Israele espelle in segreto mille sudanesi
Negli ultimi mesi rimpatriati con la forza mille migranti in violazione delle convenzioni Onu. L’UNHCR: “Israele ha commesso un crimine gravissimo”.
Secondo il quotidiano, che ha citato fonti ufficiali anonime, i rifugiati rimpatriati hanno probabilmente subito persecuzioni una volta in Sudan, Paese che è da tempo considerato antagonista di Tel Aviv per gli stretti rapporti stretti con l’Iran e il movimento palestinese di Hamas: lo scorso ottobre l’aviazione israeliana bombardò un’industria militare nella capitale sudanese, perché considerata responsabile di commerciare armi Iran ed inviarle verso la Striscia di Gaza. Il governo di Khartoum vieta ai propri cittadini di risiedere in Israele e scoraggia con forza anche visite turistiche.
Un espatrio forzato che viola la Convezione sui Rifugiati del 1951 delle Nazioni Unite, sottoscritta anche dalle autorità israeliane e che proibisce il rimpatrio di rifugiati verso un Paese dove rischiano persecuzioni. Israele si difende: gli immigrati in questione, durante la detenzione in carceri israeliane, hanno accettato volontariamente l’espatrio. Un tentativo di difesa che l’Alto Commissariato per i Rifugiati rigetta: “Non c’è libertà di scelta dentro una prigione”. “Deportare un sudanese in Sudan – ha detto Michael Bavli, il rappresentante dell’UNHCR in Israele – sarebbe una gravissima violazione della Convenzione che Israele ha firmato – un crimine mai commesso prima”.
Lo scandalo dell’espatrio degli immigrati africani era esploso un anno fa. Ad agosto il caso dei mille sudanesi era tornato sui quotidiani israeliani dopo la dichiarazione del ministro degli Interni, Eli Yishai: “Gli infiltrati sudanesi hanno tempo fino al 15 ottobre per lasciare Israele, dopo di che saranno arrestati”, aggiungendo che il premier Netanyahu aveva già firmato gli ordini di espulsione.
Qualche mese prima, a gennaio 2012, la Knesset (il parlamento israeliano) aveva votato una controversa legge sulla cosiddetta “infiltrazione”, l’immigrazione illegale in territorio israeliano. Target, gli immigrati provenienti dall’Africa e in fuga da guerre e povertà, molti di loro richiedenti asilo politico. Il nuovo regolamento prevede pene detentive da un minimo di tre anni per chi entra illegalmente nel Paese. Con qualche differenza: prigione a tempo indeterminato per i sudanesi perché provenienti da un Paese considerato nemico. Multe salate e 15 anni di carcere per chi aiuta e impiega i migranti clandestini.
Una legge che andava a colpire duramente una comunità vasta: un anno fa si calcolava che almeno 1.200 persone ogni mese entrassero irregolarmente in Israele dal Sinai, per un totale che ad oggi ammonta intorno alle 60mila unità. Obiettivo della Knesset è stato quello di equiparare il clandestino con il richiedente asilo: entrambi illegali, entrambi a rischio carcere. L’onda di repressione era nata all’interno del parlamento israeliano e del governo di destra guidato di Netanyahu, che aveva dichiarato la necessità di difendere “i confini e la sicurezza dei cittadini” dalla minaccia africana e dagli immigrati “non ebrei”. Non solo tramite leggi, ma anche con un vero e proprio muro, lungo 240 km e che corre lungo il confine con l’Egitto.
Le politiche xenofobe di Tel Aviv si sono presto rispecchiate nella società israeliana, il governo ha saputo istillare la paura nell’opinione pubblica del Paese che si è scagliata – anche fisicamente – contro la comunità migrante. Lo scorso anno si sono susseguite notizie di aggressioni, pestaggi e incendi appiccati contro le case dei migranti africani, considerati alla stregua di criminali e potenziali stupratori. Una vera e propria caccia alle streghe, culminata in linciaggi che ricordano da vicino i pogrom antisemiti nell’Europa di inizio ‘900. Manifestazioni anti-immigrati occuparono le strade di Tel Aviv contro i neri, i diversi, gli infiltrati, in quella che continua a autodefinirsi l’unica democrazia del Medio Oriente.
di Emma Mancini per Nena News
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