Crisi greca, nuova tappa dei piani di aggiustamento strutturale
Vengo in Grecia da quando ero un bambino di quattro anni. I miei primi ricordi risalgono a poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1949 e poi verso l’inizio degli anni ’50. Sembrava il Vietnam del 1975, condizioni di estrema povertà, da dopoguerra. Ricordo un viaggio da Sparta (da dove venivano i miei genitori) ad Atene, con la mia famiglia. Per me, ragazzino, era uno scenario da western, di cowboy e indiani, era questa la Grecia degli anni ’40/50. Quello che ho poi conosciuto da adolescente era invece un paese soggiogato al controllo statunitense, ereditato dagli inglesi. La Grecia era diventata l’avamposto dell’Alleanza Atlantica nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica. Ci fu una repressione feroce della sinistra.
Ricordo poi la Grecia del 1981, fu come una rottura: l’inizio dell’era Pasok, di Papandreu, l’entrata nell’Unione Europea. Il paese cambiò improvvisamente. Iniziano ad esserci consistenti investimenti capitalistici, soprattutto nelle infrastrutture (porti, autostrade), nell’ energia, le isole si aprono al turismo. Grandi masse di persone si spostano in città, Atene diventa una metropoli gigante. La Grecia comincia ad apparire più europea. Il paese che trovavo quando venivo qui da ragazzino aveva un carattere profondamente rurale, le condizioni di vita erano frugali, c’era un forte attaccamento alla terra, anche in chi viveva ad Atene o Salonicco. Tutt’a un tratto la gente iniziò ad vivere come a Parigi o Londra. Una diversa personalità inizia a prendere forma. Arriviamo quindi agli anni 2000 e quella che hai sotto gli occhi è un’altra Grecia. É un qualcosa dato per scontato da tutti. Ed è per questo gli ultimi cinque anni sono stati così duri, perché hanno messo in discussione livelli di vita che si pensavano raggiunti una volta per tutti.
È una parte della storia, hai alti livelli di vita, un ‘economia che diventa urbana (5 milioni di persone ad Atene, 1 milione e mezzo a Salonicco, parliamo di una società compiutamente urbanizzata). Quando si parla di consumismo, di finanziarizzazione è di una forma di vita imposta che stiamo parlando, non di qualcosa che si è scelto. Quando vivi in un appartamento in città, non è più come nella comunità di villaggio, le cose di cui hai bisogno le devi comprare, che ti piaccia o meno. È un cambiamento profondo avvenuto nella società greca. Qualcosa che ho potuto osservare direttamente, tra i miei parenti che stanno qui. L’assunto era però che questo fosse un one-way trip (un viaggio di sola andata), per questo per molti gli ultimi cinque anni sono stati uno shock: garanzie che si pensavano assodate sono state smantellate, niente di quel che era dato per certo lo è più. Il recente voto per l’OXI è l’espressione della presa d’atto che le cose sono cambiate. Per molta gente che conosco è stato uno sforzo di ridefinizione, un dirsi “Wow! Ma è questo che vogliono da noi…”
Beh si è così, ma non è solo il proletariato greco ad essere in crisi, ma anche lo stesso capitale, non dimentichiamocelo. Questo è il vero punto di partenza, quello che si è inceppato è il processo di accumulazione del capitale europeo, che sta affrontando una crisi di profito, di accumulazione, ormai di lungo corso. É una crisi che il capitale sta cercando di risolvere attraverso mezzi che non sono sicuramente keynesiani! Ma non torneranno neanche alle formule del XIX secolo. Quello che stanno utilizzando è il classico approccio liberale: tagliare i salari e ogni tipo di garanzie e diritti; scaricare cioè i costi della riproduzione della classe lavoratrice su essa stessa, sul proletariato. Perché ci sono solo due modi per uscire da una crisi di questo tipo, entrambi vitali, perché entrambi si rendono conto che non si può andare avanti così. Due modi che corrispondono a due “partiti”: il proletariato greco e il capitale europeo. La difficoltà nel trovare quella che viene presentata come una soluzione finanziaria, dimostra nei fatti che il “problema greco” non è di ordine finanziari. È