Fino alla fine del mondo: note su un golpe.
di Soe Lin Aung
Traduzione dell’articolo apparso il 5/2/21 sul sito della rivista Chuang a cura di Internazionale Vitalista
Scende la notte a Yangon, questa settimana all’imbrunire riecheggiano nella città i rumori degli abitanti che battono pentole e padelle e degli automobilisti che suonano i clacson; per scacciare gli spiriti maligni [è usanza in Myanmar produrre dei rumori del genere in funzione apotropaica, ad esempio prima di fare un trasloco in una nuova abitazione n.d.T.] A Mandalay i lavoratori della sanità si sono radunati compatti, volti coperti dalle mascherine illuminati dalle torce dei loro telefoni. Hanno cantato l’inno della rivolta del 1988, Kabar Makyay Bu, un titolo che è una promessa di una lotta senza fine contro il regime militare: “Non saremo soddisfatti fino alla fine del mondo”. I resoconti degli arresti si moltiplicano in questa settimana e gli attivisti e i leader studenteschi hanno fatto appello a scendere nelle strade. I militari hanno provato a chiudere Facebook – strumento chiave di comunicazione in Myanmar – mentre tra gruppi di amici ancora circolavano messaggi riguardo proteste, manifestazioni e altre forme di resistenza. Un amico è riuscito a contattarmi scrivendo che si dice: “combatteremo con tutte le nostre forze”.
Le notizie si sono accumulate lentamente, per poi affievolirsi e improvvisamente accelerare: Lunedì mattina, i militari birmani hanno lanciato un colpo di stato. In una serie di raid mattutini, i militari hanno arrestato il leader civile de facto del Myanmar, Aung San Suu Kyi; le figure di spicco del suo gabinetto e del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (LND); e un numero in costante aumento di artisti e attivisti che non facevano parte del governo o della LND. Alcune ore dopo, i militari hanno usato la loro rete televisiva per dichiarare lo stato di emergenza di un anno, durante il quale il generale Min Aung Hlaing, il comandante in capo dell’esercito, avrebbe governato. Il colpo di stato è arrivato solo poche ore prima che il nuovo parlamento eletto del paese si riunisse per la prima volta dopo le elezioni del novembre 2020, che la NLD aveva vinto in maniera schiacciante.
Le speculazioni su un colpo di stato sono aumentate prima di svanire. Per mesi, il partito politico birmano sostenuto dai militari, l’Union Solidarity and Development Party (USDP), ha sollevato dubbi sulle recenti elezioni, accusando circa 90.000 casi di brogli elettorali relativi alle liste di voto e ai documenti di identità degli elettori. Anche i partiti politici che rappresentano le principali minoranze etniche del Myanmar hanno sollevato obiezioni. Prima del voto, la Union Election Commission (UEC) ha annullato le elezioni in alcune parti della regione di Bago, così come negli stati Kachin, Kayin, Mon, Shan e Rakhine – tutte aree di minoranza etnica dove, secondo la UEC, il conflitto armato ha impedito elezioni libere ed eque. Il 26 gennaio, un portavoce militare è arrivato al punto di minacciare un possibile colpo di stato se le accuse sulle elezioni non fossero state risolte. Due giorni dopo, l’UEC ha respinto le accuse dei militari. L’ONU e diverse ambasciate occidentali hanno quindi espresso preoccupazione, in seguito alla quale i militari sono stati portati a ritirare la loro minaccia, giurando di sostenere la costituzione del 2008 e di “agire secondo la legge”. Una tregua breve. Nelle prime ore di lunedì, quando il colpo di stato è iniziato, il servizio telefonico e internet sono stati interrotti, i negozi hanno chiuso i battenti, le banche e gli aeroporti sono stati chiusi, e alcuni giornalisti si sono nascosti.
