Innanzi tutto, la mobilitazione che ha accompagnato/contestato il vertice si è dimostrata essere la coda della coda del no global,  in quanto tale con scarse prospettive di evoluzione. Sia detto senza  alcuna sufficienza: la lezione può fare da utile premessa di passaggi  futuri. Ma è un fatto che l’idea di un passaggio alla “fase due”,  costruttiva, del decennio iniziato a Seattle è stata soffocata sul  nascere dall’arroganza e inconciliabilità degli interessi costituiti, e  certo non facilitata dai problemi interni al vasto campo  dell'”opposizione”. L’opzione “realistica” era in certo modo un  passaggio inevitabile e poteva anche sembrare, fino a non molti mesi fa,  a portata di mano: per l’assise – l’Onu non è il Wto o il Gn° -, per  l’urgenza del problema – a parole riconosciuta da tutti i governi – e  per il contesto internazionale segnato dalla novità della fine  dell’unilateralismo Usa e dalla crisi globale. Eppure, tutto ciò non è  bastato, e del resto qualche segnale di avvertimento, come la mancata  regolazione dei mercati finanziari, anche a non considerare la doccia  fredda di Singapore, era già arrivato.
In questo modo, chiunque ha potuto toccare con mano le profonde  trasformazioni in corso nel panorama globale, economico geopolitico ecc.  da cui un movimento alternativo non può oramai prescindere. E prendere  atto che certe porte sono ben serrate e non è bastato ad aprirle il change (sempre meno) speranzoso proveniente dagli States, mentre in giro non  si vede alcun effettivo “ravvedimento” nei circoli finanziari globali.  Ora, il problema – un problema di tutti – è se e come si passerà dalla  delusione alla rielaborazione collettiva della cesura che sta  riconfigurando il capitalismo globale in termini inediti. Non  immediatamente sintetizzabili in un programma dal forte impatto  comunicativo e catalizzante come è stato quello no global – giustizia  nord-sud e regolazione anti-neoliberismo contro Impero, Washington  Consensus e annesse guerre – e in un soggetto collettivo a grandi linee  identificabile come la global civil society.
Il quadro di riferimento è del tutto mutato. Il movimento no global si  era fermato a Bombay: Ma quale problema globale si può anche solo  affrontare, oggi, senza le moltitudini cinesi e asiatico-orientali,  finora relativamente compatte dietro i governi  nazionalisti-“sviluppisti” dell’area? Sorge allora la domanda sul come  si incrinerà o romperà lì il nesso non estemporaneo tra spinte dal  basso, con annesse lotte sociali, e sviluppo capitalistico. E come  evolverà nel nuovo quadro di crisi globale lo sviluppo esploso  venti-trenta anni fa grazie al meccanismo export-led? Un  meccanismo subordinato al comando del dollaro e dei mercati finanziari  occidentali cui oggi – al di là di ogni discorso possibile sul G2 –  resta comunque vincolato pur nel tentativo/necessità di Pechino di  giocare maggiormente in proprio strumentalizzando del caso proprio  quelle spinte dal basso. Al riguardo circolano al momento  semplificazioni sui due lati: la Cina come oscuro oggetto di desiderio  “terzomondista” o come cap(r)o espiatorio. Semplificazioni che non  reggono all’obiettiva contraddittorietà di una collocazione, quella  cinese, del resto non nuova ma che si è andata svolgendo a partire dalla  rottura dell’alleanza sino-sovietica negli anni Sessanta e dal rapprochement con Washington, all’incrocio tra sovranismo da grande potenza regionale  (oggi: tendenzialmente globale) e fronte dei paesi in via di sviluppo  da Bandung in avanti (v. la teoria dei “tre mondi” di Deng). Basta  provare a rispondere ad una semplice domanda – per chi sono prodotte le  merci cinesi ad alto contenuto inquinante e pari effetto calmierante sui  salari occidentali? – e si tocca con mano la complessità della  questione.
Ma sono tutte le coordinate dei rapporti geopolitici ad essere slittate  in avanti. Gli Stati Uniti non sono riusciti a farsi impero ma al tempo  stesso non hanno certo abbracciato il multilateralismo, se non  strumentalmente in una versione à la carte sia sul piano  economico che su quello diplomatico-militare. Al tempo stesso, è ancora  presto per dire non tanto se il programma di Obama fallirà, il che pare  abbastanza scontato stante il suo moderatismo, quanto cosa lascerà come  polarizzazione interna alla società statunitense e in che modo e a chi  Washington tenterà di far bruciare la gran parte di capitale che  necessita far fuori per un vero rilancio del sistema. Del resto, nel  multipolarismo complesso emergente – se pure di questo si tratta o non  piuttosto di un corso verso l’apolarismo di un sistema internazionale in via di sconnessione – la governance multilaterale effettiva non può esprimere istanze egualitarie e condivise, tanto meno  aperte alle rappresentanze della società civile (che anzi esce  destrutturata dai nuovi sviluppi). Essa riflette la confusa  configurazione attuale: un ibrido tra Impero, superimperialismo Usa  sempre meno garante dell’equilibrio complessivo, e un trend più  sotterraneo alla ripresa del conflitto nei termini quasi leniniani dello  scontro tra grandi potenze, però alla luce dei risultati postcolonial della lotta anticoloniale il che rende oggi più difficile ai “grandi”  confinare il resto del mondo nel ruolo di vassallo/terreno di battaglia.
