InfoAut
Immagine di copertina per il post

L’Europa alla guerra

In questi tempi di ormai periodiche avventure armate “umanitarie” in cui l’Europa non disdegna d’infilarsi (sono già lontani i tempi in cui Francia e Germania potevano mostarre la faccia bella di un’Europa diplomatica, alternativa all’aggressivismo dei neo-cons – lasciando all’Italia berlusconiana il ruolo di tappetino degli Usa) capita molto di rado di imbattersi in articoli osipitati sui media mainstream e degni di essere letti. Barbara Spinelli fa parte di queste poche eccezioni.  E’ infatti una delle poche giornliste che negli ultimi anni si ostina a chiamare le cose col loro nome, decostruendo l’insopportabile retorica “umanitaria” con cui giornalisti incompetenti e superficiali cercando di imbellettare le nuove operazioni di rapina e (de)stabilizzazione dell’Occidente ina ltri contesti geo-politici. Si può essere o meno d’accordo con tutto quello che dice la Spinelli (e in tanti punti non lo siamo). Resta il fatto che i suoi contributi -proprio perché sprovvisti di qualsiasi interesse ideologico – permettono uno sguardo disincantato sulle mosse di un’Europa (avanguardia idiota di questo Occidente) che sovente accende miccie non capace di controllare né prevedere nei suoi esiti. Anche le osservazioni che vengono fatte sulla Cina esul suo modo di posizionarsi in Africa sono preziose e lucide.
 

L’Europa bendata alla guerra d’Africa


di BARBARA SPINELLI  
(Repubblica.it)

È impressionante il mutismo che regna, alla vigilia delle elezioni in Italia e Germania, su un tema decisivo come la guerra. Non se ne parla, perché i conflitti avvengono altrove. Eppure la guerra da tempo ci è entrata nelle ossa.

Non è condotta dall’Europa, priva di un comune governo politico, ma è ormai parte del suo essere nel mondo. Se alla sterminata guerra anti-terrorismo aggiungiamo i conflitti balcanici di fine ‘900, sono quasi 14 anni che gli Europei partecipano stabilmente a operazioni belliche. All’inizio se ne discuteva con vigore: sono guerre necessarie oppure no? E se no, perché le combattiamo? Sono davvero umanitarie, o distruttive? E qual è il bilancio dell’offensiva globale anti-terrore: lo sta diminuendo o aumentando? 

I politici tacciono, e nessuno Stato europeo si chiede cosa sia quest’Unione che non ha nulla da dire in materia, concentrata com’è sulla moneta. L’Europa è entrata in una nuova era di guerre neo-coloniali con gli occhi bendati, camminando nella nebbia.

Le guerre  –  spesso sanguinose, di rado proficue  –  non sono mai chiamate per nome. Avanzano mascherate, invariabilmente imbellite: stabilizzeranno Stati fatiscenti, li democratizzeranno, e soprattutto saranno brevi, non costose. Tutte cose non vere, nascoste dalla strategia del mutismo. A volte le operazioni sono decise a Washington; altre volte, come in Libia, son combattute da più Stati europei. Quella iniziata il 12 gennaio in Mali è condotta dalla Francia di Hollande, con un appoggio debole di soldati africani e con il consenso  –  ex post  –  degli alleati europei. 

Nessun coordinamento l’ha preceduta, in violazione del Trattato di Lisbona che ci unisce (art. 32, 347). Quasi automaticamente siamo gettati nelle guerre, come si aprono e chiudono le palpebre. La mente segue, arrancando. C’è perfino chi pomposamente si chiama Alto rappresentante per la politica estera europea (parliamo di Katherine Ashton: quando sarà sostituita da una personalità meno inutile?) e ringrazia la Francia ma subito precisa che Parigi dovrà fare da sé, “mancando una forza militare europea”. Fotografa l’esistente, è vero, ma occupando una carica importante potrebbe pensare un po’ oltre.

Molte cose che leggiamo sulle guerre sono fuorvianti: simili a bollettini militari, non sono discutibili nella loro perentoria frammentarietà. Invitano non a meditare l’evento ma a constatarlo supinamente, e a considerare i singoli interventi come schegge, senza rapporti fra loro. Anche in guerra prevalgono esperti improvvisati e tecnici. L’interventismo sta divenendo un habitus europeo, copiato dall’americano, ma di questa trasformazione non vien detta la storia lunga, che connetta le schegge e rischiari l’insieme. Manca un pensare lungo e anche ampio, che definisca chi siamo in Africa, Afghanistan, Golfo Persico. Che paragoni il nostro pensare a quello di altri paesi. Che studi la politica cinese in Africa, così attiva e diversa: incentrata sugli investimenti, quando la nostra è fissa sul militare. Scarseggia una veduta cosmopolita sul nostro agire nel mondo e su come esso ci cambia.

