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Sorveglianza speciale: profili storici ed elementi giuridici (1°Parte)

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di Venornica Marchio

Introduzione

Il presente contributo vorrebbe fornire delle chiavi di lettura socio-giuridiche in merito alla misura di sorveglianza speciale; ciò al fine di rendere più agevole la comprensione e la critica dei suoi recentissimi utilizzi volti a criminalizzare comportamenti di dissenso e lotta politica[1]

 

Questa prima parte andrà a enucleare gli aspetti storici caratterizzanti il sistema di prevenzione nel suo complesso e a tracciare gli elementi giuridici che contraddistinguono la misura di sorveglianza speciale nel nostro ordinamento.

Prima di entrare nel merito dei suddetti argomenti è utile fornire un quadro teorico dentro cui collocare criticamente l’intervento preventivo oggetto di analisi. In primo luogo la misura può essere considerata come uno strumento di prevenzione coercitiva[2], quell’insieme di pratiche e dispositivi istituzionali – più o meno extra-penali – che si pongono l’obiettivo di scongiurare il verificarsi di un comportamento o di una situazione che può causare un pericolo per la tranquilla convivenza e sicurezza dello Stato e dei cittadini, poiché mette in discussione certe gerarchie sociali, meccanismi di subordinazione e valori di coesione. La problematicità di simili interventi, che chiamano in causa differenti attori istituzionali, risiede principalmente nel fatto che essi si fanno espressione di un processo di espansione dei confini della punitività oltre il sistema penale. Si fa riferimento ad alcuni paradigmi teorici che si stanno interrogando su questo processo, al fine di comprendere quale sia il ruolo giocato dagli strumenti preventivi extra-penali nell’ambito delle tendenze della punitività. Si tratta delle teorie sviluppate intorno al concetto di Preventive Justice (Ashworth, Zedner 2014; Ashworth, Zedner, Tomlin 2013) da una parte e intorno a quello di New Punitivness (Pratt 2005; Selmini 2020) dall’altra.

Nell’ambito di questi filoni teorici il concetto di punitività viene ampliato: non si tratta solo dei mutamenti, sia quantitativi che qualitativi, nel ruolo e nell’utilizzo della pena nelle democrazie occidentali (Gallo 2017), in quanto la razionalità punitiva pervade istituzioni, pratiche, criteri, teorie, eventi comunicativi, relazioni sociali. Non basterà dunque guardare ai tassi di incarcerazione, al «sentencing», alle condizioni detentive, alla quantità di leggi penali repressive, ma anche a tutte le pratiche disciplinari (preventive e coercitive) che non costituiscono sanzione penale (Selmini 2020), ma ne condividono l’afflittività, l’espressività e la strumentalità. Nel primo caso si fa riferimento alla capacità di uno strumento punitivo di provocare un deficit sul destinatario; nel secondo caso a quella di comunicare un messaggio all’intera società per rinsaldare certi valori collettivi di coesione sociale; nel terzo caso la capacità di mantenere intatte le diseguaglianze strutturali o produrne di nuove, in una società dagli elevati fattori criminogeni.

Il sistema di prevenzione come costante storica dell’ordinamento italiano

L’antico sistema delle misure di prevenzione, di cui la sorveglianza speciale fa parte insieme al foglio di via e all’avviso orale, contraddistingue profondamente l’Italia rispetto alle altre esperienze continentali (Petrini 1996). Si tratta di provvedimenti che appaiono come una costante del nostro ordinamento dall’unificazione territoriale in avanti, facendosi espressione tanto di una radicata cultura del sospetto – che interviene prima che un reato venga commesso o sia accertato – quanto della criminalizzazione delle questioni sociali e politiche nel particolare assetto del neonato Stato unitario. È difatti tra il 1862 e il 1894 che si consolida l’uso del domicilio coatto contro il fenomeno del brigantaggio, nei confronti delle categorie degli oziosi e vagabondi, nonché a sfavore della criminalità politica e degli oppositori al governo (ivi p. 94). Le emergenze politiche dei primi anni dopo l’Unità danno al sistema delle misure preventive una solidità e un credito che farà si che certe «abitudini discrezionali» rimarranno ben intatte. L’evoluzione delle misure di prevenzione scandisce infatti i poteri di polizia legati al controllo della pericolosità sociale ed esse sono l’unica presenza nel nostro sistema giuridico che determina conseguenze connesse direttamente all’accertamento di personalità d’autore, cioè la costruzione di classi di pericolosità tipiche che denotano una personalità antisociale.

