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Dove va il Messico?

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di José Luis Hernández Ayala da Jacobin América Latina

Traduzione di Manuela Loi e Alice Fanti per lamericalatina.net

Commento di Carlotta Ebbreo e Alessandro Peregalli

Che succede in Messico? Di questa repubblica federale viene speso proiettato all’Europa un immaginario romanzato, aneddotico e parziale, mentre poca attenzione viene data alla sua politica economica, securitaria e sociale. Il paese è stato governato quasi ininterrottamente, dal 1930 al 2000 e poi dal 2012 al 2018, da un unico partito, il Partido Revolucionario Insitucional (PRI). Sorto dalla sanguinosa e “interrotta” Rivoluzione Messicana come garante del mantenimento di alcune conquiste rivoluzionarie, prima fra tutte la riforma agraria, e allo stesso tempo dal controllo statale, corporativo e autoritario delle sue spinte più trasformatrici, il PRI è stato protagonista e gestore, tra gli anni ‘80 e ‘90 del ‘900, delle riforme di aggiustamento strutturale che hanno portato il paese nell’orbita neoliberale, come ad esempio il trattato di libero commercio del Nord America (NAFTA) e la progressiva apertura delle risorse naturali ed energetiche ai capitali stranieri. Negli ultimi due decenni, il dominio del PRI è stato sostituito dall’alternanza con il PAN (Partido Acción Nacional), partito che ha storicamente rappresentato gli interessi della borghesia ed i valori del conservatorismo cattolico-cristiano.

Il primo sforzo di questo articolo di José Luis Fernández Ayala è raccontare in che contesto nel 2018 si afferma per la prima volta alle presidenziali una coalizione di partiti che si dichiara anti-neoliberale, e anche, dei presunti effetti di polarizzazione che questa vittoria ha generato in un paese profondamente diseguale. La proposta politica con cui si è presentato l’attuale presidente Manuel Lopez Obrador (detto AMLO), del partito Movimiento de Regenaración Nacionál (MORENA), ha un che di messianico e sensazionale, e si colloca in un momento storico dove l’esistenza di uno Stato di diritto è messa fortemente in discussione. Si pensi che il Paese non è in grado di gestire l’escalation della violenza relazionata al narcotraffico, è fra i primi dieci nel mondo nella classifica dell’indice globale di impunità dei crimini, con un altissimo indice di corruzione, dilaniato dai conflitti ambientali ed è tra i paesi più rischiosi per i difensori dei diritti umani e dell’ambiente, per i giornalisti e per le donne. In questo contesto, Obrador si presenta come presidente di un governo centralizzatore, che propone un cambio “epocale” nella politica del paese, la cosiddetta “Cuarta T”, ovvero la quarta grande trasformazione dopo la guerra di indipendenza (1810), la Guerra della Riforma di Juarez (1858-1861) e la Rivoluzione Messicana (1910-1920).

Il nuovo governo, tuttavia, non sembra in realtà attuare una trasformazione strutturale, e appare piuttosto segnato da quelle contraddizioni che hanno accompagnato negli ultimi anni i governi cosiddetti progressisti in America. La militarizzazione del paese non diminuisce, mentre il conservatorismo in difesa dell’istituzione della famiglia tradizionale permane. Inoltre, la vicinanza alle lobby cristiane ed in particolare evangeliche, ma anche l’ideologia del progresso ad ogni costo, approvando alcuni vecchi e nuovi progetti di grandi opere (mentre altre del tutto simili vengono cancellate in quanto anti-ecologiche), hanno portato al conflitto aperto con movimenti sociali come il movimento femminista, l’ecologista e con lo zapatismo.

