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Come si sente Dio in Rojava?

Chiedere a qualcuno se crede in Dio in Siria è un po’ come chiederlo negli Stati Uniti: tutti rispondono di sì, con la differenza che qui ci credono davvero. L’alternativa all’Islam, con poche eccezioni, è considerata il cristianesimo, quale religione minoritaria, vagamente barbarica e soprattutto antiquata (a causa del pasticcio teologico trinitario, che il profeta si ritiene abbia superato con la semplicità e l’eleganza di un’equazione russelliana), e la professione di ateismo è accolta con l’imbarazzo comprensivo di chi non farebbe notare le difficoltà di comprendonio a un ritardato mentale. Tuttavia, più che il dogma teologico, ciò che segnala il potere sociale della fede sono l’imperante terrore del corpo e la sessuofobia. Massud, di Amuda, racconta: “Avrei avuto le mie occasioni, ma non ho mai fatto sesso, non essendo sposato. La differenza tra uomo e animale, dopotutto, è che l’uomo è capace di controllarsi”. Se controllarsi significa dover circoscrivere al matrimonio la vita sessuale, facciamo notare, si tratterebbe di assimilare ad animali miliardi di persone, compreso il suo interlocutore: “Per carità. Capisco si possano commettere degli errori in gioventù. L’importante poi è maturare”.

L’ateismo è estremamente minoritario tra la popolazione del Rojava, sebbene non sia infrequente tra i militanti dell’organizzazione politica; e, ciononostante, la linea del partito – che non si sottrae a questa sfida culturale, né potrebbe farlo – non sostiene un vero e proprio ateismo (vale tanto per il Pyd, quanto per il Pkk). Secondo queste organizzazioni, che fanno proprio il pensiero del comune riferimento teorico, Abdullah Ocalan, Dio esiste, ed è tutto e in ogni cosa; di conseguenza, in ogni cosa c’è Dio. Sono stati i sumeri che, dividendo la società in classi, creando lo stato e sottomettendo le donne all’uomo, hanno avuto la necessità di trasporre anche nella scienza e nella religione le loro astrazioni gerarchiche, inventando tanto la distinzione “positivistica” (anacronismo terminologico volontario) tra soggetto e oggetto, quanto quella tra mondo e Dio. Ciò che il partito dice alla popolazione, in Rojava, sono quindi due cose: la prima è che tutte le fedi non soltanto possono, ma devono convivere, poiché hanno una radice comune, sebbene recisa dalla ramificazione avvenuta dopo l’origine sumera del dominio; la seconda è che tutte le persone davvero religiose dovrebbero tornare a tale radice comune, poiché la radice possiede senz’altro più verità del frutto ambivalente di una successiva deviazione.

Il partito suggerisce quindi in questa forma, alle persone che si rendono più coinvolte nelle istituzioni rivoluzionarie, la sostanziale adozione di una concezione panteistica dell’universo. Essa è presentata come a un tempo profonda e naif, ma nel suo fondo teologico è tutt’altro che compatibile con islam, cristianesimo ed ezidismo, e rappresenta nei fatti una facile anticamera dell’ateismo, o una sorgente di notevole indebolimento per le pretese di verità dei libri sacri. Muhammad Al-Qadri, arabo e musulmano, co-presidente del ministero per gli affari religiosi nel consiglio esecutivo del cantone di Cizire, proviene da “una famiglia imparentata con il califfo Ali” ed è stato scelto per questo compito per il fatto di possedere “una personalità favorevole all’autogoverno, che è la chiave per instaurare la pacifica convivenza in tutto l’oriente”. Ocalan, dice, è un pensatore mistico. “La sua filosofia ha una base fortemente religiosa, che chiama all’unità dell’esistenza, alla fratellanza di tutti gli esseri umani e alla coesistenza pacifica”. Al-Qadri ha scritto anche un saggio in cui approfondisce la teoria centrale di Ocalan in tema di politica religiosa, ossia la divisione tra potere religioso e potere pubblico: distinzione assente, a ben vedere, dalla tradizione islamica, la cui originalità storica consiste proprio nella sua negazione.

La questione è controversa per ragioni storiche e politiche, ma sotto il profilo teologico non sembrano esserci molte scappatoie: nell’islam, religione rivelata, tutto ciò che è scritto nel corano è parola di Dio; e tale parola prese a suo tempo (con inevitabile effetto eterno) posizione contro talune forme di organizzazione politica dei clan dell’Arabia di allora, intervenendo su svariate materie istituzionali, giuridiche e legate all’idea di giustizia. Questo insieme di indicazioni politiche divine costituiscono il cuore della sharia, la legge coranica, che non è – come si tende a credere – un punto di riferimento dell’islam radicale, ma dell’islam in generale, di esso come fenomeno sociale: le comunità di villaggio e di quartiere, in Siria, vivono da sempre secondo queste regole, e diffidano delle leggi dello stato, cui si sostituisce sovente l’autorevolezza dei notabili locali, che spesso coincidono con coloro che sanno leggere, e quindi conoscono direttamente cosa è scritto nel corano. Essendo insomma basato sull’ignoranza, il potere della sharia è potentissimo e fragile a un tempo; e, rispetto a questo, la rivoluzione gioca le sue carte assumendo un doppio posizionamento critico.

