Prigionieri politici mapuche: quattro voci spiegano perché parliamo della loro esistenza
Oggi i prigionieri politici mapuche del carcere di Angol hanno interrotto lo sciopero della fame che durava da 123 giorni. Le bandiere mapuche che rappresentavano ognuno di loro sono state abbassate. Non si metterà in pericolo la vita davanti all’incapacità di dialogo del governo con le autorità mapuche.
Martedì 28 luglio è iniziata una serie di dichiarazioni dei politici di vari settori che sostenevano: “in Cile non ci sono prigionieri politici” e ancora “non ci sono prigionieri politici mapuche”. Queste affermazioni mostrano quanto sia vigente il pensiero negazionista, che non riconosce l’esistenza di un popolo-nazione che è sopravvissuto a una storia di colonizzazione.
Quattro voci di pu lamngen (fratelli),che hanno vissuto la detenzione politica o che sono stati portavoce di chi l’ha subita, condividono pubblicamente le ragioni per cui i prigionieri politici mapuche sono effettivamente tali.
Natividad Llanquileo Pilquiman è un’avvocata che difende i Diritti Umani. Nel periodo tra il 2010 e il 2011 è stata portavoce dei prigionieri politici mapuche. Fidel Tranamil è machi (autorità spirituale) nel settore Rofwe del Territorio Makewe, è stato arrestato durante la fallimentare operazione Huracán e portato nel carcere di alta sicurezza di Valdivia. Ingrid Conejeros è un’educatrice e durante gli anni 2016 e 2017 è stata la portavoce della machi Francisca Linconao, che, con due processi a suo carico, alla fine è stata assolta. Alberto Curamil è longko (autorità) del lof (comunità) Radalko, comune di Curacautín ed è stato insignito del cosiddetto Nobel Verde mentre era in custodia cautelare per un procedimento giudiziario in cui è stato assolto.
“Porque no debemos decir pueblo decimos pueblo (Perché non possiamo dire popolo diciamo popolo) – Maribel Mora Curriao
Per dare una base ai motivi per i quali è innegabile l’esistenza di prigionieri politici mapuche, i lamngen condividono l’importanza dell’appartenenza a un popolo che ha vissuto un processo di esproprio e un tentativo di sottomissione da parte degli Stati-nazione cileno e argentino.
Natividad Llanquileo inizia la conversazione osservando questo: “Veniamo da una storia dove lo Stato ci ha sottomesso a un sistema che implica che le persone mapuche debbano lottare per i propri diritti politici, economici e sociali. La conseguenza è che le persone decidano di protestare e che, come effetto di questa protesta, oggi siano sottomessi ai tribunali di giustizia”.
Il carattere collettivo della lotta che si porta avanti è un punto forte di presa di posizione. Ingrid Conejeros sottolinea che, essendo prigionieri in un contesto politico di persecuzione nei confronti di un popolo, “coloro che risultano criminalizzati, condannati o mantenuti in carcere, hanno la caratteristica di essere detenuti in un contesto di persecuzione nei confronti di un popolo. Non sono prigionieri politici per cause proprie, ma per cause relative a un popolo”.
Fidel Tranamil si riferisce ai processi storici e di liberazione dei popoli: “Il concetto di detenzione politica che viene accettato è quello dove lo Stato perseguita a un certo membro di un popolo indigeno o di una società che è in un processo di liberazione, e quello che sta perseguitando è il pensiero di un popolo oppresso che ha tutto il diritto di ribellarsi a un sistema che lo sta schiacciando. Lo Stato del Cile ci sta opprimendo come mapuche fin dagli inizi del Novecento. Questa liberazione porta con sé il fatto che possiamo recuperare il territorio che è stato dei nostri nonni, dal Bío-Bío verso sud come dimostrazione del trattato di Tapiwe, nel quale la stessa nazione cilena ha riconosciuto che abbiamo una sovranità territoriale dentro il nostro territorio dal Bío-Bío verso sud”.
L’avvocata Natividad Llanquileo
Questa storia di espropri si mantiene viva nella memoria di un popolo che non più di quattro generazioni fa ha visto entrare nei propri territori l’esercito e i poteri politici ed economici dello Stato cileno, li ha visti bruciare i suoi machi, uccidere la sua popolazione, impossessarsi delle sue terre, piegare al lavoro schiavista i suoi uomini e le sue donne e i bambini e le bambine che sono dovuti andare a lavorare in città. I nonni e le nonne di coloro che oggi hanno circa ottanta/novanta anni hanno vissuto questo tentativo di genocidio.
Qual è stato l’interesse che ha dato il via a questa impresa colonizzatrice? L’occupazione del territorio mapuche. Natividad afferma: “Il grande tema riguarda la difesa territoriale e il recupero del territorio. Tutte le persone riconosciute come prigionieri politici sono persone che hanno difeso i loro territori, i loro diritti, le loro comunità. Per questo sono riconosciuti dalle comunità, dalla loro famiglia, dal popolo mapuche; per questo loro li visitano, li accompagnano nei processi di mobilizzazione. Un semplice detenuto, anche se avesse un certo cognome e appartenesse a una comunità, senza aver aderito a questi processi, non avrebbe un sostegno come quello dei prigionieri politici”.