Amici e familiari descrivono un’atmosfera tesa: pregna di possibilità ma anche di pericoli. Come minacciò ignobilmente un generale la volta prima, nel 1988: “La tradizione dell’esercito non è quella di sparare in aria. L’esercito spara per uccidere.” ( E uccisero migliaia di persone all’epoca). Un parente anziano, raggiunto telefonicamente dalla Thailandia questa settimana dopo una serie di tentativi andati a vuoto, dice che non vogliono dire più di tanto—solo che con alcuni negozi chiusi hanno paura sia difficile reperire del cibo. Un amico impegnato in attività politiche mi ha scritto dicendo che si sono dati alla macchia ma sono al sicuro. Alcuni dei nostri amici sono stati arrestati, spiegano; altri stanno andando in clandestinità da quando la cerchia delle persone colpite dalla repressione e detenute si è allargata alla società civile e agli artisti. “Fa veramente male” dicono. I lavoratori della sanità si sono fatti avanti molto presto. Nelle ore immediatamente successive al golpe, impiegati dagli ospedali di tutto il paese hanno lanciato appelli alla disobbedienza civile di massa, che è iniziata con la loro serie di scioperi. Il loro gruppo Facebook Civil Disobedience Movement ha raggiunto centinaia di migliaia di membri poco dopo del lancio, prima che i militari chiudessero Facebook. Le aspettative sono ancora alte rispetto alla sollevazione nei prossimi giorni.
Comunicati di solidarietà sono giunti dalla Thailandia. Il Movimento Progressista, un gruppo importante nelle recenti proteste thailandesi, ha rilasciato una dichiarazione che condanna i colpi di stato come una “piaga” in Thailandia e Myanmar. Invocando un futuro in cui “il potere appartenga veramente al popolo”. Anche l’Unione degli studenti di scienze politiche dell’Università Chulalongkorn ha rilasciato una dichiarazione, chiedendo un immediato ritorno al diritto civile in Myanmar. Nel nord della Thailandia, si sono visti circolare sui social network striscioni con slogan di protesta thailandesi scritti in birmano: “La dittatura deve morire, lunga vita al popolo”. Nel nord-est della Thailandia, gli attivisti democratici sono stati più schietti con la loro campagna #SaveMyanmar, dando alle fiamme un’effigie di Min Aung Hlaing nelle strade. Il Myanmar è stato anche formalmente (ironicamente) invitato nella tanto decantata #MilkTeaAlliance, che collega approssimativamente i giovani attivisti di Hong Kong e Thailandia.
Nei campi Rohingya in Bangladesh, la situazione è meno diretta. Alcuni Rohingya credono che Aung San Suu Kyi stia essenzialmente ottenendo ciò che si merita – in quanto codarda che ha tradito i Rohingya nel momento del bisogno. Altri sono più generosi. Il poeta rohingya Mayyu Ali ha fatto appello alla solidarietà contro i militari, ricordando le lotte del 1988.
Con il Myanmar in subbuglio, i rapporti dei media si sono concentrati sul contesto immediato della disputa elettorale. Le analisi iniziali hanno suggerito poco più del fatto che i militari, insultati e allarmati dal loro risultato elettorale, stanno riaffermando il potere nell’unico modo che conoscono. Molto – troppo – dibattito si è concentrato sulla presunta razionalità o irrazionalità delle mosse di Min Aung Hlaing, speculando sulle sue macchinazioni segrete e sull’orgoglio elettorale ferito. Sfortunatamente, queste congetture psicologizzanti sono fin troppo tipiche dei presupposti liberali degli osservatori del Myanmar, che promuovono una modalità di analisi individuale, dall’alto verso il basso, a scapito dei fattori strutturali.
Quattro linee di analisi potrebbero suggerire un approccio più produttivo.
In primo luogo, il colpo di stato è probabilmente una sorpresa. Da un certo punto di vista, i militari non avevano bisogno di lanciare un colpo di stato; detengono già un notevole potere politico ed economico, nonostante abbiano permesso a un governo formalmente civile di prendere forma nel 2011 dopo decenni di dominio militare assoluto. Nella situazione successiva al 2011, i militari si sono riservati un quarto dei seggi in parlamento, abbastanza per prevenire qualsiasi emendamento alla costituzione del 2008, che hanno scritto loro stessi per proteggere la propria posizione. Tre ministeri chiave sono rimasti sotto il solo controllo militare, compreso il principale organo amministrativo del paese fino a quando non è stato nominalmente posto sotto il controllo civile alla fine del 2018. E forse la cosa più importante è che la levatura economica dei militari è cresciuta sostanzialmente dall’inizio degli anni ’90, quando hanno gestito il passaggio verso un’economia di mercato in cui i generali, i loro amici e le holding militari hanno assunto posizioni sempre più forti nel settore privato.
