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Da San Pietroburgo ad Idlib: anche ad est i morti sono i nostri

Questi due eventi sono stati mediatizzati e comunicati molto diversamente sia a livello locale che globale: lunedì, nel caso russo, l’accento è stato messo sulla proiezione di un senso di ripristino immediato della normalità, con il basso profilo di Putin e le stazioni riaperte a tempo record. Cosa che ha fornito al mainstream occidentale un’occasione per attutire una narrazione già poco emotiva – laddove nelle piazze europee la psicosi alimentata dai media è stata funzionale al consolidamento di dispositivi securitari, mentre in un contesto autoritario più avanzato come la Russia sono cruciali la capacità delle autorità di far mantenere l’ordine, e la percezione di ciò nella popolazione.

Il bombardamento della popolazione civile di Khan Shaykun di martedì (a 20km dal fronte di un’importante operazione lanciata negli ultimi giorni dall’opposizione teocratica contro Assad e finora respinta) è stato immediatamente rilanciato nella sua gravità, tramite i propri contatti sul territorio, dal filo-islamista Osservatorio Siriano per i Diritti Umani. Per arrivare ad un mainstream occidentale (che in passato aveva già ingigantito la fake news sulla caduta di Kobane dell’organizzazione) improvvisamente scopertosi paladino di una confessione religiosa quotidianamente da esso tenuta nel mirino, e prodigo fino alla nausea dei particolari più scabrosi e delle dichiarazioni delle istituzioni internazionali più costernate.

Al di là di queste rappresentazioni non ci sembra centrale disquisire sulle modalità o sulla paternità degli attacchi, quanto sul succo umano e politico: la morte atroce di decine di persone in maniera completamente contigua con quanto avvenuto in tante città europee (ma non solo); per un conflitto, quello siriano, pianificato in loro nome e a loro danno ma in difesa di interessi specifici ed elitari. Le ipotesi più verosimili: da un lato per il risentimento e la marginalizzazione (alimentate dall’islamofobia e dal razzismo istituzionali russi) per una fetta di popolazione non bianca e ortodossa che, priva di alternative, va a vestire i panni nemici del fondamentalismo suicida eterodiretto. E dall’altro per una rappresaglia trasversale e in perfetto stile putiniano per San Pietroburgo, che funga da coronamento del ruolo egemonico della Russia nell’area mediorientale. In barba, consapevolmente, a qualsiasi monito internazionale sulle armi chimiche. Un eccesso reso possibile dalla posizione di forza di Assad (che con il supporto russo, iraniano e di Hezbollah sembra puntare a lungo termine su una vittoria totale, almeno nell’ovest del paese) e dall’estromissione dai negoziati di Astana dell’amministrazione Obama (verso il cui passato atteggiamento sulle armi chimiche l’attuale querelle suona come uno sberleffo postumo). E un avvertimento ai ricchi sponsor dell’opposizione teocratica, tornati fuori tempo massimo a cercare di coagulare un fronte comune anti-regime.

Nella narrazione, ad essere – culturalmente – asfissiante è anche l’egemonia delle ideologie dominanti in questa fase storica. Le uniche ammesse in un dibattito mainstream presidiato fino ai denti ai suoi alti livelli contro qualsiasi lettura alternativa.

Da un lato la miseria liberale ed atlantica dei cultori dei “diritti umani”: come se i bombardamenti francesi post-Bataclan in Siria fossero più etici nel dilaniare e mutilare, anziché asfissiare, intere popolazioni. Un pubblico che strizza l’occhio ai “volontari” embedded pro-Fratelli Musulmani dei White Helmets, che arriva al paradosso di scendere in piazza a Parigi per Aleppo in difesa dei propri stessi carnefici – di quel doppio che è il fondamentalismo islamista per il liberalismo occidentale.

Dall’altro lo sciovinismo retrogrado e nazionalista di chi sostiene che Assad combatta il terrorismo (dopo aver aperto nel 2011 le porte delle carceri ai peggiori fanatici per stroncare la rivoluzione di marzo contro di lui ed essere ricorso più volte alle famigerate “barrel bombs” e ad altre forme di terrorismo di stato) o di averne addirittura bisogno (dopo aver perso due volte Palmira e quando la maggiore fetta di terreno in tutta la guerra – quasi un quarto del paese -è stata strappata all’ISIS dalle YPG e SDF curde e arabe). Posizioni che si estendono rapidamente alla nostalgia per “quando c’erano loro” (i vari Saddam, Ben Ali, Gheddafi…) e di quando i loro cittadini “se ne stavano a casa loro” (sorvegliati nelle città o reclusi nei campi di concentramento nel deserto grazie ai soldi dell’Unione Europea – cioè nostri).
 
