InfoAut
Immagine di copertina per il post

La resistenza non diventa mito. Kobane è di nuovo un fronte

E’ giugno. Un corteo popolare si muove dalla cupola in costruzione all’altro lato della piazza: otto sono le bare di altrettanti giovani che hanno perso la vita a Menbij, sull’altro lato dell’Eufrate, nel tentativo delle Ypg di raggiungere la periferia della città da espugnare. Quando sono disposte in fila sul palco, l’uomo rivolto alle file dei ragazzi ordina di compiere il saluto ai martiri, e un kalashnikov spara in aria ventuno colpi nel silenzio della piazza. Un groppo alla gola sfiora per un attimo tutte e tutti i presenti a questo addio. Otto ragazzi curdi morti per liberare una città araba. Otto soldati caduti per rompere l’assedio di Afrin, per iniziare quello di Raqqa. Le Ypg rompono le righe e si gettano sulle bare, ciascuno nel tentativo di arrivare primo e poterle portare in spalla. Il caos e il fervore dei loro movimenti sa di Sud; è familiare a qualsiasi osservatore mediterraneo.

In queste cerimonie non c’è nulla di cerimonioso. C’è la semplicità dei gesti e l’incapacità di controllare in parte le proprie passioni, domate soltanto dalla disciplina di un esercito popolare. Le madri piangono e gridano, sostenute dalle figlie, in una scena che non può non ricordare la Sicilia o la Palestina. Terminata la sepoltura, la folla si disperde nel cimitero, ciascuno accanto alla tomba del proprio caduto. Una donna anziana, velata, aiuta un bimbo a posare un fiore sulla tomba del fratello più grande, con la mano destra, e tiene un kalashnikov in quella sinistra. Le nonne con il mitra di Kobane, che mettono fiori sulle tombe, fanno parte delle Hpc (Forze di Difesa Sociale), l’autodifesa armata delle comuni. Si potrebbe scattare una foto per immortalare questa immagine, spedirla in Europa; ma trasformando tali istanti in simboli, le fotocamere contribuiscono a costruire il politicamente esotico: il mito del Rojava, il mito di Kobane.

Questo mito serve alla rivoluzione, ma non ai rivoluzionari. Non c’è contemplazione consolatoria per noi, ma soltanto l’imperativo di riprodurre queste rotture del tempo e della normalità storica. Per le stradine dei quartieri le donne sostano sugli scalini, i bambini giocano nella polvere e le famiglie traspirano forza, durezza, scolpite dalla fatica di ciò che hanno dovuto vedere e di ciò che hanno dovuto vincere: la brutalità della guerra politica che attanaglia la Siria da cinque anni, la guerra che non fa prigionieri. Il mito ha il suo posto nella vita umana. Tuttavia questi esseri non sono un mito, e i ragazzini che, in mezzo alle macerie dei palazzi tuttora distrutti, alzano le dita in segno di vittoria, portano negli occhi una tristezza immensa, forse legata al senso di un’infanzia segnata dal ritmo marziale del sangue, delle bandiere e dei funerali.

Un’auto delle Ypg passa accanto al monumento alla vittoria, sulla strada polverosa. Una grande scultura è affiancata da due austeri carri armati: nonostante l’abbiano visto cento volte, schiacciano i nasi contro i finestrini. Quel monumento riesce a trasmettere l’impenetrabilità di Kobane, la sua rigidità. «Kobane non è come Qamishlo, città cosmopolita, nè come Afrin, elegante e produttiva; è la città delle teste dure, dei curdi conservatori, attaccati alle tradizioni e alla lingua, chiusi nella loro identità al punto di diventare intrattabili e inespugnabili» spiega un combattente europeo che conosce in profondità il Kurdistan. Ragazzi avvolti nelle kefiah offrono passaggi in moto; operai che per decenni hanno mandati i figli sulle montagne con il Pkk offrono té agli stranieri; donne giovani, in abiti colorati, stringono le mani ai forestieri senza guardarli negli occhi.

