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La storia non sente ragioni. In memoria di Mohamed Bouazizi

Fiumi di parole non ripagheranno il mondo della perdita di un venditore ambulante in più, di un ventiseienne in più, di un Mohamed in più. Non lo ripagheranno la dedica di una piazza a Tunisi o di una strada a Parigi; e già nell’accostamento di questi nomi si comprende quanto quel nome, il suo nome, quello di Mohamed, possa oggi prestarsi a diversi, tra loro inconciliabili, usi. La sua memoria è cara ai giovani che ogni giorno si battono in Tunisia contro le attuali istituzioni per portare a termine la rivoluzione; ma è pomposamente onorata da quelle stesse istituzioni, dalle loro forze repressive e dai tanti funzionari che, dopo aver amministrato l’oppressione e la corruzione per decenni, sono ancora ai posti di comando. È rivendicata, inoltre, dal governo francese, erede di una sapienza secolare nel vendere il colonialismo come progresso e la sottomissione come rivoluzione, e a insinuare i suoi interessi in Nord Africa con la subdola strategia del supporto politico a chi può, semplicemente, assicurare pace sociale e buoni commerci: ieri Ben Ali e Gheddafi, oggi i loro precari, “rivoluzionari”, successori. Questa patetica e civilissima Francia non ha gradito, come l’altrettanto impresentabile Italia, l’arrivo dalla Tunisia dei tanti Mohamed respinti alla frontiera la primavera scorsa. Mentre erano presi a calci e pugni nelle stanzine lerce dei “centri di accoglienza” di Lampedusa o nei commissariati di Roma e Parigi, la memoria del loro prototipo risultava cara a Sarkozy e Berlusconi, Napolitano e Delanoë, anche se, c’è da giurarlo, in modo diverso rispetto alla sua famiglia, ai suoi amici, ai ragazzi passati in poche ore da “eroi” della rivoluzione straniera a clandestini in patria.

Eppure, nonostante questa differenza sia palese, resta l’interrogativo: esiste un modo “rivoluzionario” di esprimersi con pose magniloquenti su un ragazzo suicida, o in modo meno magniloquente ma ugualmente idealizzante, per esempio insistendo sulla sua laurea quando la sorella ha dichiarato a più riprese che non aveva neanche un diploma (e semmai manteneva a lei gli studi universitari)? C’è sempre un che di fastidioso nella giustificazione e quasi nell’apologia della morte, qualcosa che stride ancor più quando è stato l’oggetto stesso della nostra sinistra ammirazione a sceglierla. Cosa c’è di positivo in un decesso, in un suicidio? In prima fila, a scrivere dell’eroe, c’è chi non rischierebbe un’unghia non già contro la polizia del proprio stato, ma contro il proprio capo-redazione. Viene da pensare alle morti celebrate dagli stati stessi, ai Militi Ignoti, ai Grandi Monumenti, ai pomposi mausolei, all’infinita retorica. In una scena intensa del romanzo di Elio Vittorini Conversazione in Sicilia (reso magistralmente un film da Jean-Marie Straub e Danielle Huillet) una piccola folla circonda il Monumento ai Caduti nella piazzetta di un paesino siciliano. Il protagonista, che ha appena incontrato, al cimitero, lo spettro del fratello morto in guerra, dichiara che ogni centimetro di bronzo innalzato ai caduti è una beffa in più alla loro memoria: molto semplicemente – ma con verità schiacciante – nessuno renderà la vita che è stata tolta.

La storia è piena di questi tributi; non soltanto militaristi o fascisti, ma giacobini, liberali, comunisti; le città di tutto il mondo hanno scritto nelle loro pietre o nelle loro vie qualche mito di fondazione, o il nome di qualche mitico fondatore; qualcuno che ha capovolto (letteralmente: rivoluzionato) la realtà del passato, rendendo possibile quella del presente e, nelle sempre indelicate trasfigurazioni dell’architettura e dell’arte, giustificandola. Il presente appare razionale se è un esito, una fine di qualche storia; questo vale per i rivoluzionari come per i conservatori (tra cui si annoverano forse i rivoluzionari, dopo la loro vittoria?). Non solo: come ha ricordato Marx ne Il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, la rivoluzione stessa veste i fasti delle glorie passate: il fantasma di ciò che non c’è ancora deve, per apparire, rappresentarsi, e non può farlo se non attingendo al vecchio arsenale carnevalesco. La rivoluzione francese trova un precedente, nei quadri di Jacque-Louis David, nelle virtù romane, e la farsa di Napoleone III esibisce il trucco sfatto e patetico di una mascherata imperiale, da Napoleone I. La rappresentazione di sé, anche attraverso l’uso dell’altro, non è attributo decadente o improprio dei movimenti politici, ma necessario. Innalzare le foto dei martiri e i loro mitra, le salme, le bandiere; esibire un modo di camminare, di cantare o di vestire come firma sociale o idioma politico, è un fatto inevitabile: l’evento della trasformazione saccheggia la storia perché è, esso stesso, prodotto della storia.

