L’urgenza di opporsi alla guerra. Alcuni appunti sul conflitto ucraino
Il gioco al massacro sul confine russo-ucraino continua ad approfondirsi con esiti sempre più nefasti, dopo che per settimane USA e Nato hanno soffiato sul fuoco, la “diplomazia delle cannoniere” russa si sta avvicinando sempre di più ad una guerra dispiegata. Il discorso di ieri di Putin sembra suonare come se il dado fosse ormai tratto. Solo nei prossimi giorni capiremo quali dimensioni andrà ad assumere il conflitto e se troverà un nuovo punto di congelamento, ma intanto proviamo con una certa difficoltà a sottolineare alcuni elementi, che per quanto provvisori, esulano da una lettura geopolitica fredda per provare ad approfondire uno sguardo di classe su questo conflitto e sui suoi aspetti contemporanei.
1 – A chi conviene un conflitto dispiegato? Questo è l’aspetto principale, su cui bisogna provare a chiarire un punto di vista. A guadagnarci da un conflitto aperto e guerreggiato sono soprattutto gli Stati Uniti. In un sol colpo possono approfondire l’isolamento internazionale della Russia, indebolirne il complesso militare e l’economia basata sulle esportazioni di materie prime, colpire di riflesso le velleità europee di una minore dipendenza dall’alleanza economico-militare atlantica e tentare di ricostruire una coesione interna, oltre all’ovvio ritorno economico per l’industria delle armi. Nelle scorse settimane, mentre veniva sbandierata la diplomazia ad ogni costo, hanno lavorato con continuità alla costruzione delle condizioni per cui la profezia di un’invasione russa si autoavverasse. La Russia ha, molto probabilmente, dall’inizio della crisi l’opzione di un conflitto aperto sul tavolo tra le altre, ma date le conseguenze economiche e diplomatiche di cui sopra, questa opzione era (e forse è ancora?) l’extrema ratio. Gli USA sperano a tutti gli effetti di replicare una proxy war, ma questa volta ai confini d’Europa, con esiti difficilmente prevedibili.
2 – La Russia è una potenza imperialista? Checché ne dicano i “figli di Putin” di ogni risma, il discorso del Presidente della federazione di ieri è stato più eloquente di qualsiasi speculazione. I riferimenti alla grande russia zarista, l’assunto per cui la creazione dell’Ucraina sarebbe una “colpa” di Lenin, l’equivalenza per cui è possibile rivendicare una sovranità di aree dove la popolazione è a maggioranza russofona ecc… ecc… Tutto questo già di per sé sarebbe bastato in altri tempi a sciogliere ogni dubbio, ma si sa questi sono tempi confusi. Senza considerare poi la proiezione internazionale del complesso militare russo a difesa dei propri interessi, al netto delle narrazioni che ne sono state fatte. D’altronde è evidente che uno Stato che basa quasi interamente la propria economia sull’estrattivismo e l’esportazione, in cui il nazionalismo galoppante e le aspirazioni neozariste disegnano il discorso pubblico, un qualche tipo di progetto imperiale non può non averlo. Il punto è semmai fare un discorso di scala, se l’imperialismo russo ha caratteristiche regionali e di difesa e ampliamento di interessi immediati e prossimi (in qualche punto simile al paradigma neo-ottomano di Erdogan ad esempio), quello statunitense riguarda la globalizzazione egemonica e la sua crisi. Il farsi avanti di questi imperialismi regionali in determinate aree è in qualche modo implicitamente figlio di questa crisi e della senescenza del momento unipolare. E’ evidente la differenza di scala di cui stiamo parlando e le sue implicazioni, ma la domanda che sopraggiunge è se ci sia qualcosa di buono per un progetto di liberazione nella rinascita di questi imperialismi su scala ridotta. Se guardiamo alla sostanza nei contesti in cui questi fenomeni operano ci pare che non ci sia niente da salvare. Lo ripetiamo, in modo che sia chiaro, questo non significa fare un’equivalenza tra la potenza egemonica degli USA e le manovre russe, ma significa tracciare chiaramente una linea di demarcazione tra ciò che in ogni caso ci è nemico e ciò che invece può produrre itinerari di emancipazione.