Se in termini di indirizzo politico, economico e sociale abbondano le continuità con il passato, quello che sembra essere al centro della “trasformazione” obradorista è più che altro la lotta alla corruzione, una vera e propria bandiera di questo governo, con la quale cerca di contrastare le escrescenze più scandalose del sistema di affari clientelare pubblico-privato delle gestioni PRI e PAN. In un paese come il Messico che a differenza di altri paesi latinoamericani non ha mai vissuto grandi processi ad alte cariche dello Stato, il fatto che il governo Obrador abbia cominciato processi giudiziari contro alti funzionari di Stato è percepito come una conquista enorme. I casi più eclatanti sono due, Emilio Ricardo Lozoya Austin, ex direttore della PEMEX (l’impresa statale di produzione e distribuzione di petrolio e gas) con diversi capi di accusa legati a corruzione e collusione e Salvador Cienfuegos, ex segretario della difesa, accusato di corruzione e collusione con gruppi del narcotraffico, arrestato negli USA ma poi rilasciato.

La lotta alla corruzione e ai privilegi, oltre a una parziale attuazione di politiche ridistributive e una moderata attenzione ai diritti sindacali, sono quindi gli assi attraverso cui il governo in carica prova ad attenuare alcuni effetti delle politiche liberali. Sicuramente, ci sono aspetti importanti di questo governo, che si muove in questa epoca di crisi economica generale, come l’innalzamento del salario minimo, una revisione delle norme alla base dei processi di sindacalizzazione ed anche un freno ad i processi di outsourcing nelle imprese. Inoltre, alcune politiche che hanno portato trasferimenti diretti alle classi popolari e forzato in parte le imprese a tutelare il salario dei loro lavoratori, rappresentano sforzi di attenuazione dell’impatto della crisi economica legata alla pandemia che sicuramente non sono stati ricevuti come politiche favorevoli da parte della classe imprenditoriale-borghese.

Ayala non silenzia né le ambiguità e le contraddizioni dell’azione di governo obradorista, sebbene il poco peso che dà a megaprogetti di morte come il corridoio logistico transismico, il Tren Maya e il Proyecto Integral Morelos, oltre che a una gestione delle frontiere perfettamente al servizio degli interessi statunitensi, sconta a nostro avviso un eccesso di benevolenza verso un governo che deve essere considerato per quello che è: un miglior gestore degli interessi capitalisti in una fase di crisi acuta della società messicana e globale. Tuttavia, è importante prendere anche atto del suo giudizio di fondo: il governo di López Obrador non rappresenta una mera continuità con l’epoca del PRI e del PAN, ed è su questo scarto e sui nuovi spazi di possibilità che con esso si aprono (o si chiudono) che deve giocarsi l’analisi e la prassi di una sinistra anticapitalista [Carlotta Ebbreo e Alessandro Peregalli].

Avere chiaro che il governo di López Obrador non si propone una rottura con la borghesia è importante. Ma è anche completamente insufficiente.

L’uragano elettorale che ha spazzato via il dominio egemonico dei due principali partiti borghesi – il Partido Revolucionario Institucional (PRI) e il Partido de Acción Nacional (PAN) – alle elezioni presidenziali del luglio 2018, ha prodotto una polarizzazione politica tra il nuovo governo e i partiti del vecchio sistema non ancora scomparsa. Anzi, sta acquistando un nuovo impeto grazie al processo penale contro Emilio Lozoya Austin, figura importante e molto vicina all’ex-presidente Enrique Peña Nieto, accusato di riciclaggio di denaro, corruzione e frode. Attualmente la controversia tra il presidente Andrés Manuel López Obrador e il vecchio sistema si spinge oltre il terreno elettorale e mira a un confronto che potrebbe sfociare nel consolidamento di un nuovo tipo di sistema capitalista.

Va ricordato che nel processo elettorale del 2018 sono stati replicati gli stessi meccanismi che avevano impedito il trionfo di Cuauhtémoc Cárdenas nel 1998 e di Andrés Manuel López Obrador (AMLO) nel 2006, come la frode elettorale, la compravendita di voti e decine di politici assassinati, meccanismi che sono però falliti di fronte all’impressionante malcontento per la corruzione, l’autoritarismo e la miseria causata da più di trent’anni di neoliberismo. Questo malcontento ha portato più di 30 milioni di voti al candidato vincitore: il 53% del totale.