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Il più importante elemento di costanza nel tempo è che, in prospettiva storica, si è creato un «sistema a fisarmonica» (Petrini 1996, p. 99): rimane sempre la possibilità di ricorrere alle misure preventive contro i «marginali» tradizionali e contro la microcriminalità, mentre si allarga e si restringe la possibilità di usarle per i provocatori di disordini sociali e politici. Sebbene durante il periodo fascista la possibilità dell’uso politico delle misure fosse senz’altro maggiore, l’invenzione del sistema risale all’epoca liberale e si mantiene intatto nella fase repubblicana. La storia del sistema preventivo ci suggerisce che le misure in questione non rappresentano soltanto modalità di intervento eccezionali e deputate alla risoluzione di problemi contingenti; ciò porterebbe ad affermare che queste misure non sono altro che delle storture giuridiche pericolose per la tenuta del nostro sistema democratico. Ricostruirne la traversata storica, le razionalità, i modelli istituzionali e le culture giuridiche che ne hanno eretto l’edificio pratico-istituzionale, significa mostrare che esse hanno costituito e costituiscono ancora oggi un elemento strutturale e strutturante del controllo sociale nelle democrazie occidentali.

La stessa Corte Costituzionale, nonostante abbia nel tempo depurato il sistema dagli aspetti più illegittimi che violano i principi posti a tutela dei cittadini (artt. 3, 13, 16, 25, 27 della Costituzione), lo ha però salvato nel suo complesso. A titolo di esempio in una delle prime pronunce (3 luglio 1956, n. 11, in Giur. Cost, 1956, 616) la Corte inaugura un indirizzo che vuole tenere insieme la necessità di trovare un bilanciamento tra il dovere dello Stato di prevenire i reati– il totem del principio di prevenzione (cfr. Martini 2017) – e la tutela della libertà personale.

Cos’è la misura di sorveglianza speciale?

Com’è noto, la sorveglianza speciale è una misura che fa parte del sistema di prevenzione previsto dall’attuale d.lgs. 159 del 2011 (conosciuto come “codice Antimafia e delle misure di prevenzione”). Questo sistema viene definito come tipico per almeno due motivi: da una parte, a differenza di altri interventi preventivi, esiste da molto tempo nel nostro ordinamento; dall’altra, seppur in modo estremamente vago, la legislazione indica dei tipi di soggetti e situazioni che costituiscono le classi di pericolosità di riferimento per chi deve richiedere e applicare la misura. Le classi, alla stregua di norme incriminartici (Procura di Torino 2013-2019), indicano in modo generico o qualificato cosa significhi essere pericolosi per la società e la pubblica sicurezza.

