Di NBA, guerra civile e cose per niente scontate
Probabilmente ci vorrà ancora un po’ di tempo per comprendere pienamente la portata storica degli eventi che, partendo dalla “bolla” di Disney World in cui si stanno disputando i play-off di NBA, hanno avuta una ricaduta a cascata su tutto lo sport statunitense, ma è indubbio che quanto sta accadendo sia destinato a segnare uno spartiacque non solo nel mondo agonistico, ma anche all’interno della società statunitense e di tutti i suoi molteplici osservatori sparsi in ogni angolo del globo, con buona pace dei nostri quotidiani sportivi nazionali che ormai sembrano propendere per una linea editoriale a metà strada tra il gossip e il fantamercato.
Infatti, dopo il “forfait” improvviso dei Milwaukee Bucks della scorsa notte, a cui si sono immediatamente associati i loro avversari, gli Orlando Magic, ci sono state importanti prese di posizione: Houston, OKC, Portland e le squadre di Los Angeles hanno deciso di non scendere in campo, anche nella lega femminile di basket, la WNBA, dove c’è stata una significativa protesta partita dalle Washington Mystic che poco prima del loro match hanno deciso di disertare il parquet, così come nel tennis, che dopo le dichiarazioni della giocatrice Naomi Osaka che aveva manifestato la volontà di non scendere in campo ha optato per la sospensione della giornata al Western and Southern Open, e anche le massime leghe di calcio e baseball che hanno deciso di rinviare i loro incontri previsti in queste giornate.
La dimostrazione del fatto che non si tratta di un fuoco di paglia, o “dell’ennesimo capriccio di atleti viziati e strapagati distanti dal popolo”, come pure hanno sostenuto a ogni latitudine tutti quelli affetti da una grave forma di miopia sociopolitica, che devono aver preso troppo alla lettera il concetto di “minoranza” e appiattito le proprie posizioni su quelle prettamente WASP, più attente al dito delle proteste che non alla luna da esso indicato, ovvero i motivi che le hanno scatenate – perché a voler mischiare e confondere un sempre meno latente razzismo con l’insensibilità o comunque con la famosa pretesa che lo sport e i suoi interpreti restino fuori dalle contese sociali, è un attimo – è quanto avvenuto, sempre nella bolla, dopo la protesta di Bucks e Magic.
Infatti, c’è stata una riunione di oltre tre ore tra tutti i giocatori presenti nella “bolla” per capire e decidere collettivamente se e come proseguire questa protesta: i Lakers e i Clippers, le due squadre di Los Angeles, tra le principali pretendenti all’anello, su iniziativa di LeBron James, avrebbero proposto di chiudere la stagione senza proseguire i play-off, proposta che al momento non è stata accolta positivamente dalle altre franchigie a dimostrazione di quanto tutto sia in divenire e senza finali scontati. Quello che è sicuro è che la giornata di ieri è destinata a entrare nella storia, per la dimostrazione che nonostante si tratti di uno dei business più grandi del mondo, com’è per l’appunto l’indotto economico che ruota intorno all’NBA, la volontà e la coscienza sociale degli atleti, a maggior ragione in un contesto non molto distante da quello di una guerra civile a bassa intensità com’è quello che si respira quotidianamente negli States, può superare ogni ragione economica e ogni rassicurante comfort-zone mentale.
Certo, qualora la protesta dovesse rientrare senza colpo ferire, questa rappresenterebbe una nuova freccia nell’arco dei propugnatori dello status quo e dell’ordine pubblico che avrebbero gioco facile nel gridare “alla farsa!”, a partire dal presidente Trump, che nonostante i suoi goffi tentativi di restare in sella è stato ormai scavalcato dalla portata dello scontro che pure ha contribuito a esacerbare. Allo stesso tempo, nessuno ha l’ingenuità di affermare che dopo questa protesta le violenze nelle strade statunitensi si fermeranno e la polizia finirà di sparare e uccidere cittadini disarmati, ma d’altro canto non è né il ruolo, né il mestiere degli atleti che avrebbero dovuto limitarsi a scendere in campo, ma che per un sussulto di dignità non l’hanno fatto mettendo seriamente in discussione le regole dello show business dimostrando che non tutto può piegarsi alle esigenze dell’audience e che anche in un’epoca di piena e servile adorazione del Dio denaro, in certi casi si possono offrire degli esempi di dignità e coerenza al pubblico e alle giovani generazioni.
Giuseppe Ranieri
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