La guerra in Libia partirà a pochi chilometri dal Modenese
Di Gianluca Di Feo, Esclusiva dell’Espresso
Sarà una guerra in subappalto, la prima mai realizzata. Ci sono stati conflitti affidati a mercenari e contractors, ma non si era mai vista un’operazione bellica “per conto terzi”. Eppure l’unica strada per continuare la campagna aerea sulla Libia sembra essere questa: delegare la gestione dei raid al comando Nato, che si comporterà come un service agli ordini di altri organismi politici tutti da inventare. Non sarà il vertice politico della Nato a guidare l’attività militare come accadde in Bosnia, nel Kosovo e come avviene ogni giorno in Afghanistan. E non saranno nemmeno gli americani, seppur integrati da alcuni alleati, come fu nel 1991 e nel 2003 contro l’Iraq. E non saranno neppure le Nazioni Unite come in Somalia nel 1992. In questi giorni si sta definendo una struttura inedita, che tenterà di mettere ordine nella confusione dell’armata occidentale, sfruttando le capacità tecniche dell’Alleanza atlantica.
L’Italia spinge perché “l’appalto” venga affidato alla base ferrarese di Poggio Renatico: un grande bunker dove hanno sede il comando delle nostre forze aeree (Cofa) e lo stato maggiore Nato che coordina gli stormi sul fronte Sud dell’Alleanza, indicato con l’acronimo Caoc-5. In tal caso, la regia sarebbe in mano a un ufficiale italiano: il generale Carmine Pollice, che comanda entrambi gli organismi. Pollice è un pilota formato in Canada, che ha diretto strutture internazionali, ha preso parte alla pianificazione delle incursioni sulla Bosnia e oggi presiede il Consiglio superiore delle Forze Armate, che “consiglia” il ministro La Russa sulle questioni chiave: il profilo ideale per farsi carico della campagna. Agli americani, ansiosi di liberarsi della responsabilità di questa strana guerra, la soluzione piace: la base italiana verrebbe integrata nel dispositivo Nato di Napoli, dove la stanza dei bottoni è in mano a un ammiraglio statunitense.
Le resistenze vengono da francesi e britannici, gelosi della loro leadership nelle operazioni contro Gheddafi, e da alcuni membri dell’Alleanza, come Turchia e Germania, che non vogliono essere coinvolti nel conflitto. Ma subappaltare al “Nato service” la gestione dei raid al momento è l’unica ipotesi concreta per evitare che le incursioni della coalizione si trasformino in un tiro al bersaglio senza coordinamento, con gli stormi di differenti nazioni che fanno a gara tra loro. Il cuore della base di Poggio Renatico è una centrale sotterranea su tre livelli, dove arrivano sugli schermi le informazioni raccolte dalle postazioni radar lungo le coste della Penisola, dalle navi della flotta nel Golfo della Sirte, dai grandi occhi elettronici volanti Awacs, dai satelliti e dagli aerei spia senza pilota. Praticamente tutto il cielo del Mediterraneo è sotto controllo ed è possibile collegarsi con qualunque unità aerea o navale coinvolta nell’operazione.
Nei bunker lavorano insieme ufficiali di tutti i paesi della Nato, formando uno staff addestrato proprio per analizzare i dati sulle forze libiche, individuare i bersagli prioritari, decidere con quale mezzo attaccarli e quindi pianificare l’incursione. Il tutto dopo avere ricevuto il via libera dalle autorità politiche. Ai tempi del Kosovo, Poggio Renatico dipendeva dal vertice politico della Nato. Adesso si dovrà inventare un direttorio, designato dai governi che prendono parte all’iniziativa contro Gheddafi. Ci saranno rappresentanti americani, francesi, inglesi, italiani, spagnoli, belgi, danesi e canadesi con un equilibrio di poteri che deve essere ancora definita.
Questo tavolo politico fornirà le indicazioni sul futuro della campagna. Perché la parte più difficile deve ancora cominciare. Missili e bombe hanno praticamente distrutto tutti gli obiettivi fissi del regime di Tripoli: hangar, radar, postazioni missilistiche fisse, depositi, caserme. La no-fly zone è stata imposta su tutta la costa libica: il cielo è dominato dalle squadriglie della coalizione. Adesso bisogna dare la caccia ai mezzi corazzati e ai semoventi che sono appostati tra i palazzi delle città riconquistate dall’esercito fedele a Gheddafi e dai centri della Tripolitania più legati al colonnello.
Una missione che obbliga i jet occidentali ad abbassare la quota, esponendosi al tiro di mitragliere e dei piccoli missili portatili a guida infrarosso. Ma che soprattutto aumenta i pericoli di danni collaterali alla popolazione, con il rischio di colpire quei civili che la risoluzione Onu 1973 ha chiesto di proteggere. Dopo avere sopportato il peso della prima ondata, scagliando oltre 150 cruise e schierando un centinaio di aerei, oggi Obama vuole ridurre l’impegno del Pentagono. In primo piano ci saranno gli europei, soprattutto l’asse franco-britannico che attacca dagli aeroporti corsi, siciliani e ciprioti oltre che dalla portaerei De Gaulle.
Accanto a loro gli italiani, con Tornado e gli Harrier a decollo verticale della portaerei Garibaldi; squadriglie di caccia spagnoli, danesi, canadesi e belgi. Unica componente esterna alla Nato sono i Mirage del Qatar, che hanno affiancato gli stormi francesi. Finora questa armata messa insieme di corsa ha preso ordini dagli Usa: un ammiraglio americano, affiancato da un vice britannico e uno francese, coordina le azioni dall’incrociatore statunitense Mount Whitney. I problemi non sono mancati, a partire dal primo assalto voluto da Sarkozy che ha spiazzato gli alleati. E la previsione di una lunga campagna, con gli aeroporti italiani sempre più in prima linea, adesso impone di rivolgersi alla Nato e al bunker ferrarese dell’Aeronautica militare.
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