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Soluzioni del femminismo sindacalista per azioni collettive. La Laboratoria – Nodo Madrid

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Abbiamo tradotto questo approfondito e interessante testo de La Laboratoria – Espacio de Investigacion Feminista, del nodo di Madrid, che restituisce i contributi dei tavoli organizzati in occasione della conferenza “Il sindacalismo femminista che verrà”. Si tratta di importanti piste di riflessione verso un nuovo 8M che si avvicina. 

Nel dicembre 2020, la prima edizione della conferenza organizzata sulle pratiche femministe in chiave sindacale – riferendosi a un sindacalismo ampio e rinnovato, capace di affrontare la molteplicità delle nuove forme di sfruttamento attraverso il lavoro, ma anche attraverso la cura e la vita stessa – si intitolava “Il sindacalismo femminista che verrà”.

Oggi siamo molto felici di annunciare che la seconda edizione della conferenza si terrà il terzo fine settimana di febbraio 2022. Per ricordare ciò che stava già accadendo un anno fa e per scaldarci in vista del prossimo incontro, ripubblichiamo come bilancio questo articolo pubblicato originariamente su Pikara: raccoglie alcune riflessioni, in dialogo con ogni tavolo dell’incontro, per proporre un sindacalismo intersezionale, di base, auto-organizzato e focalizzato su questioni materiali oltre a quelle del lavoro, che possa permetterci di lottare insieme e resistere fino al raggiungimento dei nostri obiettivi.

 

Ci sembra urgente affinare le basi e gli obiettivi di un femminismo in movimento che prenda sul serio il legame tra capitalismo, patriarcato e colonialismo. Vogliamo farlo sulla base di lotte concrete, che non sono battaglie isolate, ma parte di un quadro comune di contestazione generale di questo sistema. E anche dalla consapevolezza che per lottare abbiamo bisogno di meccanismi di sostegno materiale ed emotivo, la generazione di reti sociali di sostegno reciproco, che hanno valore in sé perché sono, di fatto, il seme di quell’altra società che desideriamo. Quando facciamo in modo che l’organizzazione di cui ci dotiamo per lottare sostenga di fatto la possibilità materiale e soggettiva di quella lotta, allora non solo resistiamo agli attacchi e conquistiamo diritti, ma allo stesso tempo costruiamo autonomia, contropotere, nuove modalità di relazione e reciprocità, che a loro volta permettono la continuazione e l’accumulazione della nostra lotta come tessuto vivo.

Quello che diciamo non è nuovo: queste idee vengono dalle organizzazioni indigene americane, dalle lotte per i beni comuni europeee, dal primo movimento operaio e dalle sue prime mutue e sindacati: la lotta per, e la costruzione dei propri mezzi di produzione e riproduzione per affrontare la violenza del capitale e dello stato sono sempre andate di pari passo, come un modo di resistere all’espropriazione dell’autonomia di chi sta sotto, come un modo di aprire il presente e affermare altre possibilità. I femminismi si aprono anche come marea di tutti e tutte quando riescono a mettere al centro le condizioni materiali dell’esistenza e a costruire un “sindacato”, nel senso di reti stabili di sostegno reciproco che socializzano e politicizzano i disagi individuali, che combattono le battaglie nei conflitti concreti, in connessione con altre lotte, e allo stesso tempo mettono al centro il tessuto sociale, le infrastrutture e le istituzioni che si vanno costruendo lungo il percorso di lotta.

Che lo si chiami “sindacato” o meno non è il punto. Tutta l’azione dei sindacati gialli ha eroso il loro immaginario, anche se, se guardiamo la storia, la verità è che i sindacati sono stati la prima cosa che il neoliberismo ha dovuto distruggere per stabilire la sua egemonia e che la Transizione spagnola ha cooptato e creato per annullare il conflitto di strada. Quello che vogliamo sostenere è che il sindacalismo autonomo, con una priorità sull’autorganizzazione e sul conflitto intorno alle questioni materiali – non solo quelle del lavoro – se è femminista, se è intersezionale, può essere un fertile punto di riferimento organizzativo per la lotta nelle strade, nelle case e nei letti. Niente di nuovo: decine di collettivi e organizzazioni, dalla Plataforma de Afectados por la Hipoteca al Territorio Doméstico, dal Colectivo de Prostitutas de Sevilla alle reti di quartiere dei gruppi di autodifesa femminista o le organizzazioni sindacali a protagonismo femminile e femminista lo mettono in pratica. Sotto il loro segno, vogliamo esplicitare alcune delle premesse che queste pratiche contengono, per ispirarne molte altre.