Non si è trattato, come sostiene una parte della sinistra messicana, di una manovra di palazzo affinché tutto restasse uguale, ma di un’enorme spinta popolare che, nel caso non fosse stato rispettato il risultato elettorale, avrebbe provocato una protesta dalle conseguenze imprevedibili. López Obrador non era il candidato dell’oligarchia classista e razzista – che lo ha sempre considerato uno scomodo parvenu – bensì un rospo da ingoiare per evitare un male peggiore.  Di fronte all’evidente agonia del sistema autoritario e semidittatoriale del PRI-PAN, vi è stato un settore oligarchico – capeggiato da Alfonso Romo e, in misura minore, da Carlos Slim (Gruppo CARSO), Salinas Pliego (TV Azteca) e Emilio Azcárraga (Televisa) -, che ha optato per concedergli un discreto appoggio, a differenza di un settore maggioritario che ha deciso di avversarlo.

La divisione nell’élite.

Questa divisione nell’élite proviene da lontano. Alcuni settori dell’oligarchia concordavano con la corrente di economisti, guidata da Joseph Stiglitz, Paul Krugman o Jeffrey Sachs, che affermava che il neoliberalismo ortodosso era impraticabile e richiedeva adattamenti al modello. Questo settore, inoltre, si sentiva sempre più a disagio nel sostenere un sistema chiaramente autoritario, corrotto, legato al narcotraffico, che proteggeva gruppi di borghesi arrivisti e sciacalli che gli facevano concorrenza (questi ultimi, i più conservatori-patriarcali, omofobi, razzisti e classisti-fortemente dipendenti dallo Stato, neoliberali ortodossi e ferrei oppositori del governo di AMLO). Si trattava di una divisione nel seno di un’oligarchia che era rimasta compatta per decenni.  Una divisione che prefigurava i conflitti ai quali assistiamo attualmente.

Le differenze tra i gruppi oligarchici e López Obrador non si incentrano sulla continuità con il capitalismo. Il governo di López Obrador, senza alcun dubbio, non è un governo socialista né si propone una rottura con la borghesia. Esprime, invece, differenze fondamentali sul ruolo che deve ricoprire lo Stato in quanto regolatore della politica economica. E tali differenze si sono acutizzate durante la pandemia di COVID-19. Mentre gli organi di rappresentanza imprenditoriale aspettavano la dichiarazione di uno stato di contingenza sanitaria (che obbliga la parte padronale a pagare come indennizzo un salario minimo al giorno anche per un mese), il governo federale ha decretato uno stato di emergenza sanitaria per cause di forza maggiore, che garantisce la retribuzione totale di salari e prestazioni.

Tuttavia, il maggior conflitto si è verificato a causa della richiesta da parte degli imprenditori di un incremento del debito pubblico per sovvenzionare il pagamento delle tasse o per riscattarle in caso di fallimento, così come succedeva sotto il vecchio sistema Non è stato concesso loro nessuno di questi privilegi. Anzi, si sono visti obbligati a pagare i debiti d’imposta e a pagare puntualmente le tasse anche in piena pandemia, mentre viene mantenuta la spesa per il welfare e vengono canalizzate risorse verso i piccoli e i medi imprenditori.

L’élite e il governo si sono scontrati anche su altre questioni: annullare la costruzione dell’aeroporto nel Lago di Texcoco, in quanto anti-ecologico e in quanto rappresenta un affare di corruzione dell’entourage di Peña Nieto; abolire la cosiddetta «Riforma Educativa», perché contrasta gli interessi degli insegnanti e perché apre la strada alla privatizzazione dell’istruzione pubblica; rispettare la consultazione popolare per sospendere la costruzione del birrificio Constellation Brands nella città di Mexicali, Baja California, poiché costituiva una minaccia per il rifornimento dell’acqua a una città semidesertica; favorire il ripristino della sovranità energetica mediante la costruzione di una nuova raffineria e la modernizzazione delle cinque già esistenti (in materia di energia elettrica è stato elaborato un nuovo assetto operativo che annulla i privilegi alle imprese produttrici di energia fotovoltaica, cosa che ha fatto gridare allo scandalo le società transnazionali, soprattutto Iberdrola).

