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Roma: ennesimo sgombero a via Vannina. La giunta Raggi tra questura, poteri forti e flessione elettorale

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Ci risiamo. Nella mattinata di Mercoledì 21 Marzo in via Vannina, nel quadrante Nord-est della Capitale, le forze dell’ordine hanno sgomberato, per l’ennesima volta, centinaia di migranti che vivevano, in condizioni disastrose, all’interno di un palazzo abbandonato. Gli sgomberati sono stati trasferiti all’ufficio immigrazione della Questura in via Patini per l’identificazione. Un déjà-vu sulla piccola strada parallela della Tiburtina compresa tra Tor Cervara e il Grande raccordo anulare: lo stesso edificio, di proprietà privata, era stato sgomberato lo scorso giugno. Anche stamattina, come prevedibile, nessuna soluzione per coloro che vengono messi in strada, ma unicamente sgombero e sigilli. Nell’attesa che gli stessi soggetti, per evidenti ragioni di necessità, trovino un altro stabile nel girone dantesco successivo dove sistemarsi in condizioni al limite dell’umano.

Questa operazione si inserisce in un contesto complesso e di lunga durata. Sulla Tiburtina le realtà sociali da anni denunciano l’assurdo modus operandi nella (non) gestione del problema abitativo e di sistemazione dei migranti. A partire dallo sgombero della baraccopoli di Ponte Mammolo, nel maggio 2015, in questo quadrante della città si sono susseguiti numerosi interventi di questo tipo, che, come prevedibile, non hanno sortito alcun risultato se non peggiorare le criticità. In perfetta continuità con la gestione precedente del Pd, l’amministrazione cittadina e municipale a guida 5 Stelle continua a perpetrare la retorica dell’emergenza e dell’esigenza di ripristinare la presunta legalità, sui migranti come sulle case popolari, le occupazioni abitative, gli spazi sociali. Nel quadrante tiburtino è in atto un processo perfettamente in linea con le direttive della giunta comunale: trattare problematiche dalla spiccata valenza sociale unicamente come questioni di ordine pubblico, tentando di avanzare a colpi di truppe militari senza affrontare il nocciolo della questione, l’emergenza abitativa, che questa città vive a tutti i livelli.

Ancora una volta risulta evidente la precisa volontà politica della giunta Raggi nel rifiuto di affrontare le problematiche sociali della Capitale. Fuori dalla retorica dei proclami elettorali e dall’exploit contro la candidatura alle Olimpiadi 2024, l’amministrazione grillina sta tessendo gli interessi dei poteri forti della città. Quegli stessi poteri che stanno portando avanti l’iter di approvazione del nuovo stadio della Roma, costato la poltrona di assessore all’urbanistica al suo più strenuo oppositore, Berdini. Quegli stessi poteri che hanno indotto, nei giorni scorsi, il consiglio comunale a regalare una delibera ai costruttori su Piazza dei Navigatori. Quegli stessi poteri che mantengono la bolla speculativa sul mercato immobiliare e sono i burattinai delle politiche abitative, degli sfratti e degli sgomberi. Alla prova dei fatti l’amministrazione grillina sta tradendo il programma originario con cui gli elettori romani avevano espresso il loro sentimento di rottura e, in linea con la prospettiva di governo del Movimento a livello nazionale, si sta asservendo al partito del mattone e allontanando dagli interessi del suo stesso elettorato.

La rottura con il vecchio modo di fare politica sembra esserci effettivamente stata ma poco cambia nella sostanza, in quanto per larga parte tutto è cambiato in senso peggiorativo rispetto alle classi subalterne. Infatti, la mancanza di mediazione politica, bypassando quel minimo di interlocuzione che i partiti tradizionali garantivano, non serve esclusivamente per impedire i meccanismi di dialettica politica a cui eravamo abituati, ma lungi dall’essere mero effetto di incapacità è un preciso calcolo politico. Si sta normalizzando la gestione tecnica della città in una sorta di commissariamento perpetuo.

