minoranza: quello che diciamo è lavorare meno lavorare tutti.

Ma se questi sono i nostri desideri, e se all’opposto c’è il desiderio dei padroni di sfruttarci come meglio credono, sappiamo che la realtà materiale è molto dura e che stiamo continuamente arretrando. Dopo la sperimentazione dei mesi scorsi in alcuni negozi, Carrefour a partire da giugno ha riorganizzato numerosi punti vendita aperti h24 7 giorni su 7, arrivando a 77 in tutta la penisola, non assumendo nuovi addetti ma imponendo l’estensione dell’orario ai part-time (grazie alla legge Biagi fino al raggiungimento delle 40 ore settimanali le ore in più sono considerate non lavoro straordinario ma lavoro supplementare, e pagate senza maggiorazione) ed il lavoro notturno. Il lavoro notturno costa tanto in termini di salute fisica, psichica e sulla vita sociale del lavoratore. Come dicono numerosi studi e come sa chiunque abbia lavorato di notte per lunghi periodi, di giorno si dorme meno, peggio, si è più nervosi e incontrare gli amici o i partner diventa un’impresa. Bisognerebbe ricorrere al lavoro notturno il meno possibile e pagarlo di più, molto di più, perché a chi lo svolge costa di più. Ovviamente un simile costo non sarebbe conveniente per Carrefour, visto che non sarebbero molti a fare la spesa dalle 22 alle 6 (l’orario in cui scatta la maggiorazione notturna); l’obiettivo dell’azienda francese è quindi di far lavorare di notte i lavoratori, ma pagandoli come di giorno, rendendo il lavoro notturno assolutamente normale.

Anche l’Ikea è all’attacco del costo del lavoro domenicale e festivo e vuole estendere la flessibilità interna, chiedendo ai lavoratori di lavorare su turni che rispettano le sue necessità produttive ma non quelle del tempo libero dei lavoratori. A fine maggio ha disdetto il contratto integrativo aziendale e i lavoratori hanno iniziato a lottare contro la possibilità di vedersi ridotte le maggiorazioni domenicali e festive, che significa una riduzione fino al 20% dello stipendio mensile. Nella proposta di nuovo contratto aziendale fatta dall’azienda a fine luglio si prevede una maggiorazione dei domenicali a scaglioni che vanno dal 40% al 70% (ora le maggiorazioni vanno dal 130% dei dipendenti più anziani al 30% degli assunti più recenti, una brutta fotografia dell’arretramento subito negli ultimi anni) e la subordinazione del versamento del premio aziendale all’accettazione di un nuovo sistema di turnazione più flessibile. Un sistema basato sul programma di compilazione turni T.I.M.E., che, sulla previsione del fabbisogno di manodopera dell’azienda, stabilisce i turni dei lavoratori distribuendoli su base verticale (un part-time verticale concentra le ore previste del contratto in 2-3 giorni alla settimana) o orizzontale (le ore di lavoro vengono distribuite su tutti i giorni della settimana), mista, con diversi giorni di riposo ogni settimana, orari diversi ogni giorno. È chiaro che la possibilità di programmare, non diciamo nel lungo periodo, ma finanche un paio di giorni fuori, sparisce praticamente del tutto…
I lavoratori Ikea hanno interrotto gli scioperi alla fine di agosto, in previsione del tavolo di trattativa del 14 settembre, in cui si troveranno ancora una volta davanti alla scelta di rinunciare al salario o di rinunciare al loro tempo libero, aumentando la flessibilità delle loro giornate in funzione dei profitti insaziabili di chi mostra una rigidità infinita nella difesa dei propri privilegi. A maggior ragione se si pensa che l’IKEA non può certo accampare la scusa della crisi aziendale per giustificare queste scelte, dal momento che continua a mietere profitti miliardari ogni anno.

Noi pensiamo che sia giunto il momento che a rinunciare siano loro e saremo con chi dice no ad ogni ipotesi di revisione in peggio del vecchio contratto integrativo. Che va cambiato, ma per estendere le maggiorazioni dei lavoratori più anziani a tutti i dipendenti. Per ripartire per riprenderci il tempo, il salario, la salute che ci hanno tolto in tutti questi anni.

da Clash City Workers

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