Scriviamo in rottura con qualsiasi idea di femminismo come stile di vita individuale. In realtà, uno stile di vita femminista individuale è disponibile solo per coloro che hanno condizioni materiali di vita sostenibili, e questo è sempre a causa di una particolare origine di classe, livello di istruzione, colore della pelle e background, e di solito grazie al lavoro di altre donne con meno privilegi. L’identificazione del femminismo con la figura della “donna professionale emancipata e liberata” non fa che oscurare le reali relazioni di oppressione, sfruttamento e violenza che soffocano la vita della maggioranza delle donne e degli eterocis-dissidenti ed è, di fatto, funzionale all’attuale ordine del capitale.

L’ordine capitalista è abbastanza capace di integrare un certo numero di “subalterni”, purché si adattino allo stato delle cose. Inoltre, vengono usati per incolpare gli altri di non essere in grado di “arrivare dove sono arrivati”. Affrontare le oppressioni che si sperimentano nella propria sfera domestica o professionale, per quanto importante a livello rappresentativo e immaginario, se ha come unico risultato che alcune donne si “eguagliano agli uomini bianchi” in un sistema ingiusto, si scontra con il collo di bottiglia strutturale su cui si basa il sistema stesso, all’interno del quale ci sono sempre persone in basso che lavorano gratis o quasi.

Se vogliamo un femminismo che sia veramente capace di cambiare tutto, i bisogni dei più sfruttati e violati devono essere al centro del movimento: sono la prima linea del conflitto capitale-vita e la prima pietra senza la quale il sistema non può essere mantenuto. Solo sfidando le basi del sistema fianco a fianco, si può trasformare la situazione di tutte e tutti, non solo di poche, professioniste e per lo più donne bianche.

Siamo tutte lavoratrici

[In dialogo con la tavola rotonda ‘Rivolta femminista e trame organizzative intrecciate alla vita‘].

Partiamo da un terreno comune: siamo tutte lavoratrici e tutte svolgiamo lavori di cura nella nostra vita e in quella di chi ci circonda. Questa concezione cerca di includere tutto il lavoro quotidiano (fisico, mentale, emozionale, relazionale), al di là del lavoro, in cui siamo coinvolte e che portiamo avanti grazie alle reti sociali in cui siamo inserite e che sosteniamo. Non distingueremo tra produttivo e riproduttivo o tra umano e non umano. Ci sono una serie di lavori che devono essere fatti per garantire la vita e, ancora di più, per renderla dignitosa e buona: questi sono i lavori che contano per noi e che vogliamo mettere sul tavolo come misura dell’economia e della società. Questi sono i posti di lavoro da cui è partito l’appello allo sciopero femminista per far capire che, se le nostre vite non hanno valore, che vadano avanti senza di noi.

La base sessista e razzista dell’accumulazione capitalista

[In dialogo con ‘Smantellare la casa del padrone‘].

L’analisi violenza che subiamo sui nostri corpi è ciò che ci permette di riconoscere i punti di valorizzazione del capitale. Questa analisi è spesso sorta proprio nelle assemblee preparatorie agli scioperi femministi: quali compiti possiamo fermare e quali no, perché, da cosa dipende la nostra sopravvivenza, da chi?

Lo sfruttamento è la comprensione più classica dell’accumulazione capitalista delle sinistre europee, nella tradizione marxista. È il lavoro di cui si appropria il proprietario dei mezzi di produzione e dal quale ricava il suo profitto. Tutte le lavoratrici salariate sperimentano questo sfruttamento del lavoro, in modo differenziato a seconda del lavoro, naturalmente, e l’accesso al lavoro è mediato dall’istruzione, dalla classe, dal sesso, dal genere, e così via. Torneremo su questo punto.

L’appropriazione è la forma più antica dell’accumulazione capitalista, infatti è alla base della cosiddetta “accumulazione originaria”, ma non si limita al momento storico iniziale della nascita del capitalismo, ma costituisce il principale, il più persistente meccanismo: l’appropriazione, quasi sempre violenta e in tutti i casi senza compensazione, della natura non umana – terra, acqua, animali, sottosuolo – e del lavoro umano – dai nativi americani e dalla schiavitù africana a tutto il lavoro non pagato delle donne. Non si sottolineerà mai abbastanza che è questa appropriazione che permette la maggior parte dell’accumulazione capitalista.