Ho sostenuto (insieme a Stephen Campbell) che questa situazione è stata meglio interpretata non in termini di democratizzazione, ma come una diarchia civile-militare che mescola liberalismo e autoritarismo. Nel 2015, essenzialmente, i generali dipendevano meno dal controllo politico formale per esercitare il potere, dopo aver rafforzato la loro posizione economica. Da qui la loro disponibilità ad accettare – e persino ad anticipare – un briciolo di democrazia liberale, che ha ulteriormente arricchito i generali quando le aziende occidentali sono diventate più disposte a investire. Argomenti più ampi suggeriscono che un patto d’élite in evoluzione, o blocco egemonico, che unisce la LND e i militari si è dimostrato reciprocamente vantaggioso, non da ultimo economicamente.
Se queste affermazioni spiegano la ritirata strategica dei militari dal potere politico formale, devono ora essere riesaminate. La posta in gioco non è necessariamente un’improvvisa autonomia del politico, come se i militari si aggrappassero al potere politico in modo indipendente dalla loro forza economica. Tuttavia, la relazione precisa tra la politica e l’economia potrebbe dover essere rivalutata. In particolare, i generali ora reclamano il potere politico da una posizione di costante dominio economico. Allo stesso tempo, l’economia del Myanmar è in declino da diversi anni. Cifre in forte crescita hanno delineato il periodo post-2011 fino a circa il 2017, dopo di che la crisi dei Rohingya e la recrudescenza dei conflitti negli Stati Kachin e Shan hanno contribuito a determinare un marcato declino economico. Come si legge in un resoconto del 2019:
I turisti occidentali che spendono molto si allontanavano in massa, preoccupati per le violazioni dei diritti umani. La burocrazia stava intasando gli affari e gli investimenti, e il paese rimane un incubo logistico. […] È chiaro che la Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi era sistematicamente impreparata per il governo e non è riuscita a controllare l’economia.
Da qui una possibilità: il blocco egemonico post-2011 una volta arricchiva bene sia le élite civili che quelle militari, ma con una ratio economica in declino, la logica reciproca del patto non reggeva più. Sarebbe estremo elevare questo fattore al di sopra degli altri – almeno a questo punto – ma potrebbe comunque essere un fattore, uno importante, che ha reso più precario un accordo un tempo simbiotico. L’intuizione di fondo non deve essere controversa: la deroga post-2011 è stata semplicemente storica [una formula che devo a Ko Leik Pya n.d.A.]. Quando le condizioni materiali sono cambiate, sono cambiati anche i rapporti di forza di cui si nutrivano.
Una seconda linea di analisi è che se il colpo di stato provoca una certa sorpresa visto quanto potere i militari già detenevano, non sorprende proprio per questo motivo: era già chiaro che in ultima istanza, sono i militari a detenere il potere. Il colpo di stato semplicemente codifica, mentre consolida, i rapporti di potere esistenti. Questa posizione potrebbe essere più ovvia dalla prospettiva delle terre di confine del Myanmar, dove i gruppi di minoranza etnica sono stati soggetti a spietate campagne di controinsurrezione per decenni. Saw Kwe Htoo Win, vice presidente dell’Unione Nazionale Karen, ha dichiarato: “Non importa se i militari mettono in scena un colpo di stato o meno, il potere è già nelle loro mani. Per noi nazionalità etniche, che la LND sia al potere o che i militari prendano il potere, noi non ne facciamo comunque parte. La nostra gente è quella che continuerà a soffrire di questo sciovinismo”.
Questa prospettiva ha un’altra angolazione. Il presunto collegamento tra apertura politica ed economica – l’argomento preferito dai think-tank della transitologia – non sembra più così chiaro. Piuttosto, assistiamo a una transizione capitalista lunga decenni intrecciata con una varietà di forme politiche, dalla dittatura alla diarchia alla dittatura di nuovo. Anche un breve sguardo ai vicini del Myanmar – Cina, Thailandia, Singapore – sottolinea la realtà che il capitalismo difficilmente garantisce la democratizzazione.