La politica del nuovo governo nei confronti dell’America Latina e i Caraibi ha mostrato aspetti solidali e sovrani, come l’opposizione alla tentata invasione nordamericana del Venezuela-determinante per scongiurarla- e l’asilo politico concesso al presidente Evo Morales per garantire sicurezza a lui e alla sua famiglia. I precedenti governi neoliberali si sarebbero senza dubbio sottomessi ai voleri di Washington.

Questo lato progressista della politica di Obrador è in contrasto con altri che riaffermano la continuità con le politiche neoliberali. Un primo esempio è il mantenimento e consolidamento dell’accordo commerciale con gli Stati Uniti e il Canada (T-Mec). Ma la lista continua e comprende anche la promozione di megaprogetti che, seppure potrebbero rivelarsi importanti propulsori per lo sviluppo di regioni impoverite e ridurre drasticamente il consumo di idrocarburi, così presentati sono in realtà funzionali allo sviluppo del turismo predatorio, di parchi industriali (il Treno Maya e quello che attraversa l’Istmo di Tehuantepec, progetti approvati tramite consultazioni fittizie con le popolazioni indigene, ne sono esempi paradigmatici).

L’agenda di AMLO non contempla nessun tipo di audit sul debito pubblico, mentre prevede continuità nell’applicazione di una rigida austerità che ha provocato il licenziamento di decine di migliaia di impiegati pubblici e ha limitato la possibilità di incentivare il mercato interno. Malgrado abbia promesso la smilitarizzazione del paese, il governo si è visto scavalcato dall’aumento della violenza criminale e ha deciso di prolungare la presenza dell’esercito nelle strade per tutta la durata del sessennio, senza creare istanze civili o umanitarie che fungano da controllo o pretendano.

Andrés Manuel López Obrador nel 2012

La fine del vecchio sistema?

Il nucleo dell’attuale scontro tra il governo Obrador e i fautori del vecchio sistema ruota intorno al processo penale aperto contro Emilio Lozoya Austin (membro del team di Enrique Peña Nieto nella campagna elettorale del 2012 e successivamente nominato Direttore dell’azienda statale Pétroleos Mexicanoc-PEMEX), accusato dall’azienda brasiliana Odebrecht di aver ricevuto milioni di dollari per finanziare la campagna presidenziale in cambio di succosi/lauti contratti. Emilio Lozoya non è un ex-funzionario qualunque: la sua famiglia proviene dalla vecchia élite del PRI, ha fatto parte del primo entourage di Peña Nieto ed è accusato anche di altri scandali legati alla corruzione. Queste denunce sono state archiviate dal governo precedente e riaperte dall’attuale Procura Generale della Repubblica, che ha ottenuto l’estradizione dalla Spagna con la condizione che diventasse un testimone protetto per denunciare coloro che presumibilmente gli hanno ordinato di commettere gli illeciti.

Le conseguenze di questo processo hanno implicazioni colossali in un Messico dove la corruzione è stata un elemento di coesione del vecchio sistema e dove l’impunità per i piani alti del governo è sempre stata garantita. A differenza del resto dell’America Latina, in Messico non esistono pressoché antecedenti (a eccezione di qualche vendetta personale) di processi per corruzione a un alto funzionario e men che meno a un ex-governante. Le informazioni di Lozoya, che puntano il dito contro gli ex-presidenti Paña Nieto e Carlos Salinas de Gortari (PRI), Felipe Calderón Hinojosa (PAN) e i suoi collaboratori più stretti, stanno distruggendo la poca credibilità rimasta ai partiti del vecchio sistema e intensificando la pressione sociale per mettere fine all’impunità, processare tutti i funzionari corrotti e recuperare la ricchezza acquisita tramite malversazioni. 