Una vista ampia e lunga dovrebbe consentire di fare un bilancio freddo, infine, di conflitti privi di obiettivi chiari, di limiti spaziali, di tempo: che hanno dilatato l’Islam armato anziché contenerlo, che dall’Afghanistan s’estendono ora al Sahara-Sahel. Che nulla apprendono da errori passati, sistematicamente taciuti. I nobili aggettivi con cui agghindiamo l’albero delle guerre (umanitarie, democratiche) non bastano a celare gli esiti calamitosi: gli interventi creano non ordine ma caos, non Stati forti ma ancora più fallimentari. Compiuta l’opera i paesi vengono abbandonati a se stessi, non senza aver suscitato disillusione profonda nei popoli assistiti. Poi si passa a nuovi fronti, come se la storia delle guerre fosse un safari turistico a caccia di esotici bottini.

Il Mali è un caso esemplare di guerra necessaria e umanitaria. In questo decennio l’aggettivo umanitario s’è imbruttito, ha perso l’innocenza, e annebbia la storia lunga: le politiche non fatte, le occasioni mancate, le catene di incoerenze. Era necessario intervenire per fermare il genocidio in Ruanda, nel ’94, e non si agì perché l’Onu ritirò i soldati proprio mentre lo sterminio cominciava. Fu necessario evitare l’esodo  –  verso l’Europa  –  dei kossovari cacciati dall’esercito serbo. Ma le guerre successive non sono necessarie, visto che manifestamente non fermano i terroristi. Non sono neppure democratiche perché come si spiegano, allora, l’alleanza con l’Arabia Saudita e l’enormità degli aiuti a Riad, più copiosi di quelli destinati a Israele? Il regno saudita non solo non è democratico: è tra i più grandi finanziatori dei terrorismi. 

La degenerazione del Mali poteva essere evitata, se gli Europei avessero studiato il paese: considerato per anni faro della democrazia, fu sempre più impoverito, portandosi dietro i disastri delle sue artificiali frontiere coloniali. Aveva radici antiche la lotta indipendentista dei Tuareg, culminata il 6 aprile 2012 nell’indipendenza dell’Azawad a Nord. Per decenni furono ignorati, spregiati. Per combattere un indipendentismo inizialmente laico si accettò che nascessero milizie islamiche, ripetendo l’idiotismo esibito in Afghanistan. Sicché i Tuareg s’appoggiarono a Gheddafi, e poi agli islamisti: unico punto di riferimento, furono questi ultimi a invadere il Nord, all’inizio 2012, egemonizzando e stravolgendo  –  era prevedibile  –  la lotta tuareg.

È uno dei primi errori dell’Occidente, questa cecità, e quando Prodi approva l’intervento francese dicendo che “non esistevano alternative all’azione militare”, che “si stava consolidando una zona franca terroristica nel cuore dell’Africa”, che gli indipendentisti “sono diventati jihadisti”, dice solo una parte del vero. Non racconta quel che esisteva prima che la guerra fosse l’unica alternativa. I Tuareg non sono diventati terroristi; blanditi dagli islamisti, sono stati poi cacciati dai villaggi che avevano conquistato. La sharia, nella versione più cruenta, è invisa ai locali e anche ai Tuareg (sono tanti) non arruolati nell’Islam radicale. Vero è che all’inizio essi abbracciarono i jihadisti, e un giorno questa svista andrà meditata: forse l’Islam estremista, col suo falso messianismo, ha una visione perversa ma più moderna, della crisi dello Stato-nazione. Una visione assente negli Europei, nonostante l’Unione che hanno edificato.

Ma l’errore più grave è non considerare le guerre dell’ultimo decennio come un tutt’unico. L’azione in un punto della terra ha ripercussioni altrove, i fallimenti in Afghanistan creano il caso Libia, il semi-fallimento in Libia secerne il Mali. Il guaio è che ogni conflitto comincia senza memoria critica dei precedenti: come scheggia appunto. In Libia il trionfalismo è finito tardi, l’11 settembre 2012 a Bengasi, quando fu ucciso l’ambasciatore Usa Christopher Stevens. Solo allora s’è visto che molti miliziani di Gheddafi, tuareg o islamisti, s’erano trasferiti nell’Azawad. Che la guerra non era finita ma sarebbe rinata in Mali, come in quei film dell’orrore dove i morti non sono affatto morti.