Figure come Muhammed Al-Qadri rappresentano l’elemento di intesa sociale che ha reso possibile l’architettura istituzionale del Rojava dopo il 2012, anno della rivoluzione: “la violenza di Daesh impone a tutti i musulmani di tornare alla verità originaria della religione, e criticare non solo questa violenza, ma quella di tutti i re e gli stati che hanno usato l’islam, nella storia, per finalità politiche”. La critica all’islamismo tenta di insinuarsi nella diffidenza verso i poteri separati dalle comunità claniche, adombrando il sospetto che l’islam sociale sia sempre stato tradito dagli stati, e in ultimo anche dallo stato islamico. Non fila così liscio: lo stato islamico fa in molti casi propria una concezione molto simile, restituendo ai consigli dei locali conoscitori della sharia i poteri che prima erano loro stati “usurpati” dagli stati iracheno, siriano o libico (i cui codici penali furono edificati in epoca coloniale su modello europeo). Per questo si rende necessario il secondo movimento critico, quello delle forze politiche (Pyd, Tev Dem) che intendono proteggere e spingere oltre la rivoluzione: le stesse tradizioni islamica e cristiana vengono criticate perchè influenzate da schemi di dominio “post-sumerici” che dovrebbero essere estranei alla religione pura, al panteismo “mistico” che fu all’origine di tutte loro.

Può sembrare una teoria astrusa, ma non è tale (ad est dei Dardanelli). Il movimento curdo assume una posizione se possibile più purista e “rivolta all’origine” del salafismo dell’Is o di Al-Nusra, che rivendicano il ritorno all’islam delle origini sul piano statuale (primi quattro califfi, VII sec. dc), ma non il ritorno alle origini della religiosità mediorientale. Indubbiamente l’idea salafita è più semplice e miete consensi come se piovesse, ma occorre considerare che, in queste regioni, la novità è per lo più concepita come deviazione, e l’origine come verità; i compagni non fanno che far propria un’astuzia politica, mettendo “all’inizio” ciò che Marx metteva alla fine, e presentandosi in questo modo come più realisti del re o, in qualche modo, più divini del libro. Con questo impianto possono procedere materialmente a una politica in materia religiosa che va ben oltre gli slogan ecumenici. Le istituzioni rivoluzionarie del Rojava non mettono in discussione il ruolo sociale della legge coranica, ma tentano da un lato di sottrarre la sua interpretazione all’arbitrio del notabilato locale, rendendola norma giuridica definita, dall’altro introducono talvolta norme in palese contrasto con il dettato coranico, come il divieto del matrimonio con minori o quello della poligamia.

Proprio su questa materia – ciò che più è importante – si misura tutto il peso, sociale come militare, dell’organizzazione rivoluzionaria. Nonostante siano il nerbo sociale e popolare della rivoluzione, le comuni di quartiere e di villaggio del Rojava non hanno diritto di interferenza su queste materie, regolate dal consiglio legislativo (cioè dalle istituzioni che ricalcano di fatto il modello statale). “Se oggi lasciassimo libertà al popolo del Rojava di decidere sulla poligamia, è molto probabile che la maggioranza delle comuni la renderebbe nuovamente legittima, e anche molte donne ne vorrebbero la reintroduzione”: l’azione educativa del partito, spiegano le compagne dell’organizzazione, deve porre le basi per una reale autonomia popolare dalle logiche del dominio. I limiti posti dalle istituzioni cantonali alla legge coranica sono uno dei luoghi in cui si pone un limite deciso alla democrazia diretta e si impone un livello verticale di forzatura rivoluzionaria, tanto legislativa quanto formativa; e non è casuale che questa contraddizione emerga sul terreno specifico del patriarcato (poligamia, delitto d’onore) e della sessualità (minori, adulterio, ecc.).

Questo è infatti anzitutto il terreno che qualcuno, un tempo, ha voluto sterilizzare nella parola di Dio. Il partito agisce con estrema cautela, consapevole che quelli di battaglia non sono gli unici campi minati, e che le retrovie sociali non sono meno importanti della linea del fronte. Le ragazze vanno a quella linea da sole e restano lontane dalla famiglia a combattere con coetanei maschi, dando la consolatoria ma erronea impressione che le rivoluzioni siano miracoli, mentre affrontano duri conflitti in famiglia e dormono in edifici separati da quelli degli uomini, così come marciano in file separate dai maschi le ragazzine durante le lunghe camminate per Ocalan o le frequenti manifestazioni cittadine. Mai come sul campo di battaglia siriano il corpo delle donne ricorda, se ce fosse bisogno, di essere il campo di battaglia. La persistenza di una separazione fisica almeno formale rispetto a quello maschile (nell’organizzazione militare e logistica come nella critica diffusa, fatta propria anche dall’organizzazione, dei costumi sessuali dell’occidente) sembra individuare un vertiginoso punto di equilibrio tra strascichi di segregazione e forme rivoluzionarie di autonomia femminile. In questa intersezione indimostrabile, indicibile e segreta, sembra quasi che uomini e donne, padri e figlie, musulmani e atei abbiano trovato il modo di non dover ancora, in Rojava, nominare ad alta voce il loro reciproco “peccato” – il più inconfessabile dei compromessi.

Dall’inviato di Radio Onda d’Urto e Infoaut a Qamishlo, Rojava

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