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Penisola arabica, regimi al contrattacco

Abbiamo già scritto di come la famiglia degli Al-Khalifa al potere, soccorsa dal dispositivo militare del Consiglio di Cooperazione del Golfo “Peninsula Shield” (attivato in precedenza in Kuwait in occasione delle Guerre del Golfo nel 1990-1991 e 2003, ma mai in risposta ad un’insurrezione interna in uno dei paesi membri), possa contare sul sostegno di oltre 1000 militari sauditi e 500 poliziotti degli Emirati Arabi Uniti. Paese quest’ultimo solo lambito dal fuoco che divampa in tutto il Medio Oriente; e snodo finanziario ed energetico di primo piano, che sembra intenzionato a ritagliarsi un ruolo a fianco degli USA come paladino conservatore degli equilibri nella penisola arabica ed in Libia – essendo stato tra i primi a fornire supporto militare alla proclamazione della No Fly Zone sul paese nordafricano.

Il regime segregazionista di Manama ha imposto nelle scorse ore la legge marziale ed il coprifuoco dalle 16 del pomeriggio alle 4 di mattina, mentre ieri sono stati arrestati con l’accusa di “incitamento ai disordini” il vicesegretario del sindacato GFWTUB ed i leader di alcune delle principali società politiche all’opposizione, da Hassan Mushaima – esponente sciita repubblicano sciita dell’Haq – a Ibrahim Sharif – della sinistra laica del Waad, la cui sede è stata saccheggiata dai filomonarchici.

In concomitanza con questi sviluppi si sono dimessi il ministro della Casa, il nuovo ministro della Sanità (quest’ultimo dopo aver constatato la militarizzazione degli ospedali, l’affidamento della loro gestione a medici lealisti e nuovi episodi di violenze e minacce ai danni del personale medico) ed alcuni rappresentanti sciiti della camera alta di nomina reale del parlamento e della magistratura.

L’occupazione, le stragi e gli arresti non sembrano però aver fermato gli insorgenti, che ieri e la scorsa notte hanno sfidato nuovamente lo stato di emergenza: i principali scontri si sono registrati a Sitra, dove la polizia ha sparato sui manifestanti, mentre la gente è scesa e sta scendendo in piazza nelle roccaforti sciite di Karzakkan, Daih e Diraz, in fermento fin dai primi moti di febbraio.

In questo nuovo venerdì di collera si registra il tentativo del regime di colpire anche emozionalmente la rivolta: è stato infatti abbattuto, con la scusa surreale di una riqualificazione dell’area, il monumento della Perla che sorgeva al centro della Pearl Roundabout (sgomberata due giorni fa e ora presidiata dalle truppe occupanti), catalizzatore dell’autorganizzazione popolare e punto di partenza di tanti cortei ed azioni dirette. Una prova di forza che in realtà – allo stesso modo della terra bruciata attuata da Gheddafi in Libia – non fa altro che segnare un nuovo punto di non ritorno nel confronto tra le parti in lotta, e consegnare ad un’eventuale – e per nulla scontata – vittoria della monarchia un paese ingovernabile negli anni a venire.

Anche nella città petrolifera di Qatif in Arabia Saudita sono scese in piazza 4.000 persone a fianco degli insorti bahrainiti, ed oggi e domenica si attendono nuove iniziative di protesta – veicolate anche dalla rete, e che andranno direttamente a sfidare sia il divieto poliziesco della famiglia reale che la fatwa lanciata degli imam sauditi contro le manifestazioni.

Mentre in Yemen dal “Venerdì del Non Ritorno” – lanciato una settimana fa da una nuova manifestazione di 100.000 persone a Taiz – non hanno accennato a fermarsi le provocazioni e gli agguati anche mortali contro i dimostranti da parte dei soldati e dei sostenitori del presidente Saleh, al potere da 32 anni. Fino a far scendere in campo nei giorni scorsi, al fianco della rivolta guidata dagli studenti dell’università di Sana’a, tribù come quella dei Kholan, che hanno risposto col fuoco ai raid della polizia politica.

Una sinergia all’opera anche in altre zone del paese: nella provincia di Marib la popolazione è scesa in piazza chiedendo le dimissioni del governatore locale, mentre una serie di azioni di sabotaggio da parte dei miliziani delle tribù ha preso di mira i condotti petroliferi della zona e le arterie di comunicazione stradale, compromettendone i collegamenti con la capitale ed il Mar Rosso. Fino alla mattanza compiuta oggi dall’esercito di Saleh: con più di 41 morti e 200 feriti nella capitale tra i manifestanti che chiedevano le dimissioni immediate del presidente, e la proclamazione di uno stato di emergenza che non fa altro che riconoscere il livello di conflittualità raggiunto in uno Yemen sempre più ingovernabile.

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