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Insolvenza di classe

 

Uno spettro si aggira per il mondo: l’insolvenza. In dicembre la Banca d’Italia ha rinnovato l’allarme: il 5% delle famiglie italiane che ha fatto un mutuo non riesce a pagarne le rate. La percentuale sale al 19% tra i disoccupati, a cui vanno aggiunti gli alti livelli di insolvenza tra precari e persone a basso reddito. Ma non è tutto: i dati sono ricavati da un’inchiesta del 2007, dunque è chiaro come il numero delle persone che non restituiscono i soldi prestati sia in vertiginosa crescita. La quota di insolventi rappresenta un record in Europa, ma com’è ampiamente noto il trend è europeo e globale. La crisi cominciata nel 2007 ha proprio in questo fenomeno un elemento fondante. Negli Stati Uniti sono figure molto specifiche quelle che – per pagarsi una casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria o la mobilità – hanno fatto ricorso ai subprime, da cui il nome dei mutui: disoccupati, donne single, molti afro-americani, latinos, ampi settori della working class e della middle class in rapida proletarizzazione. Nel frattempo, il debito studentesco – progressivamente ingigantitosi negli ultimi vent’anni – ha raggiunto livelli esplosivi. Per frequentare un’università si accumulano decine di migliaia di dollari, il che significa una drastica riduzione del salario monetario spesso prima ancora che esso sia effettivamente percepito. Il non ripianamento del debito in tutte le sue forme – per scelta e soprattutto per impossibilità – ha fatto saltare il sistema.

Proprio il sistema del debito, quindi, squaderna davanti ai nostri occhi le caratteristiche del capitalismo contemporaneo. Innanzitutto, la finanziarizzazione del welfare che accompagna lo smantellamento del modello pubblico-statale. Modello che, sarà bene ricordarlo a chi oggi si dichiara acriticamente per la sua difesa o restaurazione, era stato oggetto di contestazione da parte dei movimenti e delle lotte degli anni ’60 e ’70, da quelle operaie a quelle studentesche e femministe. In secondo luogo, indica il processo di precarizzazione e declassamento che è diventato caratteristica strutturale e permanente dei rapporti sociali di produzione, travolgendo anche quello che si chiamava ceto medio. L’impoverimento, infatti, oggi qualifica i soggetti del lavoro: non è più, cioè, sinonimo di emarginazione o esclusione, ma al contrario definisce le griglie gerarchiche di inclusione. Infine, però, il sistema del debito deve fare i conti con l’incomprimibilità e irreversibilità dei bisogni sociali conquistati dalla moltitudine. Negli Stati Uniti e in Inghilterra, ad esempio, nonostante il continuo aumento delle tasse (ulteriormente aggravato dalla necessità di coprire i buchi di bilancio delle università in crisi), i tassi di iscrizione alle istituzioni dell’istruzione superiore continuano ad aumentare: ciò succede, inutile dirlo, attraverso il debito. E lo stesso si può dire per l’ampio ricorso a mutui e carte di credito che, con buona pace dei moralisti di sinistra, è uno strumento per garantire livelli di vita decenti, o almeno sopportabili.

É questa la composizione sociale che ha invaso le piazze e occupato le università di tutta Europa e del mondo per rivoltarsi contro le politiche di austerità. Studenti e precari che vedono nel debito un’ipoteca non solo sul proprio futuro, ma innanzitutto sul proprio presente; lavoratori che non riescono a pagare le rate del mutuo; cassaintegrati preoccupati non tanto di riacquistare il proprio posto, ma del pignoramento della casa; giovani e meno giovani che si trovano senza un salario e senza una qualche forma di reddito. Da questo punto di vista anche le retoriche meritocratiche in Italia, inquietantemente diffuse nella composizione del movimento dell’Onda, iniziano a bruciarsi. L’ambigua illusione di potercela fare individualmente nella crisi, a patto di lavorare duro e con umiltà, è per i molti giovani che si sono riversati nelle piazze italiane durante l’autunno priva di qualsiasi pur perversa base. I giovani tra i 15 e i 20 anni, asse qualitativamente portante del recente movimento, iniziano a essere i figli della prima generazione di precari, di figure declassate, e in molti casi di migranti, per cui devono portare l’etichetta di seconde generazioni. Il referente più prossimo, quello della famiglia, è quindi immediato specchio dell’impossibilità di salvarsi individualmente. Il progressivo asciugamento del welfare famigliare delle generazioni precedenti rende dunque l’insolvenza una pratica necessaria per soddisfare i bisogni socialmente conquistati.

Qui prende corpo una parola d’ordine delle lotte: diritto alla bancarotta per i precari. Non si tratta di un’enunciazione provocatoria o suggestiva, ma di una parola d’ordine che nasce dalle pratiche di resistenza diffusa. Negli Stati Uniti da un paio di anni viene addirittura portata davanti alle corti, per impedire pignoramenti o galera ai precari insolventi, rovesciando così il diritto riconosciuto alle imprese contro i lavoratori e il bailout pubblico delle banche. In questa direzione il Knowledge Liberation Front (KLF, rete nata dall’incontro di Parigi dello scorso febbraio) ha promosso, dal 24 al 26 marzo, tre giorni di azione comune transnazionale contro le banche e il capitalismo finanziario, con importanti iniziative di lotta in molte città europee e non solo, fino ad arrivare a quella che è stata definita la “semi-insurrezione” di Londra. Attenzione: non si tratta di contrapporre la finanza a una supposta economia reale, le banche alle imprese, un capitalismo buono a uno cattivo. Al contrario, la finanziarizzazione viene definitivamente riconosciuta come la forma dell’economia reale oggi. L’estensione spaziale delle iniziative durante la tre giorni di mobilitazione e i soggetti coinvolti indicano questo come un terreno centrale, ricompositivo e immediatamente traducibile sul piano transnazionale, pur ovviamente con differenti declinazioni. Proprio la lotta contro il debito e per il diritto alla bancarotta va oggi intesa come una riconfigurazione della lotta sul salario come lotta sul welfare, per la riappropriazione collettiva della ricchezza sociale e della rendita, cioè sulla costruzione di istituzioni del comune. Trasformare la lotta contro il debito in spazio di organizzazione delle nuove figure del lavoro: ecco il nodo politico.

I tre giorni di azione transnazionale del KLF costituiscono anche, in Italia, un’indicazione politica per lo “sciopero generale” del 6 maggio (le virgolette sono, in questo caso, d’obbligo per entrambi i termini). Da un lato perché permette di uscire dalle secche provinciali del dibattito italiano, indicando le nuove coordinate globali dell’azione politica. Dall’altro, se si vuole fare in modo che una rivendicazione espressa con forza dalle lotte durante l’autunno non si rovesci nel suo contrario, ovvero nel termidoro della sovranità della segreteria Cgil contro le lotte stesse, bisogna iniziare ad andare oltre l’idea della semplice alleanza tra settori del lavoro e dei movimenti, o – peggio ancora – tra le loro supposte rappresentanze, per identificare gli spazi e le pratiche della ricomposizione. Allora, o le parti del sindacato che si ritengono più vicine ai movimenti vengono forzate su questo terreno, oppure si consegnano le prime a una resistenza conservatrice, e i secondi all’illusione dell’efficacia politica senza inchiesta e senza programma, dunque senza prospettive di trasformazione radicale.

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