López Obrador è consapevole del fatto che questo processo costituisce un’arma molto potente per liquidare i vecchi partiti e costruire una nuova egemonia che gli permetta di gettare le basi di un sistema capitalista moderno e democratico. È questa la ragione per la quale praticamente tutti i giorni continua a denunciare la «mafia del potere» per il suo legame con il narcotraffico e i numerosi casi di corruzione (che associa alla bancarotta neoliberale) e a segnalare, a volte anche con nomi e cognomi, chi li ha commessi. La sua chiamata a realizzare una consultazione popolare per processare gli ex-presidenti che si sono macchiati di qualche delitto, al di là del suo scarso effetto legale, ha lo scopo di incoraggiare una grande mobilitazione che lo renda più forte contro i suoi oppositori.

Sicuramente questo conflitto scatenerà bufere ancora più violente. È difficile pensare che i membri della «mafia del potere» rimangano con le mani in mano di fronte all’attacco obradorista: dispongono ancora di enormi risorse e della capacità di fare ricorso alle manovre politiche più bieche – violenza inclusa – per sopravvivere. Il tempo dirà quanto è solido l’obiettivo di democratizzazione e di lotta alla corruzione dell’attuale governo.

López Obrador e la classe lavoratrice.

All’interno del debole e frammentato sindacalismo democratico, si nutrivano grandi speranze che con l’arrivo del nuovo governo venissero revocate le riforme neoliberali in materia di lavoro e smantellate le vecchie strutture corporative e corrotte che tengono la classe lavoratrice con le mani legate (e che risultano fondamentali per spiegare la relativa stabilità del sistema scaturito dalla Rivoluzione Messicana del 1910).

Un veloce esame della politica del lavoro di Obrador non può omettere di segnalare il riconoscimento da parte del governo della convenzione 98 della Organización Internacional del Trabajo (O.I.T.), relativa al diritto di sindacalizzazione e contrattazione collettiva. E nemmeno la riforma del lavoro che, sebbene introduca rigidi controlli nella vita interna delle organizzazioni sindacali, favorisce l’elezione dei suoi dirigenti tramite voto libero, diretto e segreto, obbliga i dirigenti sindacali a rendere conto della gestione delle quote della negoziazione dei contratti collettivi del lavoro, blocca l’esistenza dei contratti collettivi di protezione padronale, rende trasparente il registro delle organizzazioni sindacali e dei contratti collettivi del lavoro e permette maggior libertà sindacale riconoscendo l’esistenza di più di un’organizzazione sindacale in ogni azienda (pur rappresentando questa un’arma a doppio taglio).

Negli ultimi due anni i salari minimi generali hanno subito un incremento di quasi il 40% e 110% circa nella zona di frontiera settentrionale, sebbene questo beneficio non sia stato esteso ai salari da lavoro dipendente e sia stata stabilita una rendita base per gli adulti sopra i 68 anni (65 per i gruppi indigeni) di 1.275 pesos mensili. Anche la creazione del programma di formazione per giovani che non studiano né lavorano (con un contributo mensile di 3.748 pesos e assicurazione medica contro malattia, maternità e infortuni sul lavoro) è un importante passo avanti, seppur con un grande problema: viene ampiamente monopolizzato dalle grandi imprese, che ottengono mano d’opera gratuita senza offrire nessuna garanzia di assunzione.

D’altro canto, si deve segnalare che si mantengono ancora i tetti salariali nelle revisioni contrattuali e che non è nemmeno stata avviata una riforma legislativa per bandire l’outsourcing e altre forme perverse di assunzione contrattuale, che perdurano anche all’interno dell’amministrazione pubblica.