La sorveglianza speciale (art. 6) è la principale misura di prevenzione, applicabile per tutte le ipotesi di pericolosità previste; è quella più afflittiva, ma anche l’unica che per la sua applicazione deve essere convalidata da un giudice attraverso un processo di prevenzione[3]. È richiedibile dal Questore, dal Pubblico Ministero e dal procuratore o dalla direzione nazionale antimafia. Può essere applicata da sola o congiuntamente al divieto o obbligo di soggiorno in uno o più Comuni o Regioni. A ciò il tribunale può aggiungere la prescrizione di non allontanarsi dall’abitazione senza prima avvertire l’autorità o di presentarsi a questa in giorni stabiliti. Non è possibile stabilire i suoi reali confini sanzionatori dal momento che la normativa detta solo le regole dei suoi contenuti minimi e la determinazione del contenuto specifico della misura è rimessa al giudizio del tribunale che la dispone. All’art. 8 comma 4 sono previste delle prescrizioni generali: vivere onestamente, rispettare le leggi, non allontanarsi dalla propria dimora senza preavviso all’autorità di P.S., non associarsi abitualmente a persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a loro volta a misure di prevenzione o sicurezza, non detenere armi e non partecipare a pubbliche riunioni.

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In linea generale la sorveglianza speciale si applica a chi non ha commesso un reato (o a volte a chi è sospettato di averlo commesso, o in quanto ne ha commesso qualcuno nel passato); il soggetto è considerato socialmente pericoloso perché può commettere fatti di reato o perché la sua condotta futura può essere pregiudizievole per la società e la sicurezza, per l’ordine, la moralità pubblica ecc. Ad assumere rilevanza tuttavia non è la tipizzazione legislativa dei casi di intervento, bensì la capacità discrezionale e selettiva degli organi che sono deputati alla richiesta e all’applicazione della misura.

L’intervento è coercitivo perché obbliga il soggetto, anche indirettamente, a compiere una scelta o a tenere un certo comportamento. La coercizione può essere negativa se reprime e impone un divieto, e positiva se produce effetti e prescrive comportamenti. Dietro l’etichetta giuridica che assegna a questo strumento il ruolo di prevenire i reati, si nasconde evidentemente un intervento punitivo: da una parte il grado di afflittività e coercizione esercitata sul sorvegliato speciale – in termini di deficit prodotto – e dall’altra la capacità degli interventi di generare degli effetti produttivi. Quando si parla di effetti produttivi si fa riferimento all’ipotesi che le diverse misure di prevenzione coercitiva non si limitino a reagire a una situazione deviante o a un reato commesso per porre fine alla condotta o scongiurarne la reiterazione, ma contribuiscano a produrre e riprodurre quella situazione deviante – ad esempio innescando spirali criminogene e di emarginazione oppure generando cortocircuiti sanzionatori – attraverso il cumulo di situazioni negative in capo a uno stesso soggetto. In termini generali si tratta evidentemente del monitoraggio delle forme di vita, una sorveglianza tuttavia attiva, che non si limita a controllare, ma produce forme di vita specifiche.

Per quanto riguarda le classi di pericolosità, la normativa ne prevede una a contenuto generico e suddivisa in tre lettere di riferimento (art.1) e una serie di classi a contenuto qualificato e specifico (art.4). Entrambi gli articoli fanno riferimento a categorie di pericolosità collegate a un agire criminoso; la differenza sta nel grado di collegamento con il reato. Il paradosso è comunque evidente: tutte le classi sono collegate in vario modo a un agire criminoso passato o potenzialmente futuro, ma nessuna misura di prevenzione, ai fini della sua applicazione, richiede la conoscenza necessaria di tale agire, né quindi la sua esistenza come fatto tipico offensivo e antigiuridico.

Con riferimento all’articolo 1 potremmo dire che le prime due lettere possono essere considerate luogo di sedimentazione di prassi, ipotesi e prognosi di pericolosità riferite alla delinquenza tradizionale o criminalità di profitto («coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto abitualmente dediti a traffici delittuosi; coloro per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»). La lettera c), che nomina il bene “pubblica sicurezza”, sembra invece essere la classe di pericolosità che più facilmente si può allargare e restringere per rispondere a esigenze di controllo eccezionali, vista anche l’enorme vaghezza dei beni da tutelare («coloro per per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza, o la tranquillità pubblica»).