E il Sud? Si cancella come categoria, stante l’evidente strumentalismo  dei governi che se ne fanno scudo quali suoi presunti portatori, dal  Brasile all’India, al tempo stesso tracciando percorsi di inserimento  compatibile nel mercato mondiale? Oppure la si prova “laicamente” a  declinare al plurale senza assumerne né una presunta omogeneità né il  carattere alternativo a prescindere? Ma anche nella consapevolezza che  non hanno lo stesso background i programmi, diciamo, di sovranità  energetica e alimentare in Bolivia Venezuela Brasile ed eventuali svolte  verso la green economy in paesi come Usa Francia Germania ecc.
C’è infine un convitato di pietra la cui presenza a Copenhagen sarebbe utile indagare meglio: la global crisis come precipitato della crisi sistemica di riproduzione della vita  naturale e sociale nella sussunzione reale. Da lontano – vale ripeterlo –  l’impressione è che alla rivendicazione salviamo il pianeta si  sia data per lo più una risposta che, in cambio di obiettivi  apparentemente raggiungibili, abbia se non lasciato cadere, certo, però  messo in secondo piano il nodo fondamentale del modello di sviluppo. E  questo proprio in un momento in cui lo sviluppo capitalistico è in  profonda crisi e le élites globali si mostrano incapaci di tirar fuori  lo straccio di una sola misura effettiva che non sia la riproposizione  del business as usual. Mentre solo ora e proprio ora la “gente  comune” anche in Occidente inizia a essere toccata nel vivo dal lato  oscuro della globalizzazione con le sue ricadute sulle forme di  produzione e riproduzione dell’esistenza.
Si è sentito da tutte le parti parlare di green economy ma,  come pure è emerso dalla mobilitazione, non si tratta di un terreno  neutro di rilancio dell’economia atto a salvare capra e cavoli, mercato e  ambiente: quel che intendono élites e multinazionali è dare un prezzo  all’inquinamento ridistribuendo il diritto a inquinare senza alcun  riguardo per il “debito ecologico” (che non è slogan meramente  terzomondista se è vero che il capitale è sempre in debito con la vita,  dappertutto). Anche su questo punto il discorso è complesso, e i  “ritardi” – nostri, come movimenti – vanno visti alla luce della  difficoltà di aggiornare la critica al neoliberismo all’altezza  dell’attuale passaggio di un mercato sovvenzionato dagli stati “sovrani”  e di nuove recinzione dei beni comuni, magari greenwashed, a  vantaggio non di un nuovo new deal impossibile bensì di un’ulteriore  finanziarizzazione della vita. Sia chiaro: non si tratta di resuscitare  una lettura ideologica del capitalismo. Ma, per così dire, di sviluppare  un “volume di gioco” sul piano della critica che è poi ciò che può  rovesciarsi anche in risultati concreti, come è stato per il no global,  molto più che non l’autolimitarsi a un realismo solo apparentemente  pagante.
Ciò offre una grande possibilità ma pone anche grandi rischi. Questi già  li vediamo: razzismo, nazionalismo, sessismo, chiusure di ogni tipo. Ma  al tempo stesso si apre un terreno effettivo sul quale iniziare a  impostare in re – di nuovo, non ideologicamente – un discorso  su limiti e responsabilità che, invece di rivolgersi agli stati e/o ai  mercati “puliti”, si incentri sulla capacità delle comunità umane  sociali di autoregolarsi e autorganizzarsi in un rapporto di “usufrutto”  (alla scala della specie umana) con i beni comuni naturali e di  potenziamento e differenziazione dei beni comuni sociali. Il “glorioso”  nesso tra lotte e sviluppo capitalistico è saltato in Occidente e si  pone in forme diverse dal passato, più immediatamente vicine ai nodi  sistemici, anche là dove lo sviluppo capitalistico è e resterà  “incompiuto” o “divergente”. Non si dà e non si darà un quadro omogeneo,  neanche nelle forme di resistenza alla nuova condizione (nel piccolo,  anche in It. si iniziano a vedere “piazze nuove”, con aspetti che  possono non piacere). Possiamo forse riconquistare a un livello più  articolato e potente l’unica dimensione alternativa e a tratti  antagonista a scala globale che si è data nell’ultimo decennio,  scontando transitorie divaricazioni dei percorsi di lotta, se torniamo a  porre la questione di cosa significa opporsi alla globalizzazione nel  quadro di una crisi del capitalismo che ha tutte le premesse per essere  sistemica e incidere in forme inedite e profonde nelle vite di ciascuno  di noi.