3 – Il discorso sull’autodeterminazione dei popoli, senza un progetto anticapitalista, è una clava geopolitica. Detto così forse è un po’ brutale, ma da entrambe le parti in campo l’abuso di questo concetto è evidente. Gli Stati Uniti sostengono l’entrata dell’Ucraina nella NATO secondo questo principio, ed allo stesso modo la Russia utilizza questo frame da tempo per rivendicare una sovranità, più o meno esplicita su aree che di fatto diventano staterelli satelliti. E’ quasi ironico se non fosse tragico che gli USA accusino la Russia di nascondere operazioni militari dietro presunte manovre di “peacekeeping”, ma rende bene l’idea. In queste retoriche le varie sfumature nazionaliste, liberali, umanitariste e conservatrici dell’impianto ideologico capitalista si possono sentire a loro agio di fronte alla possibilità della guerra. E’ un po’ la scoperta dell’acqua calda per alcuni versi, ma bisogna tenerlo presente, in un momento in cui le ripetute crisi vedono emergere in contemporanea uno sparigliamento dell’ordine geopolitico globale e delle legittime e giuste spinte dal basso di decisionalità sui territori o perlomeno di un potere decisionale più prossimo.
4 – L’Europa è un fantasma. Le elites europee hanno qualcosa di tragicomico in questo scenario. Tra balbettii, subalternità e personalismi l’Unione Europea conta come un due di picche. Tra il protagonismo di un Macron che viene regolarmente smentito coprendosi di ridicolo, ed una Germania dove gli unici a fare politica sono quelli di Der Spiegel che attraverso un dossier desecretato fanno fare una figura di palta alla Nato e agli USA, di cui tutti poi fanno beatamente finta di nulla, sembra di essere al circo. Eppure, un po’ come la crisi del debito sovrano del 2011 quanto sta accadendo in Ucraina è anche il tentativo degli USA di scaricare i rovesci della crisi pandemica sull’economia europea e sul progetto di una UE più “politica”. L’ “atlantismo ad ogni costo” della fase post-Trump assomiglia ad un suicidio assistito. Il Vecchio Continente sta diventando il nuovo cortile di casa degli USA che vogliono limitare l’influenza cinese. Uno spettacolo imbarazzante se non fosse che queste manovre si indirizzano verso un’ulteriore spoliazione delle classi meno abbienti del continente, di cui l’aumento delle bollette è solo l’antipasto. Dal nostro lato tematizzare la rottura dell’abbraccio mortale con gli USA a partire dalle condizioni materiali di larghe fasce proletarie può sembrare un miraggio, ma è fondamentale, senza per questo consegnarsi ad altre opzioni altrettanto nefaste.
5 – Le crisi ecologiche ed il conflitto sono connesse. Lo accennavamo già nell’editoriale della settimana scorsa, un tratto del conflitto in corso riguarda anche la sequenza di crisi ecologiche localizzate e globali che stiamo vivendo. La questione dell’energia, del tipo di energia, quella della limitatezza delle risorse e dell’utilizzo geopolitico dell’urgenza della transizione ecologica sono tutti temi che irrompono nel presente dello scontro tra i diversi modelli di sviluppo capitalisti con forza. Non solo petrolio e gas, ma anche terre rare e più in generale materiali per i semiconduttori sono tra le poste economiche di questo scontro. Oggi rifiutare la guerra vuol dire anche dire basta all’estrattivismo, al fossile e alla devastazione dei territori per appagare la crescita senza fine, e viceversa. Introdurre questa doppia lente è quanto mai necessario in un momento in cui la ripresa di trivellazioni, la volontà di riprendere la nuclearizzazione dei territori vengono presentate come scelte di buon senso.
Questi sono i temi del dibattito che vorremmo intraprendere, per pensare insieme un’opposizione alla guerra che non sia basata su fantasmi del passato o su affermazioni di principio, ma che sia calata nel presente e assuma dimensioni di massa.
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