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Anche l’Egitto soffoca Gaza

E se sotto la Fratellanza le condizioni al confine tra Sinai e Gaza non erano migliorate, ora la situazione minaccia di diventare esplosiva. Mercoledì una corte egiziana ha condannato ad un anno di prigione cinque pescatori gazawi (Jamal Basla, KHaled Basla, Maher Mazen, Mahmoud Nahed e Khaled Radwan), con l’accusa di essere entrati con le loro barche nelle acque territoriali egiziane. Una pratica frequente: a causa delle imposizioni israeliane (i palestinesi non possono pescare oltre le tre miglia nautiche dalla costa, nonostante gli Accordi di Oslo prevedano un limite di 20 miglia), i pescatori sono spesso costretti a muoversi verso l’Egitto per sfamare le proprie famiglie.

Nelle ultime settimane, però, la Marina egiziana si è trasformata in un cane da guardia, in alcuni casi arrivando ad aprire il fuoco contro i piccoli pescherecci gazawi. A ciò si aggiungono le misure di sicurezza prese dal governo ad interim del Cairo al confine tra Rafah e Gaza. Chiusura a tempo indeterminato della frontiera, bombardamento dei tunnel sotterranei e operazioni militari contro presunti miliziani di Hamas sono ormai all’ordine del giorno.

E dalle istituzioni egiziane arriva la benedizione di politiche che stanno schiacciando ulteriormente una popolazione sotto assedio. Durante un talk show della tv egiziana Al-Hayat, l’ex ministro dell’Elettricità Osama Kamal si è detto “felice per i grandi sforzi dell’esercito egiziano in Sinai”, che è riuscito a fermare il contrabbando di combustibile verso Gaza, impedendo così l’utilizzo dell’unico impianto elettrico della Striscia. “L’impianto potrebbe interrompere le attività tra tre giorni”, ha detto Kamal, non tenendo forse in considerazione l’importanza che tale generatore ha per la Striscia: a Gaza, Israele fornisce elettricità solo 8-12 ore al giorno, il resto viene coperto da generatori privati (azionati dal combustibile egiziano) e dall’impianto elettrico. Senza tale indispensabile apporto, i blackout diventano la normalità impendendo il funzionamento degli ospedali.

Ad oggi, a causa delle distruzioni perpetrate dall’esercito egiziano, sono rimasti aperti solo dieci dei 300 tunnel di collegamento tra Rafah e Gaza, indispensabili a rifornire la Striscia di beni di prima necessità. Tra questi proprio il combustibile: si è passati da un milione di litri al giorno a solo 200mila litri.

Infine, la frontiera di Rafah, unica possibilità per la popolazione gazawi di lasciare la Striscia per lavorare, studiare e ricevere cure mediche adeguate. Dal 3 luglio ad oggi, il confine è stato chiuso per intere settimane, per “ragioni di sicurezza”, secondo il governo egiziano: obiettivo, impedire il passaggio di miliziani di Hamas pronti a combattere in Sinai al fianco dei gruppi islamisti pro-Morsi.

Ma a risentirne è la popolazione civile: secondo dati delle Nazioni Unite nella settimana dal 3 al 9 settembre solo 150 palestinesi sono entrati in Egitto ogni giorno, solo il 15% della media pre-golpe (quando attraversavano Rafah circa 1.860 persone al giorno). A preoccupare è soprattutto la condizione dei malati gazawi: come riportato dal ministro della Salute della Striscia, Mofeed Mukhalalati, ci sono migliaia di pazienti in attesa di entrare in Egitto per cure mediche.

“L’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari dell’ONU è molto preoccupato per le recenti misure di sicurezza e le restrizioni imposte al confine di Rafah – ha detto il portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite – Tali restrizioni hanno provocato ritardi per studenti e malati che necessitano di trattamenti immediati e la mancanza di materiali di costruzione, combustibile e medicinali”.

da Nena News

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