Rucken siede sulla collina Mishtenur, che sovrasta il centro abitato. E’ agosto. Le truppe turche hanno invaso il Rojava, occupando Jarablus, oltre le alture a ovest; lei guarda i carri armati muoversi lungo i bordi di Kobane, effettuare manovre di provocazione, continui sconfinamenti, accanto a operai che costruiscono un Muro per separare la città da Suruc, sul lato turco. Quando la resistenza di Kobane era schiacciata lungo il confine, due anni fa, e lo stato islamico prendeva il sopravvento strada per strada, Rucken ricorda gli stessi soldati, su quel confine, fornire ai miliziani suggerimenti e indicazioni. Fu allora che una combattente Ypj, Arin Mirkan, si lanciò contro i nemici su questa collina e si fece esplodere, uccidendo miliziani convinti che soltanto la fede in Dio potesse condurre a un gesto simile, ma testimoni nel loro ultimo istante di una confutazione femminile delle loro certezze.

«Non puoi immaginare quanta paura avevamo» racconta Rucken. «I miliziani di Daesh arrivavano e continuavano ad arrivare, sembravano non finire mai. Più ne uccidevamo, più ne giungevano». Il grido «Allah Akhbar!», racconta, risuonava in modo macabro durante gli attacchi, anche di notte. «Quel grido mi esasperava. Li sentivo gridare dietro l’angolo e le mani mi tremavano; ma stringemmo tutte i fucili e resistemmo là, dove ci trovavamo, e io gridai a chi pronunciava quella frase: taci!». Rucken fu gravemente ferita dall’esplosione di una mina, che le sfigurò inizialmente il volto, che ora però è tornato normale. «Quello che abbiamo notato durante la battaglia è che i miliziani erano altrettanto impauriti dalle grida acute che lanciavano le donne della città, in coro. Per questo le Ypj, da allora, adottano quel grido di guerra in ogni battaglia».

Rucken è nata a Kobane, ma ci è tornata soltanto per la guerra. «La mia famiglia, molto numerosa, era troppo povera, e ci trasferimmo a Damasco». Ciononostante, non ha quasi nessun ricordo della grande e antica città siriana, vista esclusivamente dagli slum di periferia, per lei del tutto identica all’amara e polverosa città natale. Anche per questo se ne andò via, a combattere con i movimenti rivoluzionari del Kurdistan, attraversando molti paesaggi e molti confini. Dopo esser tornata a Kobane ed essersi unita alle Ypj, e dopo averla liberata, rivide  parenti e amici che aveva conosciuto da bambina, ora diventati adulti. «Non riuscii a provare nulla. Tutto, attorno, era distrutto. Gli amici erano feriti, così tante persone erano morte».

E’ settembre. Sulla collina Mishtenur i combattenti osservano con apprensione le colonne di fumo levarsi sul confine con la Turchia. Il popolo di Kobane sta di nuovo resistendo: con le pietre, stavolta, contro i carri armati turchi che hanno superato il confine, minacciando la periferia della città. Le Ypj e le Ypg osservano con apprensione la serhildan, la rivolta della città sacra alla rivoluzione. Arrivano notizie di decine di feriti. Poi, d’improvviso, i colpi di mitragliatrice. Un ragazzo di diciassette anni muore. «Dobbiamo andare. Siamo le unità di protezione del popolo» scandisce Havin, di Qamishlo, il bel viso avvolto in una kefiah colorata per ripararsi dal vento. Nella sua voce vibra un’accusa, ma non è rivolta ai compagni, né soltanto alla Turchia. Tutti sanno chi si cela dietro i cingolati con la mezzaluna, stavolta. Il comando generale non accetta la guerra: le Ypg non si muovono. La rivolta continua: c’è un altro morto. I combattenti guardano. Il popolo dovrà vincere da solo la sua battaglia, che durerà nove giorni. Nove giorni per ricordarsi che soltanto quando non finisce, la resistenza non diventa un mito.