La pericolosità qualificata (art.4) è maggiormente incastonata dentro una serie di ipotesi di reato specifiche che, nella lunga traversata storica delle misure di prevenzione, si sono via via sedimentate grazie all’apporto di leggi speciali e generali. È interessante notare come spesso le classi di pericolosità qualificate vengano inserite dal legislatore a seconda delle esigenze del contesto. Un esempio storico è rappresentato dalle leggi che hanno esteso l’applicazione delle misure a particolari forme di pericolosità prima non previste (l. 575/1965 per i sospettati di appartenere ad associazioni mafiose e l. 152/1975 per i neo-fascisti e sospettati di attività terroristiche). Allo stesso modo, ma più di recente, con d.l. 7/2015 viene aggiunta la classe di pericolosità riferita a chi pone in essere atti preparatori «obiettivamente rilevanti» diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di specifici delitti, o altri caratterizzati dalla finalità del terrorismo anche internazionale o a prendere parte a un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue finalità di terrorismi internazionale.

In tutti i casi si tratta di una serie di ipotesi e classi talmente frammentate tra loro che sarebbe difficile trovare un ordine di analisi, molto più facile sarà vedere, nella seconda parte di questo contributo, quali classi vengono effettivamente collegate all’applicazione delle misura, perché e quali tipi di effetti sui sorvegliati speciali si possono ipotizzare.

Bilbiografia

ASHWORTH Andrew, ZEDNER Lucia (2014), Preventive Justice, Oxford University Press, Oxford.

ASHWORTH Andrew, ZEDNER Lucia, TOMLIN Patrick (2013), Prevention and the limits of the Criminal Law, Oxford University Press, Oxford.

GALLO Zelia (2017), La dualità della penalità italiana in Studi sulla questione criminale, anno XII, n.1-2, pp. 137-150, Carrocci editore, Perugia.

PETRINI Davide (1996), La prevenzione inutile. Illegittimità delle misure praeter delictum, Jovene, Napoli.

PRATT John (2005), Introduction, in Id., a cura di, The new punitiveness. Trends, theory, perspectives, pp. Xi-xxvi, Willan, Cullompton.

PROCURA DI TORINO (2013-2019), Lettere di prevenzione sulla prassi applicativa delle misure di prevenzione presso il tribunale di Torino, in rivista online Diritto penale contemporaneo.

SELMINI Rossella, 2020, Dalla sicurezza urbana al controllo del dissenso politico. Una storia del diritto amministrativo punitivo, Carrocci Editore, Roma.

[1]Il termine «preventive coercion» è utilizzato da Ashworth e Zedner (2014) nell’ambito degli studi inglesi sulla c.d. Preventive justice di cui si dirà a breve.

[2]Ci si riferisce in particolare al caso di Eddi, attualmente sottoposta alla misura di sorveglianza speciale: https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/03/eddi-sorvegliata-speciale-resiste-per-tutti-noi/#:~:text=La%20%C2%Absorveglianza%20speciale%C2%BB%20%C3%A8%20il,proibizione%20assoluta%20a%20partecipare%20%C2%Aba; https://www.notav.info/post/confermata-la-sorveglianza-speciale-ad-eddi-il-tribunale-di-torino-continua-a-punire-le-idee/

[3]Le altre due misure, adottabili direttamente dall’autorità amministrativa e perciò definite come questorili, sono il foglio di via e l’avviso orale.

Per citare questo post:

Marchio V. (2021), “Sorveglianza speciale: profili storici ed elementi giuridici“, in Studi sulla questione criminale al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2021/03/02/sorveglianza-speciale-profili-storici-ed-elementi-giuridici-1parte/

 

Riceviamo e pubblichiamo il contributo (in due parti) di Veronica Marchio (Università degli Studi di Bologna) sulla misura di “sorveglianza speciale”. In questa prima parte verranno trattate le origini, la storia, il funzionamento e gli aspetti giuridici che la caratterizzano.

Ringraziamo Veronica e buona lettura!

Da Studi sulla questione criminale

 

 

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