Eppure, Mohamed Bouazizi compie inconsapevolmente il proprio “miracolo” da vivo e non da morto, come uomo reale. Il miracolo letterale di essere non soltanto un piccolo prodotto della storia ma, del tutto sproporzionatamente, di produrre la storia. Un venditore ambulante si dà alle fiamme, e il mondo intero va in fiamme. Perché? Perché la miccia era proprio Basboosa, e non uno degli altri, dei milioni di altri? Che senso ha un simile accadimento? Come si fa – è possibile fare – la storia? Le società non sono soggette alle leggi chimiche che fanno superare a una certa quantità d’acqua, qui e ora, il punto di ebollizione. Quando Napoleone attraversò Jena, nell’ottobre 1806, Hegel era affacciato alla finestra: scrisse in una lettera di aver visto “lo spirito del mondo seduto a cavallo, che lo domina e lo sormonta”. Come ci si può esprimere in questo modo? Come può uno spirito sedere a cavallo? Uno spirito che era per Hegel la Ragione, qualcosa che è razionale nell’ordinare le cose ed ha al tempo stesso moralmente, eticamente ragione: l’astuzia della ragione, che si serve di questo o quell’altro essere umano per dare il la all’incedere della storia. La collera autolesionistica di Bouazizi ha portato la sua cittadina alla rivolta; la sua morte, all’inizio del 2011, l’ha estesa a tutta la Tunisia, all’Algeria; sono bastate poche settimane e l’Egitto, lo Yemen, la Libia andavano dove sono andati, fino a oggi, quando un secolo sembra passato, mentre tutto il fragile equilibrio sociale del medio oriente scricchiola, i presidenti inamovibili sono morti o in esilio, le popolazioni occidentali sono inquiete e l’economia mondiale, per ragioni in parte indipendenti, può crollare da un giorno all’altro.

È “colpa”, o “merito”, del ragazzo che ha ispirato il disordine sociale, la ribellione, l’instabilità politica? Che posto deve occupare Mohamed, come persona, come singolo individuo concreto, nella nostra comprensione del 2011, nelle nostre aspettative per il 2012? Potremmo dire: ci vestiamo della tua memoria, ragazzo sconosciuto, perché sei il mito di fondazione di un’evoluzione razionale delle cose che non è ancora giunta a compimento; oppure: sei l’astuzia di una ragione irragionevole per il potere, che dichiara quel potere irragionevole; oppure: sei una goccia speciale, perché hai fatto traboccare un mare. Sarebbe sbagliato: non c’è nessun corso delle cose, nessuna astuzia e nessuna ragione, nessuna filosofia in grado di fornire ragioni alla storia. Sono finzioni, immaginazioni, esattamente come lo erano i dipinti di David e le farse di Luigi Napoleone; sono balbettii del pensiero umano di fronte alla nostra incapacità a comprendere. Qualcosa di nuovo è iniziato. Qualcosa che non ha ancora avuto un esito, una fine. Qualcosa che, anziché ridare fiato all’unica, tra le eredità della tradizione marxista, ad essere deleteria – l’idea che la storia abbia un’evoluzione necessaria e che nelle classi oppresse risieda, pur in forma materiale, un’astuzia della ragione – colpisce duramente l’idealismo democratico e liberale, l’unico a conservare, oggi, la pretesa di imporre un ordine razionale e conclusivo alla storia. Le rivoluzioni sociali non erano finite. Per sapere questo non era necessaria – possiamo dirlo forte! – una scienza; né la collera è sorta, stavolta, ispirata da miti. Era un ragazzo come tanti altri, uno sconosciuto; senz’altro amabile e odiabile, con pregi e difetti, come ognuno di noi.

Di Davide Grasso, da Quiete o tempesta

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