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Combattenti arabi contro Daesh: “Vogliamo fare la rivoluzione a Raqqa”

In una località segreta della provincia le Sdf hanno una base militare di ragguardevoli dimensioni. Alcuni centinaia di combattenti sono disposti in diverse file di fronte a un comandante, sull’attenti, e rispondono alle improvvise esortazioni con motti di combattimento gridati in coro. Quando rompono le righe, salutano chi percepiscono come straniero con una miriade di strette di mano. Tra loro ci sono curdi, ma anche arabi: si riconoscono, oltre dai tratti somatici, da saluti come “Tahieti” (benvenuto) o “Habibi” (in teoria amore mio, ma per estensione “ciao caro”). La cena che offrono è a base di riso e patatine, con tè zuccheratissimo per bevanda. Un ragazzo curdo che è con loro ha perso un piede su una mina a Kobane, ma i suoi compagni dicono che ora è divenuto un cecchino perfetto. Approfittiamo dell’occasione per mostrare loro le foto della moschea di Al-Aqsa scattate a Gerusalemme, e dei martiri palestinesi raffigurati sui muri dei campi profughi a Betlemme. Ne sono felici, ma quando gli chiediamo cosa pensino della Palestina non sanno cosa rispondere: “Devi perdonarci, ma siamo gente povera e ignorante. Daesh ci ha tolto tutto a Shaddadi, persino la televisione. È un anno che siamo fuori dal mondo: ci hanno riempito la testa soltanto di islam”.

Tanta gente, a Shaddadi, voleva l’arrivo delle Sdf, dicono: “La gente non ne può più di Daesh. Abbiamo amici a Deir El Zor, a Raqqa: non vedono l’ora che arrivino le Sdf” dice Jashar. Ragazzi sui vent’anni, dicono di conoscersi tutti da tempo, e del resto la loro città certo non è una metropoli. Appena è stata liberata hanno volontariamente formato una brigata (i Taboor contano normalmente una quarantina di persone) dedicandola a un loro amico martire, Aziz. Tutti musulmani, il loro odio per lo stato islamico non potrebbe essere più veemente: “Hanno ucciso un sacco di gente nella nostra città, davvero tanta – dicono con rabbia – e non potevamo fumare, la gente era molto incazzata per questo, perché fumare è una cosa che piace molto a noi arabi. Se un vecchio veniva sorpreso a fumare, veniva umiliato senza neanche rispetto per la sua età” racconta Dib. Tra gli altri elementi che hanno prodotto frustrazione, spiegano, c’era la tassazione insostenibile, l’obbligo per le donne di portare la copertura integrale e quello, per gli uomini, di indossare ridicoli calzoni corti (che secondo Al-Baghdadi sarebbero più “igienici”).

“Siamo musulmani, ma tutto questo non è islam” afferma Anas, un terzo combattente, “Daesh vuole palesemente dare una cattiva immagine dell’islam al mondo”. Quando gli chiediamo cosa pensa degli altri gruppi salafiti, come Jabat Al-Nusra e Ahrar ash-Sham, risponde che sono dei mercenari: “lo fanno per soldi”. Ciò che i ragazzi vogliono in primo luogo sottolineare sembra essere l’ipocrisia di Daesh: “Non potevamo fumare e bere, ma i miliziani bevevano whiskey. Se solo provavamo a sfiorare la mano di una ragazza venivamo duramente puniti, mentre loro potevano fare la corte palesemente a tutte le donne, e non facevano altro che questo”. La vita sotto lo stato islamico, nei loro racconti, è un continuo di umiliazione e rabbia, e le donne subiscono il massimo dell’ingiustizia: “Se una famiglia non versa le sue 15.000 sterline siriane come tassa, i miliziani minacciano la morte, oppure di portare via una donna dalla famiglia”. Anas, Dib e Jashar insistono tuttavia più volte su un punto in particolare: le atrocità sulle donne ezide. “Siamo stati testimoni di continui stupri, crimini di ogni sorta su ognuna di loro” raccontano, e sembrano esserne ancora scossi.

Per ciò che riguarda l’intervento straniero, Jashar dice di aver visto con i suoi occhi almeno dieci raid aerei russi: “Colpiscono anche i civili, per me sono come Daesh. Invece gli americani sono meglio, perché i loro bombardamenti sono più precisi”. Le Sdf raggruppano decine di brigate arabe o miste, riunite sotto piccoli “eserciti” la cui storia racconta le contraddizioni sociali e politiche della Siria in guerra. Una delle forze più note (e odiate dai salafiti) è l’esercito dei rivoluzionari o Jaish Al-Tuwaar, che in queste ore affronta Jaish Al-Islam, gruppo siriano del Fronte Islamico (il cui leader politico è stato in questi giorni a Ginevra a rappresentare l’alto comitato per i negoziati o Hnc), nelle campagne a nord di Aleppo. Formato un anno fa, Jaish Al-Tuwaar è un progetto militare ambizioso che riunisce arabi, turcomanni e curdi. Una delle componenti arabe del gruppo è Shams al-Shamal, “Il sole del Nord”, un tempo parte del Free Syrian Army (Fsa) a nord di Aleppo; una componente mista araba, curda e cristiana è Jabat Al-Akrab, accusata nel 2013 da altre componenti Fsa di celare il tentativo del Pkk di inserirsi, per suo tramite, nei loro ranghi.

