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Erdogan affossa la pace, il Pkk riprende le armi

Dopo la strage di Suruç e le politiche anti-kurdi dell’Akp, il Partito Kurdo dei Lavoratori dichiara finito il cessare il fuoco con Ankara, ampiamente boicottato dalle stesse autorità turche.

della redazione

Roma, 23 luglio 2015, Nena News – Al massacro di Suruç i mille volti della Turchia reagiscono in modo diverso. C’è chi scende in piazza e urla la sua rabbia contro il partito di governo, l’Akp; c’è chi manda la polizia a reprimere le proteste e blocca Twitter come se questo potesse far stabilizzare un paese sull’orlo della crisi come lo fu con Gezi Park; e c’è chi riprende le armi.

Dopo elezioni traballanti che hanno lasciato Ankara sospesa tra minacce di elezioni anticipate e fantomatiche coalizioni pro e anti-Erdogan, a rispondere alle politiche verso Kurdistan e Siria è il Pkk. Il Partito Kurdo dei Lavoratori ha messo da parte il processo di pace promosso due anni fa dal leader prigioniero Ocalan ma mai portato seriamente avanti dalle autorità turche: ieri due poliziotti turchi sono stati uccisi da colpi di pistola alla testa nella città meridionale di Ceylanpinar, nella provincia di Sanliurfa, la stessa di Suruç. L’azione è stata rivendicata dall’Hpg, il braccio armato del Pkk, come forma di vendetta per l’uccisione di 32 giovani socialisti nel centro culturale Amara. La polizia turca va punita, si legge nel comunicato del gruppo, perché “collabora con l’Isis”.

E oggi arriva anche una seconda rivendicazione: il venditore di saponi Mursel Gul, ucciso la sera del 21 luglio a Istanbul con quattro colpi di arma da fuoco, è morto perché accusato di essere membro dello Stato Islamico. Anche qui la mano è del Pkk, che ha rivendicato l’azione, o meglio del braccio armato giovanile, l’Ydg-H. Gul avrebbe attraversato per ben quattro volte il ben poco controllato confine tra Siria e Turchia, ha fatto sapere la polizia, e aveva un account Twitter in cui esaltava le azioni del movimento islamista.

L’attacco di Suruç ha agitato acque già di per sé poco tranquille. Ma il Pkk si era già mosso prima: il 19 luglio un soldato turco era morto durante scontri nella provincia di Adiyaman, una settimana dopo che il gruppo aveva annunciato la fine del cessare il fuoco. Lo aveva reso noto il Kck (Gruppo delle Comunità in Kurdistan), organizzazione interna al Pkk: il governo turco non ha mantenuto le sue promesse, ha incrementato i posti di blocco e le stazioni di polizia nelle aree kurde, ha costruito un numero di dighe sproporzionato alla produzione energetica kurda, ha ucciso civili.

“I nostri guerriglieri – si legge nel comunicato – con senso di responsabilità si erano impegnati a onorare il cessare il fuoco fin dall’inizio del processo, ma il governo turco con azioni arbitrarie ha già ripreso la guerra contro il popolo kurdo. E noi non resteremo in silenzio”.

Se le tensioni subiranno un’escalation, la possibilità di giungere alla pace si allontanano sempre di più. Il presidente Erdogan, primo ministro all’epoca del cessate il fuoco e delle prime proposte della leadership kurda, ha volontariamente boicottato un negoziato reale e regge sulle sue spalle il fallimento della pace. Da tempo, dal carcere, Abdullah Ocalan manda messaggi di distensione dopo aver stabilito la fine della lotta armata (i combattenti kurdi si erano ritirati dalle montagne, molti avevano lasciato il paese). Ma il nemico interno è una preda succosa per un paese mai stabilizzato dopo le riforme in chiave islamista imposte dall’Akp, una Turchia in trasformazione in cui giovani guardano fuori e scendono in piazza per manifestare aperto dissenso alle politiche neoliberiste del presidente.

Erdogan gioca con il fuoco, come ha fatto con lo Stato Islamico a cui ha garantito una folle libertà di movimento al confine con la Siria (sarebbero nell’ordine di migliaia gli islamisti entrati dalla Turchia). Oggi pare troppo tardi per lanciare campagne di arresti di massa alla frontiera, come promesso in questi giorni. In una telefonata con il presidente Obama, Ankara si è impegnata, con il sostegno Usa, a “frenare l’afflusso di miliziani stranieri e mettere in sicurezza la frontiera con la Siria”.

Basta guardare ai dati: nei primi sei mesi del 2015 le autorità turche hanno arrestato al confine 457 persone, di cui la metà cinesi. Ben poche se si pensa che le Nazioni Unite hanno stimato in mille al mese il numero di nuovi adepti dell’Isis diretti in Siria e Iraq.

da Nena News

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