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“Nè comunista né anarchica, è una buona rivoluzione”. Intervista a un compagno europeo in Rojava

L’intervista che segue è stata realizzata con un compagno giunto da un paese europeo, che proviene da quel vasto arcipelago di realtà politiche, teorie, collettivi, occupazioni e spazi sociali che caratterizzano ciò che in Europa, con un grave ma apparentemente ineliminabile equivoco terminologico, viene chiamato dagli anni Settanta “movimento”. Il carattere problematico di questa denominazione appare tanto più chiaro a chi osserva lo sviluppo di un movimento reale non soltanto in Rojava, ma in Bakur, ovvero in Turchia (oltre che in molte altre regioni del mondo). Non solo: ciò che colpisce i compagni internazionali che giungono in Kurdistan è come l’utopia rivoluzionaria qui sia associata, e raccolga i suoi frutti lungo il cammino, alla centralità di una soggettività politica organizzata secondo criteri che la speculazione teorica europea si era impegnata a debellare nel corso dei decenni, considerandola nociva o incapace a ricontestualizzarsi nel mondo contemporaneo.

Per queste ragioni, oltre ad essere evidente l’importanza di supportare direttamente la rivoluzione del Rojava e di apprenderne lo sviluppo, è importante stimolare un dibattito politico che parta da informazioni approfondite e reali, e non si adagi sulla consueta abitudine di filtrare ciò che è lontano, originale, imprevedibile e inaspettato, negli schemi del “già pensato”, “già teorizzato”, “già conosciuto” e “già definito-etichettato” che caratterizzano il posizionamento atavico di molti compagni europei. La conversazione che segue lascia emergere come, per molti compagni che giungono qui, il confronto con una rivoluzione reale sia un elemento di shock, che mette in discussione e fa facillare molte certezze, mettendo in discussione la coscienza politica nel profondo; ciò che, a bene vedere, è uno dei frutti più preziosi della trasformazione come tale.

Perchè hai deciso di venire in Rojava?

Per la rivoluzione. Ciò che pensavo era che la rivoluzione non fosse possibile, c’era l’esempio degli zapatisti in Chiapas, ma è una rivolzione caratterizzata da degli elementi molto specifici, ad esempio il fatto che si tratta di una popolazione indigena. Qui sta accadendo una rivoluzione che è al centro del mondo, che cerca di creare un sistema adatto a tutti per un mondo diverso. Questo è ciò cui sono interessato, imparare tutto ciò che posso.

In quale forma si esprime il tuo interesse?

C’è chi è interessato più alla filosofia e alla teoria di questa rivoluzione, io mi interesso più alla società civile e ai passaggi con cui la società si trasforma. È un buon sistema, che parte dalle comuni, ma non è abbastanza, non c’è garanzia che la rivoluzione arrivi ovunque, perché anche qui c’è molta gente che non usa queste strutture.

Che non usa le comuni?

Esatto.

Da quale genere di esperienza provieni?

Nella mia città, in Europa, porto avanti un progetto con circa duecento persone in un quartiere abbastanza centrale della città. La nostra idea è direndere autonomo questo quartiere passo passo, creando servizi logistici, abbiamo una cooperativa di costruzioni, facciamo formazione professionale con gli operai, raccogliamo soldi per chi ha troppa difficoltà. Abbiamo anche un collettivo con un gruppo di famiglie che, insieme, cercano di occuparsi con noi dell’educazione dei bambini. Uno dei problemi maggiori dell’Europa è che i quartieri sono dormitori.

Abbiamo anche una cooperativa per produrre cibo ecologico; naturalmente il problema su questo punto è che una produzione simile costa e il prezzo sale, ma in prospettiva vogliamo cercare di rendere i prezzi maggiormente popolari, anche se il nostro principale obiettivo è la socialità nel quartiere. Abbiamo anche una biblioteca popolare su politica e cooperativismo. Abbiamo un unico obiettivo: rendere il quartiere autonomo, unendo la gente.

Vedi delle affinità tra ciò che state facendo nella tua città e ciò che accade qui?

Le comuni. È la stessa idea. Qui però sono più avanti, anche se talvolta… Qui la cosa buona è che hanno il “potere” e possono sviluppare il sistema in tutta la società, ma noi abbiamo più capacità di inventare, non so… Le comuni qui hanno un funzionamento basato sulla creazione di commissioni interne che si occupano di aspetti specifici. La struttura è rigida: tu fai questo, tu fai quello, è tutto organizzato. Il nostro progetto è molto simile, ma non abbiamo questa struttura, quindi possiamo pensare se e come creare cooperative, non dobbiamo parlare con ministri come accade qui, ecc. [Riferimento alle connessioni del sistema delle cooperative del Rojava con il sistema dell’autonomia del Rojava, di cui fa parte anche il consiglio esecutivo e le sue ramificazioni analoghe a ministeri, Ndr].

