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[Il virus e la riproduzione sociale] Malattia mentale, punto di vista di una figlia

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L’epidemia di Covid-19 ha scoperto un’emergenza. La normalità di un’emergenza: il disallineamento tra la riproduzione capitalistica della realtà sociale e quelli della cura dell’umano. Gli ambiti della cura, assistenza domiciliare, salute e sanità, scuola, servizi sociali come settori di consumo di prestazioni e servizi alla persona non sono semplicemente stati stressati dalle condizioni straordinarie dell’emergenza, hanno realizzato l’insostenibilità della riproduzione dell’umano nella forma della merce. Utentizzazione, scaricamento dei costi sugli affetti prossimi, risparmio come strategie di produzione della merce-cura rappresentano i punti di rottura che dentro l’esperienza della pandemia obbligano a pensare nuove relazioni tra comunità-servizi-liberazione delle persone.

Come prima ricognizione su queste esperienze iniziamo a pubblicare alcune memorie dalla pandemia in rapporto alla questione della cura degli affetti, delle malattie e delle persone. Il testo che segue mette ben in evidenza la normalità dell’emergenza pre-esistente alla pandemia, l’esigenza di nuovi strumenti di liberazione collettivi e l’insostenibilità del servizio pubblico aziendalizzato in riferimento al sostegno della malattia mentale.

Malattia mentale, punto di vista di una figlia

Viviamo in una società in cui la malattia mentale non è ancora sdoganata, in cui c’è vergogna a parlarne, in cui ancora oggi si tende a nasconderla, marginalizzarla e trattarla quasi esclusivamente in via emergenziale, ricorrendo a metodi tampone, inefficaci, come i Trattamenti Sanitari Obbligatori.
Per lo più la gestione quotidiana dei malati è affidata alle famiglie.

 

Giovani care-giver

Mia madre è bipolare e io sono stata una giovane care-giver (tra noi i giovani care giver sono pre adolescenti e adolescenti), con tutto quello che ne comporta.
Quando penso alla malattia di mia madre è come se un macigno mi piombasse sulle spalle: i sensi di colpa, il senso di inadeguatezza e lo sfinimento arrivano tutti di un colpo su di me e mi fanno piccola piccola, ritorno bambina, in una stanza piena di ombre. Ancora oggi, dopo 15 anni di esperienza è così.

Più o meno è quello che accade a tutte e tutti i figli che sono stati giovani care giver.
Statisticamente siamo più donne. Anche chi ha dei fratelli, spesso si deve sobbarcare la cura del genitore malato e quella della famiglia in generale. Molte coppie si separano oppure il genitore sano si estranea, inizia a soffrire di depressione, ansia, attacchi di panico. E solitamente nella testa della bambina o del bambino scattano dei meccanismi di compensazione per cui sarà lei/lui a sobbarcarsi il carico emotivo della situazione familiare e successivamente il carico della cura della malattia.
Molte e molti sono risucchiati per anni nel vortice della malattia, mettendosi sempre in secondo piano rispetto alla salute del* malat*. Solo quando tocchiamo il fondo di noi stess* decidiamo di prenderci cura di quella bambina, di quel bambino che è stato messo in pausa a tot anni ed è diventato adulto per forza. E questo succede solo se siamo fortunat*. Molt* iniziano a loro volta a soffrire di depressione cronica, ansia e attacchi di panico.

Com’è possibile tutto questo?

Semplicemente perchè in questo siamo lasciati soli. Le istituzioni fanno finta che non esistiamo.
Penso che lo Stato mi debba 15 anni di stipendi e il rimborso di due anni di terapia.