evidente cosa si fa di solito in questi casi: haircut del debito, eliminazione o forte riduzione, per rimettere in moto il meccanismo e ripartire. Non c’è niente di nuovo, di nuovo c’è la drammatica situazione in cui versa il capitalismo europeo. La questione è dunque tutta politica. Se fate caso, tra le riforme che richiedono, c’è sempre una nuova legislazione sul lavoro e sulle pensioni. Perché? Perché quello che vogliono fare è quel che ho visto applicato in Nigeria: un rimodellamento radicale della società per creare le condizioni di una nuova accumulazione [originaria] di capitale. I processi cui stiamo assistendo si giocano su due livelli: uno, quello ufficiale, è l’aspetto del capitalismo nella sua dimensione finanziaria; l’altro, basico e non detto, è la svalutazione della forza-lavoro e della sua riproduzione. Il secondo è un aspetto importante, centrale, non solo per i greci. Qui se ne sono accorti: “è con questo che abbiamo a che fare”. Per questo non c’è particolare ansia sul tipo di memorandum che si andrà a firmare. Hanno interpretato la cosa come un pronunciamento sull’accettazione o meno delle condizioni che gli vengono imposte; e come una domanda se non sia invece il caso di iniziare qualcos’altro. Cosa sia quest’altro da trovare è piuttosto vario: per qualcuno una soluzione keynesiana (Varoufakis, Syriza). Teoricamente sarebbe anche possibile ma politicamente è un problema enorme perché è una strada che è già stata provata e, capitalisticamente, non funziona. In quel caso l’Europa diventerebbe per il capitale una sorta di giardino d’infanzia, non un spazio in cui realizzare una vera accumulazione. Se non riescono a risolvere questo problema legato all’accumulazione in Grecia, per poi generalizzarlo all’Italia, alla Spagna, agli stessi lavoratori tedeschi, sono rovinati. Stiamo osservando una nuova tappa degli aggiustamenti strutturali e della crisi del debito dei primi anni ’90. Come newyorchese l’ho già osservata negli anni ’70, con la crisi fiscale, poi di nuovo in Nigeria negli anni ’80. L’abbiamo vista nella sua versione lenta e deformata statunitense, ora la vediamo arrivare in Grecia. È stato un processo molto lungo, che ha ormai quarant’anni. Quel che c’è di nuovo, è che ha raggiunto il contesto europeo, da dove era supposto stare alla larga ma invece è successo anche qui. Per questo il responso di domenica è stato importante, perché apre a delle possibilità nuove.
Non per fare dell’umorisimo ma la Grecia è l’unico paese al mondo che celebra una giornata dedicata al No, all’Oxi. Quando Mussolini si preparava ad invadere la Grecia, mandò un telegramma a Metaxas (lui stesso un dittatore fascista) intimandogli di arrendersi, ma lui disse “No” e da allora è un giorno di festa, di vacanza. La gente non ha paura di dire No.
Beh, questo è un enorme problema. Anzi è il Problema. C’è un principio di ritorno alla campagna, un tentativo di ricreare ad esempio una subsistance farming, un’economia agricola di sussistenza – agricoltori che vengono in città per vendere la loro roba direttamente, senza mediatori o reti per la distribuzione gratuita del cibo – ma si tratta di piccole iniziative, certo non adatte a soddisfare i bisogni di oggi. Un po’ come le cliniche autogestite, ho avuto notizie di quattro di queste: a Salonicco, ad Atene vicino a piazza Exarchia, a Eraklion e Rethymno nell’isola di Creta. Stanno facendo sforzi enormi, in particolare per chi non ha accesso regolare alle cure sanitarie. Se ne aprono altre in giro per il paese, basandosi soprattutto sul lavoro volontario. Iniziano anche a ripensare la relazione asimmetrica, di potere, tra dottori e pazienti. Si fanno grandi sforzi per cercare di tessere una rete in grado di funzionare dopo un eventuale collaso dello Stato; per pensare a un nuovo tipo di medicina, basata sulla comunità. Il problema è come allargare queste esperienze su larga scala. Stiamo parlando di un di servizio che, mi dicono, è riuscito a soddisfare 1000/1500 pazienti all’anno, ma occorrerebbe una capacità d’azione per milioni di persone.