Il lonko Curamil, con una grande esperienza nella lotta per l’accesso all’acqua contro grandi compagnie minerarie, sottolinea che “quando noi ci organizziamo, quando noi chiamiamo a raccolta la nostra gente per poter esigere che si rispetti il nostro diritto territoriale, allora inizia anche la persecuzione, i soprusi della polizia e alla fine ci collegano a un qualsiasi delitto per cercare di criminalizzare la nostra lotta. Questa è l’unica ragione per la quale lo Stato mette in carcere i nostri fratelli mapuche, ed è per questo che noi li chiamiamo prigionieri politici, perché difendono il loro territorio, difendono quello che è il loro diritto ancestrale mapuche”.
Da parte sua il machi Fidel non ha dubbi nel dire: “Tanto i nostri padri come noi stessi portiamo avanti questo processo di controllo territoriale, con il quale oggigiorno mettiamo in pratica il diritto legittimo che abbiamo come popolo-nazione Mapuche di liberarci dal giogo oppressore dello Stato cileno”.
Il machi Fidel Tranamil
L’impresa coloniale, attraverso il coordinamento dei grandi poteri economico-politici, ha cercato di impossessarsi del territorio mapuche visto come una fonte per l’estrattivismo depredatore. Un pensiero opposto a quello dei popoli ancestrali, fra i quali la normalità è la riproduzione della vita in relazione con il territorio.
Colui che è stato insignito del cosiddetto Nobel Verde per la sua traiettoria nella lotta per l’ambiente, Alberto Curamil, afferma: “Questo territorio è stato usurpato per un 95% dalle imprese multinazionali, dallo Stato del Cile, dai proprietari terrieri… hanno usurpato gran parte del nostro territorio e non solo la terra, ma anche l’acqua. La cosa più invasiva qui è l’industria forestale”. Il machi Tranamil è d’accordo e aggiunge che “dietro questa repressione c’è la Forestal Mininco, la Forestal Arauco. Oggigiorno lo Stato vuole venire qui, sulla base della giustizia, a imporre i suoi megaprogetti avvallando il capitale nazionale e internazionale in cambio della morte o dell’uccisione dei nostri peñi (fratelli) o la repressione delle nostre comunità”.
Il lonko Alberto Curamil
Quando la legalità non implica la giustizia e si converte in un dispositivo del razzismo coloniale, due donne mapuche che hanno accompagnato alcuni prigionieri politici come portavoce parlano a proposito dei procedimenti giudiziari. Ingrid Conejeros ci racconta: “La denominazione di prigionieri politici si basa sul fatto che le sue ragioni sono inquadrate in un contesto politico repressivo, di persecuzione, di criminalizzazione, dove lo Stato agisce come una struttura che va in cerca di queste detenzioni politiche, queste condanne. Ci sono sempre situazioni irregolari che permettono che si facciano montature da parte della polizia, che ci sia omissione di alcune prove, che esistano lunghe carcerazioni preventive per le persone che vengono imputate”.
Natividad Llanquileo ci racconta: “Quello che si può vedere è che c’è un trattamento differenziato, si può osservare la mancanza di obiettività nell’investigazione portata avanti dal Pubblico Ministero. Dall’altra parte succede che, al momento di applicare le sanzioni penali, non si considerano gli aspetti di tipo culturale, economico e sociale rispetto al mondo mapuche e, allo stesso tempo, la sproporzione delle condanne alle quali si arriva”. L’avvocata prende in considerazione il caso di una persona che commette un delitto e non è mapuche: “Per lo stesso crimine di un mapuche, la sua condanna è in grado minimo anche se è colpevole. Nel caso di un mapuche, la situazione si aggrava per l’applicazione di leggi speciali oppure, al momento di determinare la pena, si applica quella maggiore”.
Ingrid Conejeros, ex portavoce della machi Francisca Linconao
Ammettere che esistono prigionieri politici mapuche apre la strada al riconoscimento storico del processo di colonizzazione sul territorio mapuche, Wallmapu, e la sua validità. Come dichiara Ingrid Conejeros: “Lo Stato ha generato la detenzione politica, è stato il responsabile di persecuzioni, di assassinii, di criminalizzazione. Finché si manterrà questa struttura colonialista verso il popolo mapuche, non si smetterà di avere prigionieri politici mapuche, perché questo è il sistema che fa sì che noi dobbiamo difenderci, che ci consumiamo, che dobbiamo assistere i prigionieri politici mapuche in varie carceri. Un sistema che minaccia l’organico delle comunità, dei lof, dei movimenti sociali mapuche che sono in difesa dei territori”. Insieme a Ñamkulawen Lof diciamo: “Affermiamo il genocidio portato avanti, ma anche la nostra esistenza. Siamo vivi”.
“Iñciñ xawvleyiñ
tvfa lepvn mew
ka fewla wirartuayiñ:
marici wew!!”
(Amuayiñ Purutuayiñ, Puel kona)
di Ange Valderrama Cayuman: Giornalista e ngürekafe (tessitrice). Abita e scrive nel territorio Cancura. Lavora per il Ficwallmapu, il Festival Internazionale di cinema e arti indigene nel Wallmapu. È membro del Collettivo Rangiñtulewfü, è parte della redazione di Yene Revista e della Cooperativa editrice Chillka.
**Paula Baeza Pailamilla (Immagini): Artista Visiva. È parte del Collettivo Rangiñtulewfü.
Traduzione in italiano di Silvia Carradori per Yene Revista
Yene Revista
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