Il minimo comun denominatore di queste posizioni è il settarismo, nel senso più letterale del termine: sia nel percepirsi come parte di una fazione moralmente o etnicamente superiore, che nel concepire le popolazioni interessate dagli eventi come parte di un’altra, e come una sorta di blocco monolitico e coerente. Ma anche negando loro un’umanità, sia nella mancanza di empatia mostrata dalle istituzioni occidentali verso le vittime di San Pietroburgo che nella corsa delirante alla dietrologia più forsennata davanti ai morti di Idlib.

Grattando sulla superficie si scopre invece che la guerra civile, regionale e globale siriana non è un gioco a somma zero, una serie di battaglie in cui ci siano chiari vincitori e sconfitti e che in maniera progressiva e consequenziale porti alla completa vittoria dell’una o dell’altra parte. Si tratta di un conflitto multidimensionale, dai protagonisti apparentemente incoerenti nelle proprie alleanze e finalità – se non si fa ricorso ad un’ottica di classe.
 
Spesso sul campo sono proprio i generali dell’esercito governativo siriano – prodotti del regime clientelare, nepotista e corrotto di Assad – a mantenere lucrosi business e traffici con le aree da essi stessi assediate; mentre dall’altro lato i fondamentalisti islamici sono ben contenti di essere al centro del controllo di tali flussi e non disdegnano di rifornire a propria volta gli “apostati”.

Così come l’Occidente si straccia le vesti dopo ogni attentato sul suo suolo e fa la guerra ai fondamentalisti; ma ne sostiene e protegge i principali sponsor (basti pensare ai dinieghi di Obama e Trump alle cause verso l’Arabia Saudita delle famiglie delle vittime dell’11 settembre; o della forte presenza culturale, militare ed economica della “laicissima” Francia nei paesi del Golfo con le sedi dislocate del Louvre e della Sorbona), rifornendoli non solo degli ormai canonici armamenti ma anche di sofisticati sistemi di sorveglianza tramite “le nostre startup” (vedere gli affari di Area con il regime siriano) o di grandi opere, infrastrutture e know-how critico per le loro politiche settarie.

Lo stesso Putin, uno statista astuto e cinico, nel suo progetto di sostituire la guerra statunitense in medio oriente con una ‘pax russa’ (con caratteristiche imperialiste, data la presenza di basi militari e del monumentale debito che l’economia siriana ha contratto con Mosca) un giorno può strumentalizzare Idlib ma un altro garantire i territori autonomi curdi dalle minacce guerrafondaie della Turchia. Ciò lo rende meno autoritario, o ci deve far scordare la sua ideologia tradizionalista di comunità organica, che recupera la politica di potenza del passato sovietico per negarne il portato rivoluzionario? Tutt’altro.

In tutti e tre questi esempi, e lungi da fornirne un’immagine estremamente vittimistica o idealizzata, sono le popolazioni a pagare il conto – da San Pietroburgo a Idlib. Il problema è che nessuno, nemmeno purtroppo il popolo in armi delle YPG e delle SDF, può permettersi il lusso di sottrarsi a queste macro e microdinamiche, determinate dagli interessi dei circoli di potere al timone di grandi e medie potenze. Un dentro e contro una civiltà capitalista, ma anche un malgrado essa, la cui tatticità pone quotidiani dilemmi, asperità e contraddizioni a chi combatte lo stato di cose presente. In particolare a chi oggi in Siria del Nord deve guardarsi dai nemici genocidi da cui è circondato ma anche dall’abbraccio funzionale (ma soffocante e interessato) dei militari a stelle e strisce o dal tricolore bianco blu e rosso. Senza questo pragmatismo non sarebbe stata per nulla scontata la tenuta di Kobane alle orde dell’ISIS, o la mancata invasione da parte della Turchia della Siria del Nord dopo l’intesa con Putin ed Assad. E’ il continuare a costruire con pazienza ed intelligenza il rapporto di forza ed il momento in cui si potrà capovolgere che permetterà alle forze autonome e progressiste di irrompere fuori dall’angolo in cui sono ora costrette a livello globale.

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