La farsa della “guerra di potere” tra Morsi e il regime militare
Intanto uno teatrino politico fatto di scontri, accuse reciproche e menzogne sembra caratterizzare il paese.
Il dibattito politico egiziano, a lungo conteso tra il movimento rivoluzionario e il nuovo-vecchio regime, pare che adesso avvenga prevalentemente tra i Fratelli Musulmani ed il Consiglio Supremo delle Forze Armate, cioè quell’organo che ha governato il paese dalla caduta di Hosni Mubarak fino all’elezione del nuovo presidente poche settimane fa.
Dopo che, lo scorso giugno, sono stati resi noti i risultati elettorali, è venuta alla luce una situazione che ha dell’inverosimile: oggi non si capisce più nelle mani di chi sia il potere, se siano quindi ancora i militari a governare oppure se è il il neoeletto Morsi con i Fratelli Musulmani a decidere le sorti del paese.
Già nel periodo di transizione molti erano stati i tentativi messi in campo dalla leadership militare per mantenere il proprio potere: accanto allo spregiudicato uso della forza, diverse volte ha tentato di approvare unilateralmente leggi “sovracostituzionali” per poi arrivare – nel bel mezzo delle consultazioni elettorali – alla dissoluzione del parlamento egiziano.
Anche la lunga attesa dei risultati delle elezioni presidenziali, in quell’intera settimana in cui il paese era rimasto con il fiato sospeso per i risultati della competizione tra Shafiq e Morsi, aveva fatto destare i sospetti che il prolungamento dei tempi fosse servito a mettere in campo trattative segrete tra i Fratelli Musulmani e le alte sfere militari per la spartizione del potere.
Queste ultime settimane sembrano confermare questi timori: Morsi si batte, apparentemente scontrandosi con i militari, per il ripristino di quel parlamento formato per la grande maggioranza da salafiti e islamici moderati.
Una sorta di scontro, quello tra i militari e Morsi, che ad oggi appare funzionale soltanto a riempire il dibattito politico per oscurare le ragioni della rivoluzione.
Intanto la piazza ci restituisce un’immagine in completo contrasto con quella a cui la rivoluzione ci aveva abituati: in piazza Tarhir si alzano slogan religiosi, si sostiene il ripristino del parlamento egiziano, si appoggiano e azioni “di forza” mostrate da Morsi. Di fronte a tutto ciò viene spontaneo chiedersi che fine abbia fatto quel movimento rivoluzionario che, con le sue battaglie, per lungo tempo ha dettato le sorti del paese.
Dopo la “sconfitta” degli ideali rivoluzionari – prima nelle elezioni legislative, poi in quelle presidenziali – il movimento si trova ad oggi in una situazione alquanto critica con forti spaccature interne.
Alcuni rimpiangono la mancata costruzione di una qualche forma di alleanza tra laici e liberali, unione che avrebbe potuto permettere la vittoria di un candidato meno vicino agli interessi islamici e a quelli moderati.
Altri, secondo la logica del “meno peggio”, in queste ultime settimane si sono recati in piazza Tahrir per sostenere Morsi; altri ancora, invece, accusano il neopresidente di esercitare un eccessivo potere, al punto da non rispettare il potere giuridico che, anche se in maniera del tutto controversa, aveva deciso la dissoluzione del parlamento.
Nel frattempo una parte del movimento prosegue con il lavoro di radicamento nelle fabbriche e nelle università.
In questo scenario coloro che, all’interno del movimento, sono consapevoli di assistere ad una messinscena del potere, hanno sempre meno voce.
Lo pseudo-scontro tra i due principali attori del dopo-rivoluzione – Morsi e il regime militare – appare orchestrato ad arte per scongiurare dure contestazioni che il popolo egiziano potrebbe mettere in atto. Una parte del movimento – vista anche la perdurante censura mediatica e la potente macchina organizzativa messa in campo della fratellanza musulmana – non sembra rendersi conto della farsa che si sta consumando. Oggi, nonostante i pericoli che una ripresa dello scontro potrebbe portare in termini di repressione, probabilmente sarebbe necessario rimettere in moto, dal basso, un nuovo conflitto.
L’Egitto di questi giorni ci mostra che, anche laddove una rivoluzione sia stata avviata in maniera determinata, è difficile mantenere vivo lo spirito rivoluzionario, anch’esso troppo spesso attanagliato da quegli stessi poteri che da decenni guidano il paese.
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