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Il vaso di Pandora aperto dalla vicenda Snowden‏

Continua ad essere caldissima la temperatura intorno all’affaire Snowden. Ieri un nuovo incidente diplomatico internazionale si è verificato con l’obbligo imposto all’aereo su cui viaggiava il presidente boliviano Morales di atterrare a Vienna dopo diverse tribolazioni. Ciò poichè Lisbona e Parigi (nell’ordine) si erano rifiutate di concedere il diritto di sorvolo al mezzo (che arrivava da Mosca) poichè si presumeva che potesse esserci a bordo Edward Snowden, la fonte delle ultime rivelazioni rispetto allo spionaggio effettuato dagli USA tramite la NSA.

L’azione nei confronti di Morales è un chiaro attacco da parte degli USA e dei governi amici di questa nei confronti di chi aveva dato disponibilità a concedere asilo politico a Snowden. Solidarietà a Morales è arrivata dal presidente venezuelano Maduro, che ha pubblicamente dichiarato di voler proteggere la fonte dell’affare Datagate poichè Snowden “ha osato dire delle verità sul tentativo dell’impero americano di controllare il mondo”. E anche i rapporti con Mosca, già tesi, non andranno certo verso la normalizzazione dopo questi fatti.

E’ evidente come il turbolento scorrere degli eventi nel mondo delle relazioni internazionali a partire dalle prime azioni targate WikiLeaks stia dimostrando di avere effetti sempre più dirompenti. Nonostante non si possa negare la portata enorme di quanto scaturito dalla vicenda Snowden, va assunto però che alcuni posizionamenti, come la decisione comunicata da Parigi di voler sospendere le trattative riguardo al libero scambio tra UE e USA, siano da assumere nella loro ambivalenza.

La stessa Francia è stata infatti definita dal ministro degli Esteri boliviano come complice dell’imperialismo statunitense nella sua decisione di negare il permesso di sorvolo all’arereo di Morales. Un atteggiamento in effetti duplice quello francese, che da un lato getta in pasto alla sua opinione pubblica un rifiuto dell’attacco USA alla propria grandeur, mentre dall’altra ne segue perfettamente le richieste riguardo al blocco di Snowden.

La Germania ha negato di dare appoggio alla forzatura francese, sebbene sia la più importante intercettata uscita dalle rivelazioni. Lo Spiegel ha parlato di emergenza nazionale riguardo allo spionaggio statunitense ma è evidente che anche qui, nonostante le dichiarazioni di facciata e gli urlacci della stampa, non ci siano ancora state esplicite volontà di ridiscutere l’accordo di libero scambio discusso al recente g8 inglese, un accordo necessario anche per i governi amici spiati dall’NSA. Piuttosto vanno inserite nel dibatitto altre considerazioni su cui torniamo ora.

Va considerato infatti come l’affaire Snowden abbia scoperchiato almeno due vasi di Pandora.

Primo, le rivelazioni dell’ex dipendente della Booz Allen sono un segnale d’allarme per la Germania in particolar modo per ciò che concerne il problema dello spionaggio industriale. Sembra essere questa la vera preoccupazione di Berlino (ed anche la causa della veemenza delle sue reazioni negli ultimi giorni) e non tanto la volontà di tutelare la riservatezza delle sue ambasciate o tantomeno quella dei suoi cittadini.

Allo stesso tempo però la vicenda del datagate apre delle nuove possibilità per l’industria digitale europea, da almeno un decennio schiacciata ad Ovest dalla Silicon Valley californiana ed ad Est dalla Cina e dall’India. La dimostrata inaffidabilità delle aziende statunitensi nel settore del cloud computing potrebbe mettere uno stop al dominio a stelle e strisce e dare una significativa spinta a quelle europee che operano in quest’ambito.

Sia la Germania che la Francia infatti stanno cominciando a cavalcare il caso PRISM, pubblicizzando la commercializzazione dei loro servizi “made in EU”. Con l’intento di rimettere le mani su un giro d’affari il cui volume si aggirerà intorno ai 73 miliardi di dollari nel 2014.

Ciò che colpisce di questa vicenda però, è anche la sua capacità di mettere in luce un insieme di tendenze che da tempo si stanno dispiegando e che si erano manifestate con forza già nell’agosto del 2011, proprio in occasione della querelle tra Quito e Londra sul destino di Julian Assange.

Due storie con somiglianze impressionanti.
Oggi come un anno fa, un whistleblower è costretto ad una detenzione forzata in un territorio di transito a statuto speciale, sospeso nel vuoto dello spazio pneumatico definito dai contrasti della diplomazia internazionale.
Oggi come allora la convenzione di Vienna, che sancisce la codifica di decenni di pratiche diplomatiche, viene violata dagli stessi stati che ne sono firmatari (difficile definire in modo diverso il divieto di sorvolo su Francia e Portogallo imposto all’aereo presidenziale boliviano).
Segnali di tensioni serpeggianti e di faglie che si allargano tra sudamerica ed occidente atlantico.

A confermarlo le parole di Alvaro Garcia Linera, Vicepresidente boliviano, che con una sua dichiarazione rilasciata in giornata ha voluto ribadire «alle potenze imperialiste, ai paesi subordinati e colonizzati d’Europa» che gli stati sudamericani non hanno intenzione di farsi intimidire «perché non è più il tempo delle colonie e degli imperi».
Parole che sono l’esatta fotocopia di quelle usate un anno fa dal ministro degli esteri ecuadoregno Patino, quando la polizia londinese aveva circondato l’ambasciata del paese sudamericano al numero 3 di Hans Crescent, minacciando di assaltarla se il carismatico leaders di Wikileaks non fosse stato consegnato alle autorità britanniche.
Parole che, come tutto l’affaire Snowden, sono un prisma attraverso cui osservare le mutazioni in corso nei rapporti di forza dello scenario globale.

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