Dinnanzi alla crisi delle Afores (sistema pensionistico privato copiato dal fallito modello della dittatura cilena e imposto in Messico durante il periodo neoliberale), Obrador ha presentato una bozza preliminare che non è altro che una timida riforma. Anche se migliora le pensioni, mantiene intatta la struttura del sistema, mentre invece sarebbe veramente necessaria la sua totale abolizione e il ritorno a un sistema solidale, con il controllo da parte dei lavoratori dei propri fondi pensionistici (e realizzando, beninteso, un audit sulla cattiva amministrazione precedente).

Sebbene la riforma del lavoro incoraggi la depurazione e la democratizzazione delle organizzazioni sindacali, questo obiettivo non può essere raggiunto nel contesto di debolezza estrema, frammentazione e corporativismo dei sindacati indipendenti. I lavoratori, sotto il giogo del sindacalismo corporativo, non sono ancora in grado di recuperare/reimpossessarsi delle? le loro organizzazioni sindacali. In Messico, appena il 3% della classe lavoratrice può contare su sindacati autentici. I sindacati burocratici rappresentano l’8% dei lavoratori mentre quasi il 90% di questi ultimi non appartiene a organizzazioni sindacali o continua a far parte di associazioni di protezione padronale.

Per cercare di cambiare questo panorama, alla fine dello scorso luglio diverse organizzazioni di lavoratori rurali e urbane hanno indetto un grande Convegno Nazionale con lo scopo di unire le forze del settore popolare e delineare la lotta per un nuovo paese. È possibile che da questo Convegno, che si terrà probabilmente nel novembre del 2020, scaturiscano gli accordi necessari per favorire la riorganizzazione della classe lavoratrice messicana e per contendere alle mafie corporative la guida dei movimenti sociali.

A differenza del sistema cardenista (1934-1940), López Obrador non ha cercato il sostegno delle masse organizzate per avviare il suo programma riformista o per affrontare i settori più reazionari della borghesia e dell’imperialismo. Al contrario, con la motivazione di evitare la gestione corrotta e clientelare dei programmi sociali, ha optato per personalizzare la sua consegna, scavalcando anche organizzazioni sociali democratiche e indipendenti. Salvo alcune eccezioni, ha favorito la relazione con le vecchie e nuove confederazioni sindacali «charras[1]» come la Confederación de Trabajadores de México (CTM) o la Confederación Autónoma de Trabajadores y Empleados (CATEM), evitando di incontrare il sindacalismo democratico rappresentato dall’Unión Nacional de Trabajadores (UNT) o la Nueva Central de Trabajadores (NCT).

A mo’ di conclusione

Avere ben chiaro che il governo di López Obrador non si propone una rottura con la borghesia è importante. Ma è anche del tutto insufficiente.

López Obrador non è come il PRI o il PAN, dal momento che non si sottomette ai dettami dell’oligarchia; ma non riesce neppure a chiudere con essa. Intanto che cercava di allontanare dal potere i vecchi partiti, ha dovuto cercare l’appoggio di un’intensa mobilitazione popolare e un’alleanza con una parte della classe dominante. Questo inizio conferisce al suo governo i tratti di un bonapartismo progressista. Quando la classe dominante non può più governare come prima e la classe lavoratrice non possiede la coscienza, l’organizzazione e la disciplina necessarie per mettersi alla testa di un progetto di nazione, sorge una terza opzione, normalmente incentrata su una persona sola, che si presenta «al di sopra delle classi sociali» e che, senza pretendere di cambiare dalle radici l’ordine capitalista, prova a fare concessioni agli uni e agli altri nel nome dell’«interesse della Nazione».

L’attuale governo oscilla tra il capitale straniero e quello locale, tra un’oligarchia nazionale e una classe lavoratrice relativamente debole e divisa.  Si eleva, diciamo così, al di sopra delle classi sociali. Da una prospettiva nazionale, López Obrador appartiene a quella vecchia corrente nazionalista rivoluzionaria o cardenista, che tenta di ristabilire un Welfare di stato su basi democratiche non autoritarie. Staremo a vedere.

[1] Con il termine sindicato charro o charrismo sindical si intende un sindacato che obbedisce agli interessi delle imprese o delle autorità governative.

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