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Quando la reclusione si chiama accoglienza.

Fughe e tumulti nei CIE siciliani.

Negli ultimi giorni la narrazione ricorrente di quella che il governo e i suoi media chiamano “emergenza immigrati” sta avendo un impatto fortissimo sulle sponde siciliane. I migliaia di migranti che esportano la loro voglia di libertà stanno, nei giorni, occupando spazi che diventano luoghi altri di narrazione. Non sono solo richiedenti asilo, rifugio politico o aiuto umanitario, sono giovani, uomini e donne, che in nome della libertà di movimento si fanno portatori di un significato altro, urgente, di ricerca di una vita migliore. Migliore, non tanto per il fatto che ci si allontani dalla patria che subordina, ma anche per la voglia di trovare nell’evasione sia pure solo la possibilità di un miglioramento. Diversi tra di loro, diverse le speranze e i desideri, ma a tutti deve essere data la possibilità di cercare, in qualsiasi parte del mondo, la strada verso la libertà.

 

 

Migliaia a Lampedusa, centinaia negli altri CIE siciliani e della penisola, cominciano a stancarsi della reclusione forzata che in Italia chiamano accoglienza, cominciano a ribellarsi e “ad evadere dall’evasione”. Questa mattina una quarantina sono riusciti ad eludere i controlli della polizia, a forzare i cancelli del CIE di Pozzallo e fuggire per le campagne ragusane e ancora , la scorsa notte, a Trapani alcuni dei reclusi del CIE hanno distrutto la mobilia del centro. Disperazione, rabbia, delusione? No, voglia di libertà e, perché no, di rivolta!

 

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