La recessione che viene – parte 1
Pubblichiamo la prima parte di un contributo a riguardo della recessione che verrà, della quale nei tempi recenti una grande fetta di popolazione mondiale ha iniziato ad assaggiarne le prime implicazioni. Dalla pandemia alla guerra una riflessione che prova ad andare in profondità, alla ricerca delle cause e delle responsabilità di un fenomeno all’interno del quale occorre individuare spazi di possibilità, per quanto siano stretti nelle maglie del capitale.
1 – La recessione che viene c’entra e non c’entra con la pandemia. Le premesse erano già gettate, il grande flusso di denaro che è stato immesso dagli Stati e dalle istituzioni transnazionali per rispondere alla crisi pandemica è stato semplicemente un tentativo di posticipare l’esplosione. La pandemia è un epifenomeno di una serie di eventi più complessi che sono la trama della crisi climatica e del suo impatto sulle catene di approvigionamento, sulla produzione e sulla riproduzione delle società. La grande siccità di queste estate, piuttosto che gli eventi metereologici estremi sempre meno localizzati e più in generale, a livello globale intere aree del pianeta che tendono a divenire zone di sacrificio stanno dentro questa dinamica. La crisi climatica non impatta solo sull’estrazione delle materie prime, sulla circolazione delle merci e sul loro stoccaggio, ma riguarda anche direttamente le trasformazioni della forza-lavoro: si pensi al legame, mai troppo esplorato, tra la pandemia e le Grandi Dimissioni quanto ai milioni di migranti climatici in marcia dalle zone più colpite del globo. Si pensi ad una classe lavoratrice sempre più affetta dall’affaticamento, dalla malattia, dall’insicurezza sociale.
L’impatto sulle catene del valore è sicuramente non univoco, una crisi rappresenta sempre una tragedia per qualcuno ed un’opportunità per qualcun’altro, ma l’illusione della transizione green con economia di mercato si sta sciogliendo come neve al sole. Non solo perché, come denunciano i movimenti climatici, si tratta di una falsa transizione, ma anche perché ad oggi richiede investimenti dal costo enorme (in un circolo vizioso in cui l’aumento dei prezzi è provocato in parte dalle conseguenze reali della crisi climatica) che relativamente pochi capitalisti hanno interesse a perseguire, anche se agevolati dagli stati. Dunque il mercato della “transizione”, come d’altronde una buona quantità degli investimenti del capitalismo occidentale, rimane in gran parte speculativo e fittizio.
2 – Alla lunga questo continua a rappresentare un problema enorme, in primo luogo perché viene a mancare la capacità di ristrutturazione complessiva della società, cioè di un “balzo in avanti” attraverso vari strumenti di innovazione tecno-sociali che riportino i fattori produttivi ad un equilibrio non troppo caotico. Se il capitale rimane fittizio o viene speso per investire in nicchie dall’alto valore aggiunto come spararsi nello spazio con una navicella fallica, allora è chiaro che la possibilità di un rinnovamento generale sembra molto difficile. Il problema è di una certa consistenza anche perché la parte di mondo non-occidentale è quella che in questo momento sta maturando alternative più o meno capitalistiche con una propulsione reale che in una dinamica competitiva potrebbero realmente mettere in discussione a questo punto l’egemonia del lato di mondo in cui siamo a fatica collocati. Come risolvere questo dilemma per salvare capra e cavoli? Ciò che sta venendo messo in campo (e che la dice ulteriormente lunga sulla scarsa capacità immaginitiva della sfera occidentale) è un tentativo di spingere su un’ulteriore concentrazione dei capitali nella speranza che tale concentrazione porti effettivamente ad una serie di investimenti reali. Dove si prendono questi capitali? Ma ovviamente dal salario e dal reddito delle classi popolari, dalla compressione della classe media e di ciò che rimane della piccola e media industria e dal tentativo di scaricare gli effetti più nefasti della spirale recessiva sulla periferia del sistema (quindi anche e forse soprattutto