Si evidenzia qui una certa configurazione del potere borghese. Sia in Birmania che nella Grande Cina, per esempio, un apparato statale centralizzato – i militari da una parte, una burocrazia di partito dall’altra – ha navigato in una relazione tesa con frazioni borghesi separate, alcune delle quali sono politicamente liberali e più legate al capitale occidentale. Cosa significa rompere questo allineamento? In Myanmar, i militari non avranno più lo stesso accesso al capitale occidentale. Eppure, la lunga transizione capitalista del Myanmar è sempre stata alimentata molto di più dal capitale dell’Est e del Sud-Est asiatico, dal suo fluttuante settore dell’abbigliamento alle sue crescenti agro-industrie e alle principali forme di estrazione di risorse (in particolare petrolio e gas, specialmente le riserve di gas offshore che ora fluiscono verso la Thailandia e i doppi oleodotti e gasdotti che scorrono verso lo Yunnan, in Cina). Così, in molti modi, le condizioni di base dell’accumulazione del capitale rimangono al loro posto, anche se la borghesia liberale interna affronta una maggiore esclusione dal suo bottino. L’agricoltura di semi-sussistenza continuerà a erodersi nelle vaste aree rurali del Myanmar e nelle zone di confine montuose, mentre il lavoro precario e a basso salario si espande nei centri urbani [una serie di fenomeni che approfondirò in dettaglio nel terzo numero a venire di Chuang journal. n.d.A]
Tuttavia, anche le prospettive di investimento cinesi non sono del tutto chiare, anche se presumibilmente saranno soggette a meno perturbazioni rispetto ai più tenui progetti occidentali. Da un lato, la risposta sommessa del governo cinese al colpo di stato – annotando un “rimpasto di gabinetto” – riflette una tendenza costante a inquadrare i disordini politici semplicemente come una questione di affari interni. Gli investimenti cinesi sono sempre stati considerevoli durante gli anni della prima dittatura militare. Da parte cinese, non c’è motivo di aspettarsi alcuna seria esitazione a impegnarsi con la nuova. D’altra parte, il governo della LND è riuscito a sviluppare relazioni molto forti con la Cina, e i militari del Myanmar hanno visto a lungo la Cina sostenere le insurrezioni nelle zone al confine cinese del Myanmar, dagli oltre quarant’anni di ribellione del Partito Comunista della Birmania ai gruppi armati che sono emersi nella sua scia. C’è qualche possibilità (anche se minima) che la presunta dipendenza de facto dei militari dalla Cina non sia più del tutto garantita. Indipendentemente da ciò, la Cina è già pesantemente investita in diversi grandi progetti infrastrutturali, dalla diga di Myitsone nel nord del Myanmar – Pechino potrebbe fare pressione sui generali per riprenderla – al corridoio economico Cina-Myanmar nell’ovest del Myanmar, parte della Belt and Road Initiative (BRI). Il governo cinese presumibilmente mirerà a portare avanti questi progetti indipendentemente dalla leadership politica del Myanmar. Questa relazione sarebbe minacciata solo se i militari birmani si muovessero per interrompere i legami con la Cina (altamente improbabile), piuttosto che il contrario.