L’estrattivismo che indichiamo qui (che non coincide con l’estrattivismo come forma esacerbata di appropriazione della natura di cui si parla abitualmente) comprende forme di accumulazione di capitale in cui il capitale estrae valore dalle nostre forze vitali in senso lato e in modi che sono solitamente indiretti o mediati. Il caso più eclatante è quello del debito: una volta indebitate, siamo costrette a organizzare la nostra vita e a mettere tutte le nostre energie nell’assicurarci di poter pagare. Le leggi sulla proprietà intellettuale estraggono anche valore dai prodotti culturali che per definizione emergono da reti sociali diffuse: questo è il caso di qualsiasi libro, ma è forse più visibile nell’industria della moda e nei suoi coolhunters. I dati potrebbero essere un terzo esempio: certe imprese estraggono dai nostri modi di vita informazioni, vendibili in sé, che servono a guidare le industrie e i loro profitti senza alcun ritorno.

Tutte le forme di accumulazione sono attraversate dall’antropocentrismo, dal sessismo, dal razzismo e dal sistema delle frontiere, poiché è ciò che permette l’accumulazione differenziale (sfruttamento, appropriazione, estrattivismo) tra territori e tra persone dello stesso e di diversi territori e, naturalmente, è ciò che permette l’appropriazione infinita della natura non umana. Svelare il ruolo del ciseterosessismo nel sostenere l’accumulazione è fondamentale e strategico per affrontarlo. Si genera una violenza permanente per adattare le persone al modello eterosessuale e familiare, che ci isola gli uni dagli altri e in cui si attribuiscono ruoli sessuali e comportamentali che sono anche economici (identità basata sul lavoro come ruolo normativo degli uomini / identità basata sulla cura / lavoro non pagato come ruolo normativo delle donne).

Da qui l’alleanza neoliberale e neoconservatrice che vede il mantenimento delle donne nei loro ruoli sessuali e di genere tradizionali come la stabilità indispensabile ai propri profitti. Allo stesso modo, il razzismo e il sistema delle frontiere, nucleo del sistema (post)coloniale, sono la base dell’accumulazione esacerbata che avviene fuori dal centro capitalista e, al suo interno, nei corpi razzializzati. Torneremo su questo punto più avanti, perché l’immaginario coloniale delle nazioni sviluppate/sottosviluppate, collocate in una linea temporale di tappe successive, ha permeato anche i movimenti progressisti che pensano che facendo progressi al centro, i diritti arriveranno fino agli altri punti. Gli altri devono solo combattere come loro. Non sembrano capire che i loro stessi posti di lavoro e le loro economie, il loro stesso stile di vita, si basano su questa accumulazione differenziale esacerbata e che, come nel caso delle donne, il fatto che alcuni lavoratori nel mondo abbiano dei diritti non intacca la base fondamentale del sistema. Ecco quanto sono importanti e anticapitaliste le lotte femministe, antirazziste e ambientaliste.

Sono le lotte che ci hanno dato questa mappa di accumulazione, dagli zapatisti alla Ni Una Menos globale, dai Gilet Gialli alla Via Campesina, dallo sciopero femminista agli scioperi indigeni, dai lavoratori a giornata di Huelva alle cacerolados popolari. È dai conflitti concreti che possiamo vedere le nostre posizioni relative, marcare strategie comuni, anticipare le tendenze del capitale, includere nei discorsi delle nostre lotte le realtà che appaiono lontane nelle divisioni produttivo/riproduttivo, salario/non salario, classe/razza, ma che comprendiamo come parte dello stesso se pensiamo al capitalismo come un complesso assiomatico capace di accumulare da diversi fronti. Per esempio, nel caso del passaggio dall’appropriazione del lavoro domestico delle donne europee allo sfruttamento del lavoro domestico delle donne migranti, l’apparente avanzamento di una lotta ha in realtà molto a che fare con un cambiamento nei meccanismi di accumulazione. Se guardiamo le interrelazioni a livello globale, possiamo sentirci parte della stessa cosa e pensare a priorità e strategie che ci portino tutte avanti.

 

Il lavoro deregolamentato come norma e tendenza

[In dialogo con ‘Quando il lavoro non sembra lavoro’ e ‘Pane e rose’].

La storia ci mostra che ciò che sembra normale al centro non è altro che eccezionale nel mondo e che le tendenze di ciò che accade al centro sono state sperimentate nella periferia il più delle volte: esattamente il contrario di ciò che sostengono le teorie dello sviluppo, dove la periferia e l’eccezione tenderebbero ad avvicinarsi gradualmente alla norma istituita al centro. Il lavoro salariato regolare che conosciamo nei centri dell’economia mondiale, non appena ha cessato di essere funzionale alla geopolitica internazionale e non ci sono state contropotenze per combatterlo ed estenderlo, ha teso verso quella deregolamentazione che è stata la norma storicamente e globalmente.