Entrambe le situazioni, se confronto la nostra e la loro, hanno lati positivi e negativi. Il costo del nostro approccio è che in fin dei conti siamo una piccola fortezza in un quartiere, mentre loro possono pensare e agire più globalmente. Parliamo molto con i quadri di tutto questo [Ndr: I “quadri” sono, nella rivoluzione del Rojava, i militanti del partito, che agiscono secondo la linea dell’organizzazione in seguito a un intenso processo di educazione ed esperienza politica, anche quando molto giovani, e fanno proprio un forte concetto di disciplina rivoluzionaria]. I quadri ci spiegano la loro utopia ed è chiaro che quel che c’è ora in Rojava è ancora lontano da questa utopia, ma loro pensano che il modo più utile per raggiungerla sia passare attraverso questo processo.

Tu cosa ne pensi?

Sono d’accordo. Siamo oppressi in tutto il mondo, in Europa come qui. Sono anarchico e all’inizio questa mega-struttura non mi piaceva, mi ricordava le idee marxiste, ma poi ho capito, apprendendo. Ci sono due modi: pensare di distruggere tutto e subito, e ci sono ben poche possibilità di riuscire, oppure c’è il modo graduale, passo dopo passo, che è quello che ha avuto successo qui. La maggior parte della gente, nel mondo, se ne frega di cambiare le cose. Qui ho cominciato a riflettere su questo, e adesso penso che portare avanti la rivoluzione con tutta la società sia meglio.

È chiaro che i quadri o i membri del Tev Dem [Movimento per la società democratica che porta avanti la trasformazione del Rojava, frutto dell’unione di diverse organizzazioni sociali e partiti, Ndr], o i ministri o quelli del partito hanno molta consapevolezza di tante cose, ma la gente comune no, quindi bisogna convicere ed educare, ci vuole tempo.

Qual è l’atteggiamento degli altri “internazionali” che conosci e che sono in Rojava in questo momento?

Nessuno ha particolarmente da ridire su questa rivoluzione, ma il problema è che in Europa ci dicono che è un rivoluzione anarchica, mentre non è vero, perché in realtà è un misto di marxismo e anarchismo. C’è l’idea marxista del passo dopo passo e l’idea di costruire una struttura, e a partire da questa struttura cambiare la società. Ciononostante la modalità con cui ciò viene fatto e soprattutto l’idea finale non è marxista ma anarchica. Inoltre il cuore del sistema attuale su cui i compagni qui insistono continuamente, cioè che il potere va dal basso verso l’alto e non viceversa è diverso da quel che diceva Marx, che parlava di “dittatura del proletariato”. Tuttavia per gli anarchici che sono venuti qui è stato un po’ un “wow”, uno shock direi.

Sono delusi?

Sì, perché in Europa non c’è una buona informazione su ciò che accade qui. Veniamo a sapere cose in modo semplificato e sembra una rivoluzione anarchica, ma se vieni qui vedi che le cose sono diverse. Ci sono anche internazionali che non accettano questa cosa.

Secondo te questo è l’unico modo per procedere con una rivoluzione, o ci sarebbero altri modi?

In teoria non è l’unico modo, ma nella pratica sì. Non so se quello che abbiamo in mente in Europa è possibile, perché non lo abbiamo ancora sperimentato, ma quel che fanno qui funziona. Se vogliamo fare una rivoluzione questo è un buon modo. Tuttavia “rivoluzione” significa partecipare, quindi anche avere un punto di vista critico, è la cosa bella della rivoluzione. I quadri agiscono nella rivoluzione affinché non esistano gerarchie, è il loro compito, poi fino a che punto questa rivoluzione potrà spingersi è nelle mani della società.

Prendiamo un esempio: il dipartimento giustizia è un elemento positivo qui perché, sebbene il loro compito sia giudicare la gente, hanno detto che vogliono la distruzione del sistema penale, ossia una società che sia in grado di risolvere i problemi a livello locale, di quartiere, ecc. In Europa, al contrario, i problemi vengono creati di proposito per giustificare e conservare il sistema penale o accrescerlo: la “malvagità” umana è necessaria al capitalismo. Cambiare questa cultura è l’inizio, poi occorre portare avanti un capovolgimento di questa concezione che può essere lento o rapido, ma l’importante è che ci sia questa idea fondamentale al fondo.

Se dovessi mandare un messaggio ai compagni europei dal Rojava, cosa diresti?

La gente non sa nulla della rivoluzione politica in Rojava e Bakur. Non è la prima volta nella storia, già altre rivoluzioni morirono perché non ottennero supporto. Bisogna interessarsi a ciò che accade qui, in primo luogo, e supportare, non so come, ma rendiamoci conto che è un momento importante per il mondo che attraversa guerra e crisi, questa del Rojava è una grande occasione. Dobbiamo adattare questa rivoluzione ai nostri paesi.

Non importa se sei comunista, anarchico o socialista, la verità è che in Europa giochiamo alla rivoluzione e queste piccole guerre tra anarchici e comunisti, queste rivoluzioni da bar sono inutili e non creano nulla. Se restiamo troppo chiusi nelle nostre idee non costruiamo nulla. Questa rivoluzione non è comunista e non è anarchica, ma è una buona rivoluzione. Criticare ciò che accade qui perché Bakunin o Lenin hanno scritto qualcosa di diverso, come quelli che criticano l’allenatore davanti alla partita di calcio con una birra in mano, è controrivoluzionario.

Dall’inviato di Radio Onda d’Urto e Infoaut in Rojava, Siria

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