È venuta l’ora di riesaminare quel che vien chiamato interventismo umanitario, democratico, antiterrorista. Un solo dato basterebbe. Negli ultimi sette anni, il numero delle democrazie elettorali in Africa è passato da 24 a 19. Uno scacco, per Europa e Occidente. Intanto la Cina sta a guardare, compiaciuta. La sua presenza cresce, nel continente nero. Il suo interventismo per ora costruisce strade, non fa guerre. È colonialismo e lotta per risorse altrui anch’esso, ma di natura differente. Resilienza e pazienza sono la sua forza. Forse Europa e Stati Uniti si agitano con tanta bellicosità per contendere a Pechino il dominio di Africa e Asia. È un’ipotesi, ma se l’Europa cominciasse a discutere parlerebbe anche di questo, e non sarebbe inutile

Ti è piaciuto questo articolo? Infoaut è un network indipendente che si basa sul lavoro volontario e militante di molte persone. Puoi darci una mano diffondendo i nostri articoli, approfondimenti e reportage ad un pubblico il più vasto possibile e supportarci iscrivendoti al nostro canale telegram, o seguendo le nostre pagine social di facebook, instagram e youtube.

pubblicato il in Conflitti Globalidi redazioneTag correlati:

Africacinaeuropaguerramalioccidente

Articoli correlati

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Armi e appalti: l’Italia mantiene aperto il canale con l’industria militare israeliana

Nonostante la campagna di sterminio contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza, Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato continuano ad equipaggiare i propri reparti di pronto intervento rifornendosi presso le più importanti aziende israeliane.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Bambini sfruttati e affumicati nei campi della California

Molto lontano dai campi di Entre Ríos o Santa Fe, i bambini contadini della California lavorano dagli 11 ai 12 anni, sfruttati, mal pagati, in terreni affumicati con pesticidi e con il terrore di essere deportati insieme alle loro famiglie di migranti.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Palestina, i coloni attaccano volontari internazionali: feriti tre italiani

Un nuovo attacco dei coloni israeliani ha colpito la comunità di Ein al-Duyuk, vicino a Gerico, nella Cisgiordania occupata.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Drone assassino israeliano massacra due fratellini palestinesi

Fadi Tamer Abu Assi e Juma Tamer Abu Assi, bambini palestinesi di 10 e 12 anni, sono stati ammazzati da un drone israeliano a est di Khan Yunis (sud della Striscia) mentre raccoglievano legna per il padre ferito.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Membro della Knesset: Israele sta “importando la guerra di sterminio” da Gaza alla Cisgiordania

Un membro israeliano della Knesset (Parlamento) ha affermato che Tel Aviv sta “importando” la sua “guerra di sterminio” dalla Striscia di Gaza alla Cisgiordania occupata.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

CONTRO I SIGNORI DELLA GUERRA E PADRONI DELLA CITTÀ, BLOCCHIAMO TUTTO!

Oggi, nell’ambito dello sciopero generale indetto dal sindacalismo di base, come realtà autorganizzate del movimento milanese abbiamo deciso di bloccare l’ingresso principale della sede dirigenziale di ENI S. p. a. di San Donato.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Linee gialle e zone verdi: la divisione di fatto di Gaza

Crescono i timori che il nuovo mosaico di zone diverse di Gaza, separate da una Linea Gialla, possa consolidarsi in una partizione permanente del territorio.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

La Germania è in crisi e vaga nella nebbia

Le ultime notizie dal paese teutonico indicano che la sua crisi economica non si arresta ed entra ormai nel suo quarto anno.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Bombardamenti israeliani contro il Libano: 5 morti, tra cui l’Alto comandante di Hezbollah, Haytham Ali Tabatabaei

Beirut-InfoPal. Il ministero della Salute Pubblica libanese ha diffuso il bilancio ufficiale dell’attacco israeliano senza precedenti contro un’area residenziale alla periferia sud di Beirut, domenica 23 novembre: cinque morti e 28 feriti.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Verso il 28 novembre: i comitati sardi chiamano alla mobilitazione

Diffondiamo l’appello uscito dalla rete Pratobello24 che invita tutti i comitati che lottano contro la speculazione energetica a unirsi allo sciopero e alla mobilitazione del 28 novembre.

Immagine di copertina per il post
Sfruttamento

Sciopero generale e cortei nazionali: di nuovo decine di migliaia in piazza in tutta Italia

La due giorni di mobilitazioni del 28-29 novembre contro la finanziaria di guerra ed il genocidio del popolo palestinese ha nuovamente portato in piazza decine di migliaia di persone da nord a sud.

Immagine di copertina per il post
Culture

Un’Anabasi post-sovietica. Storia del Gruppo Wagner

Gli uomini in mimetica camminano soli o a coppie dentro fitti banchi di nebbia, a malapena si intravedono i campi desolati attorno alla lingua di cemento.

Immagine di copertina per il post
Crisi Climatica

Transizioni armate: riflessioni sul rapporto tra guerra, riarmo, natura e territori

Il tema della transizione energetica ed ecologica si lega a doppio filo con la corsa al riarmo e la riconversione al contrario

Immagine di copertina per il post
Editoriali

Leva-tevi

Germania, Francia ed Italia stanno reintroducendo la leva militare, ad oggi su base volontaria, domani chissà.

Immagine di copertina per il post
Intersezionalità

Giornata contro la violenza sulle donne: “boicottiamo guerra e patriarcato”. La diretta dalle manifestazioni

Oggi è la Giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. Una giornata che non ha visto grandi miglioramenti, a 26 anni dalla sua proclamazione, nel 1999, da parte dell’Onu.