Portogallo. Il paese si ferma, la crisi va avanti
Nello stesso giorno la «greve geral» proclamata dalla Cgtp e il declassamento a livello «spazzatura» dei titoli portoghesi da parte dell’agenzia di rating Fitch. E non per caso
Non era necessario rivolgersi a un indovino per prevedere che le misure di austerità non avrebbero portato altro che a una diminuzione della crescita e alla conseguente necessità di ulteriori drastiche riduzioni alla spesa sociale. Così, la coincidenza, ieri, dello sciopero generale e dell’ulteriore taglio sull’affidabilità delle obbligazioni portoghesi, è una inequivocabile bocciatura delle politiche imposte dalla Troika e applicate dal governo di destra guidato da José Passos Coelho.
Appena un anno fa, dai banchi dell’opposizione parlamentare al governo del socialista Socrates, si invocava l’aiuto congiunto di Fmi, Ue e Bce. Si diceva che solo con un prestito esterno si sarebbe potuta placare la speculazione dei mercati internazionali e abbassare quindi i tassi di interesse applicati sul debito pubblico. Chi allora invocava quell’intervento, i «socialdemocratici», e ha fatto di tutto perché il paese fosse costretto a dichiarare fallimento, è ora al governo e, contrariamente a quanto pronosticato, i tassi di interesse non hanno mai smesso di crescere, i differenziali tra i titoli portoghesi e quelli tedeschi sono passati dal 5% di febbraio-marzo, al 10% di questi giorni. Ma ora, firmato il memorandum con la Troika, è davvero difficile tornare indietro.
Il messaggio centrale lanciato ieri durante lo sciopero generale dalla Confederação geral dos trabalhadores portugueses (Cgtp) è incredibilmente simile a quello lanciato da Fitch: il paese sta naufragando. Il governo, dal canto suo, cerca di minimizzare la debacle: solo il 4% dei portoghesi ha risposto all’appello del sindacato. Il 4%? Sarà, però aeroporti, trasporti pubblici, scuole, università e ospedali, solo per citare alcuni dei settori dove è più facile misurare l’impatto di uno sciopero, erano completamente paralizzati. I nervi erano tesi, alcune centinaia di «indignati» hanno cercato di forzare il blocco opposto dalla polizia sulla scalinata antistante l’Assembleia da Republica, alcuni arresti.
Il punto vero di questa difficile situazione però è un altro, perché nonostante i giudizi negativi delle agenzie di rating, l’aumento della disoccupazione, gli scioperi e il crollo del pil, sembra che non si riesca a trovare una strategia per riuscire a incidere davvero sugli ingranaggi di un meccanismo che sembra oramai vivere di vita propria. La legittimità di questo governo, infatti, non arriva dal popolo sovrano ma dall’Unione europea e sembra improbabile che Olli Rehn, l’imperturbabile commissario agli affari economici e monetari, si lascerà intimidire dal sindacato portoghese o dagli allarmi di Fitch. Questo è il paradosso di un’Europa che sfugge in modo sempre più evidente ai paradigmi minimi che dovrebbero caratterizzare una società democratica: i numeri dei molti non contano praticamente più nulla rispetto alla forza dei pochi. Il governo euro-portoghese non mostra nessun tentennamento, anzi, promette ulteriori dosi di austerità se i «conti» non dovessero migliorare.
Si lotta per l’occupazione, i salari, diritti e servizi pubblici, ma soprattutto, scrive la Cgtp nel suo manifesto, contro una politica di «terra queimada», terra bruciata. Così come nel celebre film di Gillo Pontecorvo, Queimada appunto, quando – siamo alla fine dell”800 – per piegare la rivolta degli schiavi, l’inviato inglese di una compagnia dello zucchero, decide di dare alle fiamme tutti i terreni coltivabili di un isola ex-colonia portoghese nei Caraibi. Un film del 1969, ma estremamente attuale perché se si cede in Portogallo, devono pensare nelle stanze della Commissione europea, si rischia di dovere poi cedere in Italia, Francia o Germania.
Il governo si propone di infrangere tutti i tabù come, ad esempio, il tetto delle 40 ore alla settimana lavorativa e l’abolizione del divieto del licenziamento senza giusta causa che, per fortuna, è tutelato dalla costituzione. In un processo di profonda riscrittura degli equilibri anche il simbolico vuole la sua parte e così la macchina feroce dell’austerità si ripromette di cancellare il 1º maggio dal calendario delle festività, a dimostrazione di quanto questa lotta portata avanti dal governo «socialdemocratico» sia tutta ideologica. D’altronde, se si volesse rimanere nel campo del razionale, basterebbero i dati macro-economici per dimostrare l’inefficacia delle misure di austerità, ma poco importa, così come il processo descritto da Kafka, la politica di austerità, portata avanti dal freddo e distaccato ministro delle finanze Vitor Gaspar, non può e non deve essere fermata. Si dice che la causa di tutto siano i mercati internazionali, ma non è vero, i mercati agiscono la dove è loro permesso agire. Il vero colpevole di questo disastro è la politica che in questi quattro anni non è riuscita ad arginare la crisi se non proponendo lo smantellamento del welfare state.
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