Nel centro sono sempre esistite, inoltre, importanti nicchie di lavoro deregolamentato. Un settore così massiccio come il lavoro domestico salariato è sempre stato regolato al di fuori dello Statuto dei lavoratori. La legge sugli stranieri e la panoplia di inclusioni che crea, con permessi di soggiorno e di lavoro differenziati, ha assicurato la deregolamentazione del lavoro migrante, che non era un’eccezione ma un pilastro dei nostri sistemi produttivi. Dall’agrobuisness all’edilizia e all’assistenza (di nuovo). La precarietà dei lavori temporanei e a tempo parziale sta erodendo da decenni il discorso dominante che presenta la nostra società come una società salariale a impiego stabile con “anomalie” che, se corrette, ci riporta alla norma. Ormai sappiamo fin troppo bene che non si tratta di anomalie, ma del funzionamento ordinario dell’accumulazione capitalista, basato sul lavoro precario per i giovani, le donne e i gruppi popolari. Con contratti di lavoro e di servizio e la nuova e più massiccia figura del “falso lavoratore autonomo” (figura ben nota nel lavoro sessuale, tra l’altro, altra grande nicchia del lavoro negato). È così che funziona l’economia della piattaforma, venduta come il più moderno dei modelli.

Molte lotte per il lavoro rimangono all’interno del quadro logico dello sviluppo che pensa ai termini di inclusione ed esclusione come fasi successive e non contemporanee. Tuttavia, la mappa completa dello sfruttamento, dell’appropriazione e dell’estrattivismo ci mostra che lo schema lavoro-impiego-salario non corrisponde alle nostre realtà materiali globali e che, nel capitalismo, un impiego regolare per tutti non è possibile, perché l’accumulazione si basa proprio sull’interazione tra queste dinamiche differenziali. Quindi richieste come il reddito di base o la fine del sistema delle frontiere devono andare di pari passo, completando qualsiasi lotta sindacale. Prima ne siamo consapevoli, prima possiamo iniziare a immaginare altri modelli di economia e lavorare insieme.

Costruire l’autonomia attraverso il sindacalismo sociale

[In dialogo con ‘Ci devono una vita’].

Quello che noi chiamiamo sindacalismo sociale è quello che ad altre latitudini si chiamano forme di supporto alla vita. È la costruzione di mezzi di riproduzione autonomi, dentro e contro il sistema, nelle crepe lasciate dal sistema e nella lotta contro di esso. La schiavitù salariale e la dipendenza dal welfare (e ora anche il ricatto della finanza a livello individuale e statale) ci lasciano assolutamente vulnerabili nella nostra vita quotidiana. Incapaci, quindi, di costruire dei contropoteri che ci costringano a dare la priorità alla nostra vita rispetto al profitto. Possono agire su di noi perché, al limite, non possiamo garantire la nostra sopravvivenza da soli.

In questo senso, abbiamo visto la centralità dell’autonomia ri/produttiva delle comunità indigene e contadine di tutto il mondo nel sostenere le loro lotte (blocchi cittadini e stradali) e la loro stessa esistenza. Da qui anche la necessità del capitalismo di distruggere le relazioni comunitarie, l’uso comunitario della terra e le economie di sopravvivenza per imporsi, come ha fatto definitivamente in Europa dal XVI secolo e continua oggi, con la violenza e l’espropriazione della terra in tutto il pianeta. E quindi gli unici che sono stati in grado di resistere al capitalismo nelle società salariali sono stati i sindacati, quando i lavoratori in sciopero potevano sostenersi almeno per un periodo di tempo. Ma la diversificazione del capitalismo fa sì che oggi possa smettere di contare su una parte della produzione per un tempo più lungo di quanto si possa stare senza salario. Il 15M e le piazze sono anche un esempio di una lotta che ha tenuto conto della sua riproduzione materiale (cibo, posti sanitari, pulizia) e relazionale (assemblee, segni di comunicazione, commissione di “rispetto”/convivenza) per mantenersi nel tempo.