Questi livelli, quello dell’agricoltura, della casa, della riorganizzazione degli spazi, urbani e dei piccoli villaggi, sono oggi una grande sfida. C’è un fatto che inizia ad essere riconsociuto, che la soluzione keynesiana non è solo problematica per il capitale ma nche per noi. Una cosa è quella che fa Syriza, aumentare il numero di persone che ha diritto di accesso alle assicurazioni sanitarie, altra cosa ripensare cos’è la cura e la salute. Una questione asolutamente necessaria, perché è lo stesso sistema ospedaliero ad essere in crisi. Pensiamo alla discussione sulle malattie iatrogeniche, causate cioè dall’intervento medico, la paura di recarsi all’ospedale perché la stessa istituzione medica è oggi causa di malattia. É una questione mondiale, non greca. La affrontiamo tutti. Anche rispetto al cibo, sono domande che ci si pone: quello che sto mangiando mi nutre o mi sta uccidendo? L’assunzione di fondo è che lo Stato non provvede più alla nostra sopravvivenza.
Abbiamo qui a che fare con la famosa questione di scala. Possiamo prendere come esempio gli zapatisti in Messico, che controllano un territorio di centinaia e centinaia di chilometri, con dozzine di municipalità che hanno creato la propria forma amministrativa, prendendo decisioni collettivi. La loro esperienza mostra che queste cose sono possibili. Ma si basano su forme di sviluppo sociale [endogene] che hanno migliaia di anni, che nelle grandi città non abbiamo. Guarderei più al caso dell’Argentina, dove sono stato un paio di mesi fa, e al gran numero di favelas in cui la gente è giunta a rimodellare la propria vita urbana, al crescente controllo che hanno saputo creare sulla vita quotidiana, un differente rapporto alla proprietà. È una storia molto lunga…
Qui in Grecia l’esperienza è più giovane. Il ritorno alla vita in campagna riguarda qualche decina di migliaia di persone, ma il grosso emigra: Germania, Australia, verso luoghi dove pensano di sfuggire alla crisi del capitalismo. Ci sono degli sforzi ma le forze, specie quelle monetarie, che sono imposte alla Grecia sono molto forti. E sinceramente non vedo in Syriza, nei suoi modi, una risposta a questi problemi sociali. Guarda ancora troppo allo Stato come agente in grado di dare risposte, non propone alternative. Se guardiamo invece all’esempio che facevo prima, all’Argentina, le comunità delle favelas sono state in grado di costruire un potere sociale che ottiene dallo Stato risorse senza dargli in cambio il controllo di queste. Hanno costruito rapporti di forza asimmetrici. Sono più potenti.
Sono d’accordo con voi. Certo, ci sono sempre disaccordi interni alla classe capitalista su come risolvere una crisi: qualcuno guarda alla domanda interna, qualcun’altro all’Unione Europea come ancora di salvataggio… ma dobbiamo pensare che milioni di persone hanno votato, e hanno le loro ragioni. Vi dò giusto un esempio: molte persone che conosco hanno espresso nel voto il rifiuto di essere terrorizzati. Le paure erano proiettate sullo schermo sociale: non avrete più medicine, non avrete più scuola. Molti nella mia famiglia hanno votato Oki giusto per dire: “Non ci intimidirete ulteriormente! Non ci farete accettare che questa è l’unica via”. Dopo anni, un esplicito rifiuto dell’austerity, perché la gente ha toccato con mano la questione fondamentale della riproduzione sociale. Non siamo all’inizio della crisi, sono cinque anni che la gente la vive sulla propria pelle. La gente ha detto: “Ne abbiamo abbastanza: Ya Basta!”. Direi che questo è il senso principale del voto.