In termini assoluti, stando al termometro elettorale delle Politiche, i 5 Stelle hanno sfondato sul livello nazionale e sono cresciuti in molti dei comuni che amministrano. L’unica anomalia è costituita dalle due grandi città, Roma e Torino, dove i pentastellati perdono tra i 3 e i 4 punti percentuali. Un caso? Forse no, ma sarà l’evidenza empirica dei prossimi anni a dirci se in queste metropoli, dove le contraddizioni sono più forti ed estese, il re si sta denudando più rapidamente che in altri contesti. L’operato della Casaleggio&associati nella prossima legislatura sarà probabilmente uno snodo decisivo, nel bene o nel male, della parabola grillina.

Certo è che qualche piccolo segnale di crisi si percepisce. Proviamo, ad esempio, ad analizzare l’andamento elettorale del IV Municipio di Roma, quel quadrante tiburtino teatro degli avvenimenti di cui sopra. Nel 2016 il M5S ha portato a casa 29.240 voti, il 37,65%. Due anni dopo, alle elezioni regionali, la percentuale è scesa al 23,93%, in termini assoluti 17.861 voti. Che i pentastellati, e più precisamente la minisindaca Della Casa, stessero perdendo consensi sul territorio era cosa nota: tanti, troppi gli elettori delusi dal modus operandi del Municipio, in cui non sono mancate divisioni interne alla giunta, lungaggini amministrative, debole legame col territorio, appoggio più o meno velato alle formazioni neofasciste, scarsa azione su gravi problemi come la viabilità, la questione stabili abbandonati, gli ecomostri, la sistemazione dei migranti, la chiusura degli asili nido. Non ultima, neanche a dirlo, la totale assenza di intervento sull’emergenza abitativa e gli sfratti, di cui l’ultimo, gravissimo episodio si è verificato proprio pochi giorni fa a San Basilio, storico quartiere di lotte sul tema della casa: la signora Paola, 75 anni, diabetica, 500 euro di pensione, è stata buttata per strada manu militari senza alternative e ricoverata all’ospedale per un malore a seguito dello shock. Comune e municipio, come al solito, fanno orecchie da mercante e giocano al rimpallo di responsabilità.

via tranfo 2

Allo stato attuale non abbiamo elementi sufficienti per capire se la flessione dei 5 Stelle a Roma e nel IV Municipio sia frutto di peccati d’efficenza o di scelte politicamente coscienti, se sia una migrazione di voti funzionale alle destre o se sia delusione per le numerose politiche antipopolari della giunta pentastellata. Possiamo ragionevolmente supporre, tuttavia, che di sicuro una parte dell’elettorato grillino non sta guardando con favore la mutazione del Movimento in partito di governo con spiccate tendenze reazionarie. E che, inoltre, un’altra consistente porzione del suo elettorato sia attratta dalla rottura con i partiti tradizionali più che dal programma. Il plebiscito anti Pd e Forza Italia dello scorso 4 marzo, se da una parte apre praterie politiche al “nuovo” che avanza, dall’altra lo mette definitivamente alla prova sulla tenuta ed il posizionamento politico. Venuta giù la maschera del Movimento popolare, adesso Di Maio & co. Si preparano a diventare la nuova classe dirigente del Paese. Se il sentiero che decideranno di intraprendere sarà, su scala nazionale, quello già segnato da Raggi e Appendino, a prescindere dalle ipotetiche alleanze, si prospettano ancora tempi duri per gli strati subalterni, lungi dal realizzare la rottura con cui in molti si sono illusoriamente recati alle urne.

Ab uno disce omnis: Roma e Torino insegnano, con i pentastellati governano anche le questure ed i poteri forti. Ed è qui che si potrebbero avere ampi margini di manovra, se si saprà raccogliere positivamente la spinta al cambiamento.

 

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