Dal corrispondente di Radio Onda d’Urto e Infoaut a Kobane, Rojava

Ti è piaciuto questo articolo? Infoaut è un network indipendente che si basa sul lavoro volontario e militante di molte persone. Puoi darci una mano diffondendo i nostri articoli, approfondimenti e reportage ad un pubblico il più vasto possibile e supportarci iscrivendoti al nostro canale telegram, o seguendo le nostre pagine social di facebook, instagram e youtube.

pubblicato il in Conflitti Globalidi redazioneTag correlati:

Articoli correlati

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Cosa c’entra la base del Tuscania al CISAM con il genocidio in corso in Sudan?

In Sudan si consuma un massacro che il mondo continua a ignorare.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Argentina: Milei-Trump hanno vinto e si sono tenuti la colonia

Il governo libertario ha imposto la paura della debacle e ha vinto nelle elezioni legislative.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Palestina libera, Taranto libera

Riceviamo e pubblichiamo da Taranto per la Palestina: Il porto di Taranto non è complice di genocidio: i nostri mari sono luoghi di liberazione! Domani, la nostra comunità e il nostro territorio torneranno in piazza per ribadire la solidarietà politica alla resistenza palestinese. Taranto rifiuta di essere zona di guerra e complice del genocidio: non […]

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Gaza è Rio de Janeiro. Gaza è il mondo intero

Non ci sono parole sufficienti per descrivere l’orrore che ci provoca il massacro di oltre 130 giovani neri, poveri, uccisi dalla polizia di Rio de Janeiro, con la scusa di combattere il narcotraffico.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

I “potenti attacchi” su Gaza ordinati da Netanyahu hanno ucciso 100 palestinesi

I palestinesi uccisi ieri dai raid aerei israeliani sono un centinaio, tra cui 24 bambini, decine i feriti.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Monza: martedì 4 novembre corteo “contro la guerra e chi la produce”

Martedì 4 novembre a Monza la Rete Lotte Sociali Monza e Brianza e i Collettivi studenteschi di Monza hanno organizzato un corteo “Contro la guerra e chi la produce “.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Cosa c’entra Leonardo con il genocidio a Gaza?

Gianni Alioti, ricercatore di The Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei, ha scritto per Pressenza un approfondimento, con notizie inedite, sulle responsabilità di Leonardo nel genocidio a Gaza.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Libano: continuano gli attacchi israeliani nonostante la tregua del novembre 2024. Due persone uccise

Ancora bombardamenti israeliani nel sud del Libano, nonostante l’accordo di tregua concordato nel novembre 2024.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Coloni lanciano attacchi coordinati contro agricoltori e terreni della Cisgiordania

Cisgiordania. Negli ultimi giorni, gruppi di coloni hanno lanciato una serie di attacchi coordinati contro agricoltori e terreni agricoli palestinesi a Betlemme, al-Khalil/Hebron e nella Valle del Giordano settentrionale.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Occupazioni e proteste per la Palestina: gli aggiornamenti da Napoli, Torino e Verona

Proseguono le mobilitazioni in solidarietà con il popolo palestinese.

Immagine di copertina per il post
Bisogni

Tubercolosi al Neruda: no alle speculazioni sulla malattia

Riprendiamo il comunicato del Comitato per il diritto alla tutela della salute e alle cure del Piemonte sulla vicenda che vede coinvolto lo Spazio Popolare Neruda.

Immagine di copertina per il post
Crisi Climatica

Il treno che non arriva mai: altri otto anni di propaganda e devastazione

Telt festeggia dieci anni e annuncia, ancora una volta, che la Torino-Lione “sarà pronta fra otto anni”.

Immagine di copertina per il post
Bisogni

Intelligenza artificiale: l’umanità è diventata obsoleta per i padroni?

La distopia è già qui. Negli Stati Uniti, negli ultimi giorni, una pubblicità che sembra uscita da un film di fantascienza è apparsa ovunque.

Immagine di copertina per il post
Formazione

Occupazioni a Torino: cronaca di un mese senza precedenti.

Una cronaca dalle occupazioni e autogestioni delle scuole torinesi del mese di ottobre.