su di noi). Dunque la recessione viene di fatto “rilasciata”, cioè vengono progressivamente dismessi gli strumenti che fino a questo momento l’avevano tenuta in sospeso. Sarà veramente una soluzione dal loro punto di vista? E’ difficile fare previsioni, ma ci sono almeno tre elementi che fanno pensare il contrario. In primo luogo questa è una crisi totalmente differente da quelle precedenti, poco ha a che fare ad esempio con la crisi inflattiva degli anni ‘70 (anche per questo ci troviamo di fronte all’apparente contraddizione tra la politica monetaria ed i piani di investimento pubblico varati ad esempio negli Stati Uniti), dunque la domanda che sorge è se questa crisi sia di fatto il prodotto del peculiare stato di sviluppo del capitalismo occidentale in questa fase. La seconda, direttamente collegata con la prima, è che non è affatto detto che la maggiore concentrazione di capitali trovi una realizzazione nell’economia “produttiva” cioè nella necessità del re-shoring industriale almeno parziale, nell’intensificazione dell’estrattivismo e nella ristrutturazione di un nuovo assetto sociale. Potrebbe semplicemente continuare a valorizzarsi per lo più nei circuiti finanziari come fa, senza particolari interruzioni, dalla fine degli anni ‘70. La terza riguarda l’aspetto degli Stati Uniti come impero basato sul debito: se si guardano i precedenti lì dove le grandi potenze egemoniche si spostano in una posizione debitoria è difficile invertire la rotta e impedire che altre potenze con forze produttive più “ruspanti” contendano il primato. In questo quadro si inserisce la questione della guerra.
3 – La guerra è e non è una causa della recessione che viene. Se ci si attiene al fattore dell’inflazione la guerra incide come fattore cumulativo, ma come abbiamo già detto per lo più fino ad adesso sono stati altri i fattori che hanno permesso l’aumento dei prezzi. Oggi assistiamo ad un ulteriore salto, cioè ad una progressiva maggiore divaricazione tra l’economia occidentale e quella a guida russo-cinese. Il price cap recentemente annunciato dal G7 è un elemento che va proprio in questa direzione.
Il gioco degli Stati Uniti è quello di provare a seminare caos diffuso che impegni i competitor in un dispendioso utilizzo di risorse, di mezzi e che rallenti il processo di declino dell’egemonia. Ma non si tratta solo di questo, la guerra capitalista, come sempre, serve a bruciare capitali, forza-lavoro in eccesso e a rilanciare l’economia attraverso la spesa pubblica in armamenti e la speculazione. Dunque questa guerra sempre più diffusa e sempre meno “confinata” all’ambito militare sul campo si inserisce perfettamente nel quadro della recessione come tentativo, anche qui, di aumentare la concentrazione dei capitali, ma anche di stabilire i nuovi confini di una globalizzazione non più “globale”. L’elemento strategico dell’energia in questa guerra è esemplificativo, per alcuni versi più che in passato e si manifesta in una mossa a tenaglia sull’Europa che è allo stesso tempo nuovamente il terreno su cui scaricare la crisi, a questo punto anche in forma militare, sia il bottino da tenersi stretti per evitare che le tentazioni russo-cinesi provochino qualche ulteriore forma di scomposizione del fronte occidentale (Per chi volesse approfondire consigliamo questo ottimo articolo di Alexik su Carmilla). La guerra dunque è per certi versi già globale, anche se il livello di profondità della distruzione a cui arriverà non è dato, dipende da diversi fattori e purtroppo anche da una serie di variabili impazzite che è impossibile prevedere. Ciò che è certo è che al momento il tempo delle mediazioni è finito, gli USA hanno imboccato una strada a senso unico, la Russia li ha seguiti e la Cina, seppure contro voglia, non può permettersi di non giocare questa terribile partita. L’unica variabile che può emergere in un senso trasformativo è un ritorno della lotta di classe transnazionale, ma al momento non si vedono che deboli lumicini. Che la recessione che viene possa esserne un catalizzatore?
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