La terza linea di analisi è già emersa: la vista dalle terre di confine. La discussione sulle accuse di frode elettorale da parte dei militari – generalmente considerate infondate – ha largamente messo in ombra il fatto che l’UEC ha semplicemente cancellato le elezioni in molte aree di minoranza etnica. La questione è la relazione delle terre di confine con il conflitto, il capitale e le trasformazioni politiche degli ultimi decenni. Dagli anni ’90, il capitalismo di frontiera nelle vaste aree di confine del Myanmar – investimenti in miniere, legname e agroindustria come le piantagioni di olio di palma, principalmente da parte di capitalisti thailandesi, cinesi e delle pianure del Myanmar – ha incorporato le élite economiche e politiche delle minoranze etniche nella transizione capitalistica del paese, ponendo fine in gran parte alla minaccia un tempo esistente dei gruppi etnici armati allo stato. Questa è stata probabilmente la dinamica decisiva che ha reso possibile le riforme politiche ed economiche del periodo post-2011. È possibile che, con così tanta attenzione alla disputa elettorale dei militari, stia incombendo un più ampio disvelamento della traiettoria politica ed economica del paese? Se l’incorporazione delle terre di confine etniche attraverso il capitalismo di frontiera ha in ultima analisi messo fine alle minacce di esistenza per lo stato del Myanmar, allora il disconoscimento nelle terre di confine – una rottura con quella dinamica di incorporazione – suggerisce una potenziale chiusura di un ciclo storico che ha sostenuto la possibilità stessa dello stato attraverso una lunga transizione capitalista. Mentre il colpo di stato andava avanti, sono emersi anche rapporti su scontri militari che prendevano forma negli Stati Shan e Kayin del Myanmar orientale, segnalando un possibile ritorno al conflitto aperto. D’altra parte, nonostante le cancellazioni delle elezioni, sarebbe un errore sopravvalutare il grado in cui le minoranze etniche, a parte le loro élite politiche ed economiche, si considerano affrancate in primo luogo. Inoltre, l’estrazione delle risorse e l’agroindustria nelle terre di confine – perni del capitalismo di frontiera – affrontano poche minacce nel contesto del colpo di stato, essendo più legate alle frazioni militari che alle frazioni borghesi liberali della classe dirigente birmana. La dinamica incorporativa che essi guidano sembra destinata a continuare.
In quarta istanza, bisogna aggiungere che Aung San Suu Kyi sembra aver fallito, in modo decisivo, nel suo tentativo di costruire e mantenere relazioni con i militari. Il fatto più noto è che Suu Kyi è apparsa alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia per difendere il Myanmar dalle accuse di genocidio commesse dai militari contro i Rohingya del Myanmar. Gli osservatori esterni hanno visto la sua apparizione come una mossa politicamente opportuna – persino cinica – per proteggere i militari dalla condanna internazionale, al fine di guadagnare il favore dei generali. Il suo obiettivo, in ultima analisi, era quello di costruire relazioni abbastanza forti con i militari in modo che il suo partito potesse far passare gli emendamenti alla costituzione del 2008 che avrebbero costretto i militari fuori dalla politica formale. Invece, si ritrova ancora una volta loro prigioniera.
Le ragioni del suo fallimento saranno discusse ad nauseam. Le discussioni fino ad oggi suggeriscono superficialmente che i militari sono semplicemente diventati gelosi della sua continua popolarità e del suo successo elettorale. Si dice che li abbia “surclassati“, per esempio, sui social media quando si è trattato di esprimere il sentimento anti-Rohingya. Saranno necessarie analisi più sofisticate. Provvisoriamente, comunque, si nota che il fascino delle relazioni civili-militari (leggi: relazioni Suu Kyi-Min Aung Hlaing), astratte da forze politiche ed economiche più grandi, troppo spesso si riduce al vecchio palace-watching che riduce la politica alla personalità, la struttura alla contingenza individuale. Il punto non è che questi leader non contano, ma semplicemente che anche quando i leader fanno la storia, non è in condizioni di loro scelta. Il tempo della psicologizzazione di palazzo è finito. Il tempo della resistenza è qui. E non saremo soddisfatti fino alla fine del mondo.
Nota a margine del Comitato Corrispondenza e Traduzione:
L’articolo risale ai primi di febbraio. Di lì in poi una vera e propria insurrezione generalizzata si è scatenata nel paese con scontri di piazza di coraggiosə frontliners (le foto qui riprodotte ne ritraggono alcunə), diserzioni, atti di disobbedienza civile nelle città e scontri armati nelle campagne dove sono presenti formazioni di guerriglia delle minoranze etniche. Tra i vari slogan, un hashtag recita #AntifascistRevolution. In questo articolo Soe Lin Aung descrive come i militari abbiano il controllo di risorse economiche consistenti in tutto il paese: una conoscenza che i/le rivoltosə hanno mostrato di avere ben chiara con l’incendio di due centri commerciali di proprietà dei militari a Yangon nelle prime ore di giovedì 1 Aprile.
Per ulteriori informazioni rimandiamo al canale telegram L.M.3 e all’ottima intervista di Jake Hanrahan a Aye Min Thant nel poadcast di popularfront.co
Le forze del regime hanno ucciso 640 persone, ad oggi (5 Aprile).
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