Partiamo dal principio

Se sei abbastanza fortunat* diagnosticano la malattia. Se sei ancora più fortunat* la persona malata decide di farsi aiutare (se è in fase maniacale acuta probabilmente ciò succede dopo un TSO e con il supporto di un* brav* psichiatra).
Da questo momento in poi, la maggior parte delle volte tutto dipende dalle possibilità economiche della famiglia.
Se puoi permetterti uno psichiatra, che fa anche terapia, privato è molto più facile. Una volta a settimana c’è la seduta di terapia, in cui il professionista valuta anche la terapia farmacologica. E la famiglia può sempre pagare un infermier*.
Per fortuna la maggior parte delle malattie mentali se opportunamente seguite e curate, sono tenute sotto controllo, anche nelle fasi di acutizzazione. Se conosci il malato è tremendamente semplice accorgersi del cambiamento della malattia.
Se invece non hai le possibilità economiche, apriti cielo.
Ti rivolgi ai Centri di Salute Mentale in cui il personale è poco e il carico di lavoro enorme. La continuità medico-paziente non è assicurata, le visite non sempre comprendono la terapia, i familiari non sono interpellati, neanche quando il malato salta le visite, la continuità di cura è affidata completamente alla famiglia.
Spesso le famiglie non hanno gli strumenti per affrontare questo genere di situazioni. Ma il punto è proprio questo: non è compito delle famiglie averli. È semplice. La malattia del parente non è responsabilità delle famiglie. Sembra banale, ma per come sono impostati ora i CSM non lo è affatto. La prima domanda che ti pongono è: vivete insieme? Può somministrare lei la terapia?
E quando la malattia è in fase acuta: ma perchè non l’ha portata prima qui?

Le famiglie, i figli, le figlie non sono infermier*, né psichiatri, né assistenti domiciliari. Siamo parenti. Spesso vogliamo bene ai nostri congiunti, ma altrettanto spesso dobbiamo allontanarci da loro. Per salvarci. Il compito è delle istituzioni predisposte occuparsi della malattia. Noi dobbiamo occuparci se vogliamo di essere una famiglia. Pranzare insieme, scambiarci i regali a Natale, fare delle passeggiate al mare e cose del genere.
Non mi sto inventando niente, non sto pretendendo nulla di nuovo. È già tutto scritto. È già regolamentata sta cosa. Se una persona è paziente di un CSM la cura e responsabilità della malattia è del CSM. Tutto: dalla terapia al suo mantenimento, dall’amministratore di sostegno, all’infermità, all’incapacità di intendere e volere. I familiari (giustamente) non hanno parola su queste decisioni, nonostante che, sempre se sei fortunat*, l* psichiatra ha dei colloqui con i familiari.

L’unico modo per cui ho ottenuto qualcosa è stato lo scontro. Una volta mi hanno minacciata di farmi un TSO solo perchè, incazzata nera, ho preteso che si prendessero la responsabilità di somministrazione della terapia. Mi sono piazzata lì per ore finchè non mi hanno messo nero su bianco sta cosa. Ma in quanti hanno la forza di combattere anche con chi dovrebbe aiutarli?

Queste riflessioni volevano essere riflessioni di pandemia. Riflessioni in una fase emergenziale. Invece la realtà è che non c’è una fase emergenziale. È la normalità. È 15 anni che è così (ne ho trenta, probabilmente era così anche prima).

 

Nella pandemia

È stata una situazione stressante per tutte e tutti. Ognun* doveva combattere coi propri mostri, le proprie paure e le mille preoccupazioni che ne sono derivate.
Una situazione di forte stress emotivo è deleteria per un* malat*. Ed ecco che la consapevolezza di questo, l’esperienza maturata (senza alcun  titolo di studio), il senso di responsabilità e di colpa che molt* di noi abbiamo nel nostro bagaglio ci hanno fatto rizzare pelo e orecchie e occhi e cervello (insomma una tensione continua) a ogni minimo cambiamento dei nostri genitori/parenti.
A metà marzo la notizia. Non si effettuano più visite. Solo emergenze. Non si effettua più la terapia domiciliare. Solo consegna farmaci. “Però potete sempre chiamare al telefono i medici”. “Fino a quando?” Bo.
Ed ecco che di nuovo tutto il carico della malattia è sui familiari in una situazione già difficile di per se. Ma siamo così abituati a metterci in secondo piano, a mettere in pausa le nostre vite, che in realtà per noi è la normalità.

È ora di spezzarla questa normalità.

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