La monetarizzazione della vita in tutte le sue sfere ci rende estremamente dipendenti dal salario e ci lega quindi mani e piedi di fronte alla lotta. Un obiettivo, semplicemente per essere in grado di combattere, è quello di coltivare i propri mezzi di riproduzione. Questo include canali alimentari autonomi, cooperative abitative e alloggi recuperati, strutture di cura collettive, centri sociali e spazi di autoformazione e aggregazione, casse di resistenza, gruppi di autodifesa, tra molte altre cose che possiamo immaginare. Di fatto, i lavoratori organizzati in sindacati all’inizio del XX secolo erano in grado di sostenere lunghi scioperi perché avevano tutta una serie di istituzioni comuni (commissari, atenei, cooperative di abitazione), sostenute anche per coloro che non erano salariati. Queste strutture autonome di riproduzione sono anche spazi per la costruzione di nuove soggettività e relazioni sociali, soggettività che hanno visto nella pratica che esistono altre forme di organizzazione, che conoscono il potere dell’autorganizzazione e la forza collettiva che fornisce.

Ma per lottare dobbiamo anche avere fiducia che i nostri compagni/e di lotta si facciano carico della riproduzione collettiva.

Oltre a sapere che siamo insieme, come sentirci insieme

[In dialogo con l’assemblea plenaria della riunione].

Molte di noi sono coinvolte in conflitti concreti, generano queste reti di sostegno, sostengono le istituzioni comunitarie. La marea femminista globale ha permesso di rendere più visibile che mai che siamo migliaia, non solo in ogni città o regione, ma anche a livello internazionale. Sappiamo di essere insieme, sappiamo che soffriamo in modo diverso per le diverse facce dello stesso sistema e che condividiamo le stesse esigenze. Ma come possiamo sentirlo quando siamo in una battaglia specifica e siamo tutte così coinvolte che non possiamo mettere i nostri corpi nelle battaglie degli altri? Come possiamo trasmettere nelle nostre lotte che non siamo solo noi, che ci sono molte altre con noi, altre in altri luoghi e latitudini con cui risuoniamo in comune? Quando trattiamo con un padrone di casa per uno sfratto, come possiamo affermare che non siamo 50 ma 500, 5000 donne vicine?

Lo sciopero dell’8M ci ha permesso di testare la nostra capacità di coordinarci e di agire allo stesso tempo. Ci sembra che abbiamo bisogno di affinare questa capacità, di usarla di più, di praticarla su diverse scale, di stabilire spazi più continui di incontro e scambio, di appoggiarci più esplicitamente in ogni conflitto. Come ha detto Constanza Cisneros all’incontro de El feminismo sindicalista que viene, “organizzarsi è cominciare a vincere”, e pensare alle nostre organizzazioni e alle nostre forme di lotta, come sono e a cosa vogliamo che servano, è una parte fondamentale del percorso.

*Nota finale:

15 organizzazioni di base hanno partecipato alla costruzione dell’evento e/o ai tavoli come oratori: Feministas en acción, Territorio Doméstico, Sindicato de Trabajadoras del Hogar y de los Cuidados, Observatorio Jeanneth Beltrán de Derechos de las Empleadas de Hogar, Riders por derechos, Asociación de Jornaleras de Huelva en Lucha, Limpiadoras del Gregorio Marañón, Grupo de Mujeres de la Plataforma de Afectadxs por la Hipoteca de Vallekas, Sindicato de Inquilinxs de Madrid, Association Forum des Femmes au Rif (AFFA), Unión de Acción Feminista Marruecos, Colectivo de Prostitutas de Sevilla, Activistas por los derechos de los camareras de piso Kellyys, Trabajadoras de Residencias de Mayores e Grupo de Autodefensa Feminista.

L’evento è stato un successo. Le iscrizioni erano al completo la mattina stessa dell’apertura. Oltre alle 30 iscrizioni riservate alle organizzazioni invitate, la media dei partecipanti è stata di 50 persone, riempiendo la capacità prevista giorno dopo giorno. La partecipazione online è stata in media di 150 persone, raggiungendo 217 persone alla conferenza inaugurale, che era esclusivamente online.

Nota degli autori:

Alcune raccomandazioni di libri da leggere e approfondire l’argomento:

Orizzonti comunitari popolari, di Raquel Gutiérrez

La potenza femminista, di Verónica Gago

Il punto zero della Rivoluzione, di Silvia Federici

Produrre il comune, a cura di El Apantle

Il capitalismo nel tessuto della vita, di Jason Moore

Testo originale qui : http://laboratoria.red/publicacion/claves-del-feminismo-sindicalista-para-acciones-colectivas/?fbclid=IwAR3NC2mDErzrGFuvI9zEYPMiPqDyGwSP_3i-Qgc-4mPFnFHTRnOLRqLlx80

 

 

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