Le prigioniere sfuggite a Daesh: «Nessuna tortura ci è stata risparmiata»
(la foto, del campo profughi di Duhok, è tratta dal web)
Dopo aver visitato il campo incontriamo diverse famiglie di ezidi che vivevano a Singal, ad oggi non più sotto il controllo dello stato islamico.
La stanza in cui sedevamo per terra, sopra grandi cuscini colorati, lentamente si svuota e nella saletta rimaniamo in pochi: io, tre donne, il medico che traduceva e una bambina.
Queste tre donne sono state per sei mesi torturate e violentata dall’Isis. Iniziamo chiedendo di raccontare la loro storia, così dopo un po’ di silenzio una delle signore, la più anziana, prende parola: “Una volta catturate ci hanno diviso uomini e donne, degli uomini non abbiamo più saputo nulla. Arrivate in questa prigione ci hanno nuovamente divise in tre gruppi: giovani, nubili e anziane”. Una volta divise, spiega, venivano smistate nelle varie stanze e lì iniziavano le prime torture psicologiche, intente a terrorizzarle ed umiliarle. Le bambine sopra i dieci anni venivano separate dalle madri e messe in stanze singole dove venivano violentate ripetutamente. La donna che siede accanto alla signora più adulta ci guarda e con un mezzo sorriso ci dice che in questi sei mesi gli uomini dello stato islamico hanno fatto di tutto, nessuna umiliazione o violenza è stata risparmiata. Durante la detenzione spesso gli uomini di daesh arrivavano nelle stanze, puntavano le loro pistole nelle teste delle donne e le minacciavano di morte “Ora ti ammazziamo!” gridavano con la pistola piantata nella testa delle prigioniere e poi iniziavano a ridere. Quasi nessuna donna è mai stata uccisa, i loro corpi servivano vivi. L’intervista assume una forma molto narrativa in cui le donne raccontano quello che hanno vissuto in sprazzi di ricordi.
La signora più adulta racconta che nella stanza a fianco la sua c’era una bambina di dodici anni, ogni mattina per sei mesi gli uomini di daesh sono entrati e l’hanno violentata fino alla sfinimento, fino a farle perdere la forza anche di urlare.
Prende parola poi la signora che in braccio ha sua figlia e ci dice “Ogni giorno speravamo di morire pur di non stare lì, speravamo nell’arrivo della morte per smettere quest’atroce sofferenza”. Lei ha provato a fuggire due volte, la prima volta è scappata una notte quando gli uomini di daesh erano occupati fuori dalla città, racconta d’aver sbagliato strada e di aver camminato per ore a vuoto. Dopo giorni di cammino, racconta di aver attraversato villaggi vuoti, di essere entrata nelle case per procurarsi del cibo ed infine di aver incontrato degli uomini che dicevano di essere musulmani. Questi uomini l’hanno ospitata in casa, le hanno offerto del cibo e delle bevande mentre le facevano raccontare quello che aveva subito. Questi hanno poi avvertito gli uomini di daesh che arrivati in quella casa l’hanno presa e riportata in prigione. La seconda volta invece è riuscita a scappare e dopo ore di cammino ha incontrato degli ezidi che l’hanno soccorsa e sono tornati indietro a prendere le altre donne.
Raccontano come spesso alle madri veniva proposta la libertà, dicevano loro “Puoi scegliere: ti liberiamo subito ma tua figlia resta qui”. Come se questa possa essere considerata una scelta.
Gli uomini dello stato islamico avevano una lista con tutte le donne tenute prigioniere, questa lista conteneva il nome, il cognome, l’età e il credo religioso della detenuta. Una di loro mi dice “Non volevamo più lavarci né guardarci allo specchio. Non volevamo essere belle perché le più belle erano le più torturate”.
Ancora oggi non dormono bene, raccontano infatti come quello che è successo in quei mesi non potrà mai essere dimenticato.
Il fenomeno dell’Isis, fatto da fanatici fondamentalisti che le potenze occidentali supportano e utilizzano per giustificare la loro presenza in Medio Oriente, ha lasciato in queste terre segni che difficilmente potranno essere cancellati.
di Stefania Fortuna, inviata di Infoaut e Radio Onda d’Urto a Duhok, Iraq
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