Vi sono poi i gruppi turcomanni come la “Brigata del sultano Selim” e la “Brigata Selgiuchide”, noti per essere, contrariamente ad altre formazioni turcomanne affiliate al Fronte islamico e quindi all’Hnc, indipendenti dalla Turchia (e non ospitare combattenti fascisti dei lupi grigi turchi o militanti fanatici dell’Akp di Erdogan). Jaish Al-Tuwaar non ha mai ricevuto armi e addestramento statunitense perché si è sempre rifiutato, contrariamente ad altri gruppi, di combattere unicamente l’Is in questa fase, continuando ad affrontare anche l’esercito siriano attorno ad Aleppo. Nel maggio 2015 operava praticamente in tutta la Siria, ma la polarizzazione dell’ultimo anno tra islamisti e confederali ha indotto tutte le fazioni Fsa a decidere chiaramente da che parte stare, se con il Fronte Islamico (vicino al fortissimo gruppo Jabat Al-Nusra, filiazione di Al-Qaeda) o con le Sdf a matrice Ypg. Questa situazione ha condotto Jaish Al-Tuwaar nelle file Sdf lo scorso autunno, e per questo quasi tutte le sue forze sono ora concentrate al nord, per non finire vittima dell’aggressione congiunta delle fazioni del Fronte Islamico e del governo a sud-ovest.

Un’altra importante, ma molto controversa, componente delle Sdf – stavolta completamente araba – è Tuwaar Al-Raqqa (“i rivoluzionari di Raqqa”), che si formò nel 2012 nelle prime fasi dell’insurrezione armata contro il governo. La particolarità del gruppo, formato da combattenti originari di Raqqa e della sua provincia, è che esso rappresentava una delle forze più significative contro il regime in città assieme a Jabat Al-Nusra. Nel 2013, tuttavia, il militante di Al-Nusra Abu Bakr Al-Baghdadi formò a Raqqa lo stato islamico d’Iraq e Sham (Levante), ossia l’Isis, chiedendo a tutti i combattenti di Al-Nusra di sottomettersi al suo progetto. Molti seguirono le sue argomentazioni, secondo cui l’instaurazione del califfato non doveva più essere rinviata, ma ancora per diversi mesi il consiglio cittadino formato da tutte le componenti governò la città, finché Nusra e Tuwaar Al-Raqqa non insorsero contro le sempre maggiori pretese dell’Isis; e se Tuwaar rifiutò di entrare nel consiglio della Sharia di Nusra, fece propria in questa fase una simbologia e una retorica fortemente caratterizzate dal riferimento all’islam, prima assente (il gruppo ha rivendicato in diverse fasi un programma non islamista o addirittura secolare). La formazione si ritirò per ultima dalla città, nel 2014, e si rifugiò a Kobane, dove continuò la lotta contro l’Is a fianco delle Ypg.

La collaborazione tra Ypg e Tuwaar Al-Raqqa è continuata nel 2015 ma, in occasione della conquista di Gire Spi (Tel Abyad in arabo) la scorsa estate, sono iniziati a sorgere i problemi. Tuwaar Al-Raqqa, ormai entrato nelle Sdf, ha ottenuto di condurre le operazioni in numerosi villaggi e quartieri arabi e di amministrarne una parte, inglobando tra l’altro molte tribù locali nei suoi ranghi e perciò rafforzandosi; tuttavia la forte instabilità dell’area, dovuta alla ravvivata ostilità tra arabi e curdi in seguito alla guerra, e alla persistente simpatia di elementi locali per l’Is, ha indotto le Ypg ad attuare talvolta momentanee evacuazioni di villaggi nell’avanzata verso Raqqa di quest’autunno. Improvvisamente è emersa una dura presa di posizione di Tuwaar Al-Raqqa, influenzata soprattutto delle nuove tribù affiliate al gruppo, che ha prima accusato le Ypg di deportare le comunità arabe, poi (a seguito di questa controversia) di aver militarmente isolato o addirittura assediato, a sud di Kobane, le unità dell’esercito di Raqqa a dicembre. Tawaar ha quindi annunciato il proprio scioglimento a gennaio, infine la ricostituzione e ri-adesione alle Sdf (fatto confermato a Infoaut e Radio Onda d’Urto da Talal Ali Sulo, loro portavoce), sebbene in seguito a probabili epurazioni.

Guardato dall’angolatura araba, lo scenario della Siria è devastato socialmente, prima che militarmente. Le alleanze politiche e militari sono oggi maggiormente definite di un anno fa, con le milizie pressate a scegliere l’opzione confederale o quella coranica; tuttavia tali scelte restano sovente fragili, a causa dello sfondo sociale, di percezione e di recente vissuto proprio dei vari segmenti della popolazione, sebbene ciò per molti assuma soltanto l’apparenza di un’incomprensibile intrico di gang contrapposte. Ognuna di queste “gang”, in realtà, è composta di esseri umani con una comunità, un territorio e una cultura politica più o meno apprezzabile alle spalle, che sovente porta i segni di una lunga storia di privazione sociale e oppressione. Quando abbiamo chiesto a Jashar, Dib e Anas cosa pensino di una Siria federale, hanno risposto di non sapere neanche cosa volesse dire. Renas, un ragazzo delle Ypg, gliel’ha spiegato in due parole. “Ci sembra un’ottima idea, hanno commentato: chi è musulmano potrebbe insegnare ai suoi figli il corano, chi è cristiano la bibbia”. Chiediamo se conoscono il pensiero di Ocalan: “Lo avevamo sentito nominare, ma non avevamo buone informazioni. Ora ci hanno detto che crede nell’umanità e nella libertà, e questo ci piace”. Dopo la liberazione di Shaddadi non hanno avuto ancora la possibilità di combattere, ma dicono di essere impazienti di trovarsi al fronte. “Vogliamo fare una rivoluzione a Raqqa!” affermano con rabbia. Chissà cosa diranno, nella comune lingua, a coetanei altrettanto arrabbiati che troveranno laggiù.

Dall’inviato di Infoaut e Radio Onda d’Urto ad Hasakah, Rojava

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