Per quel che riguarda la composizione di classe del No e dei vettori politici che lo hanno orientato, penso che Syriza abbia fondamentalmente un programma – ben espresso nello statement di Varoufakis – alla Krugman e alla Stiglitz: prospettano un revival del neo-keynesismo. Ha la sua logica, è comprensibile, ma qui in Grecia c’è anche tutto il movimento dell’economia solidale, che ha un altro programma, non riconducibile a quello di Syriza; viene fuori dalle esperienze anarchiche, autonome, extra-parlamentari, dalle iniziative di base.
C’è poi la forte tradizione del Partito Comunista Greco (KKE), ci sono diverse strategie sul campo. Non sono sicuro di cosa verrà fuori. Sono invece certo che Syriza non sarà in grado di convincere la classe dirigente europea che la Grecia stia andando fuori controllo e che sia dunque necessario, per loro, un patto, un New Deal sul modello statunitense degli anni ’30.
C’è una soluzione finanziaria, che è anche politica, e parla di grexit: abbandonare la zona euro, istituire altri rapporti monetari di scambio e di valuta; è una proposta sostenuta da molte e differenti categorie, una proposta concreta, possibile, perfettamente logica. In Argentina l’hanno fatto, hanno abbandonato l’economia basata sul dollaro. Da un punto di vista capitalista ha il suo senso, ma a me non interessa quel punto di vista, non m’interessa ragionare sul come uscire dalla crisi nel capitalismo. Quella è la loro soluzione, di una parte del capitale (inclusi non pochi membri di Syriza). La questione, per noi, è pensare a un’uscita non capitalista dalle molteplici crisi in cui ci troviamo. Ci sono progetti, visioni che implicano altre soluzioni economiche e sociali che mi sembrano perfettamente percorribili. Non credo che sia Syriza la soluzione: è una coalizione di neokeynesiani. Penso piuttosto a soluzioni incentrate sul discorso dei commons.
L’FMI fa sostanzialmente sempre quello per cui è stato creato, quello che ho già avuto modo di osservare in Nigeria negli anni ’80: il suo obiettivo è applicare i Piani di Aggiustamento Strutturale. Da qui la sua insoddisfazione per l’operato di Syriza, che non ha accettato fino in fondo quella indicazione. Dopo che l’Unione Europea ha realizzato che l’FMI non guardava solo all’Europa, che le sue preoccupazioni non concernevano soltanto il fallimento di accumulazione del capitale europeo, ma che aveva una concezione internazionale, da capitalista collettivo globale, ha quindi dovuto tenere in conto quello che pensavano gli Stati Uniti sulle relazioni tra l’Europa e il resto del pianeta. Per quello che ho potuto capire, le indicazioni degli Stai Uniti all’Europa sono state di essere cauti sulla vicenda greca: “Fate attenzione a quel che può succedere, c’è un’altra carta nel gioco ed è meglio che non venga giocata”. Gli Stati Uniti non vogliono la Grecia fuori dall’Europa perché c’è anche il passaggio strategico del TTIP all’interno dell’Europa, che avrà bisogno di una ratifica dei parlamenti nazionali. Una vicenda che avrà conseguenze importanti per gli Stati Uniti e un impatto diretto sul proletariato europeo. Il loro discorso è stato un po’ questo “non è il momento di spingere troppo, quanto piuttosto di porre le basi per il prossimo salto”. Si tratta quindi di avere una Commissione Europea più disposta verso tutta l’Europa, soprattutto in vista dell’approvazione del Trattato.
Per finire, vorrei ancora dira qualcosa su quel che dovremmo fare noi, fuori dalla Grecia, negli Stati Uniti o nel resto d’Europa. Dobbiamo supportare la dimensione anti-capitalista che si è espressa nell’Oxi. Cosa possiamo fare, noi, nei prossimi mesi, per sostenere il proletariato greco? L’Italia è parte di questa storia.
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