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Non guerra in Europa, ma guerra all’Europa

La telefonata tra Trump e Putin ha traumatizzato la pessima classe dirigente europea, gettandola nel panico.

Mentre la guerra in Ucraina va verso il congelamento gli imbelli che governano il continente finalmente si stanno rendendo conto che questa non era solamente una guerra in Europa, ma una guerra all’Europa, portata avanti con mezzi non convenzionali dal suo alleato storico d’oltreoceano.

A tre anni dall’esplosione del conflitto diretto tra Russia ed Ucraina si contano le macerie di un continente, quello europeo, ridimensionato come ruolo politico, in costante recessione economica e crisi sociale, totalmente privo di alcuna visione e possibilità di rilancio. Per i settori popolari europei questi anni hanno rappresentato l’inizio di una sciagura di cui ancora non si riescono a cogliere le conseguenze complessive. I settori industriali europei sono devastati, il potere d’acquisto della popolazione è calato ovunque, precarietà ed impoverimento sono sempre più diffusi. I costi enormi sostenuti per le speculazioni energetiche, per i flussi costanti di armi al fronte ed il riarmo generale hanno inciso drammaticamente sui conti pubblici e i costi sono stati scaricati (e verranno scaricati sempre di più) verso i proletari e le proletarie. Viviamo in società sempre più militarizzate, opache e reazionarie.

Il bilancio per l’Ucraina è estremamente drammatico, in questi tre anni il fronte si è trasformato in un tritacarne di uomini e risorse. Dopo la controffensiva iniziale la perdita del controllo sui territori è stata lenta, ma costante. Una parte considerevole delle risorse, delle aziende e dell’economia ucraina non appartengono più agli ucraini, ma agli alleati, specialmente statunitensi che già si sfregano le mani in vista del banchetto della ricostruzione.

Che sarebbe andata a finire così era prevedibile fin dai primi mesi di guerra, anche se gli esperti da talk show non hanno mai smesso di prevedere una gloriosa vittoria dell’Ucraina, bastava un po’ di buonsenso per comprendere che la narrativa che ci è stata propinata in maniera martellante era spazzatura. La scommessa della dirigenza ucraina di trasformarsi nel proxy più fedele dell’impero è stata la riproposizione di uno spartito suonato centinaia di volte dagli USA dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi: utilizzare i propri alleati fino a quando risultano utili per poi abbandonarli a se stessi in nome dell’America First, ben più bipartisan di quanto i commentatori nostrani vogliano accettare. In molti hanno scelto di non capire che la missione civilizzatrice degli esportatori della democrazia era solo la maschera ideologica dietro cui si nascondeva la forza coercitiva che ha garantito la fase ascendente della globalizzazione. Ora che le contraddizioni vengono al pettine chi ha fatto di questa mistificazione il proprio orizzonte strategico si trova spiazzato e confuso.

Questi tre anni hanno rappresentato una débâcle non solo per la classe dirigente europea, ma anche per i movimenti sociali che non sono stati in grado per il momento di prendere l’iniziativa in questa frattura epocale, non hanno toccato palla replicando le divisioni imposte dalla narrativa dominante e lasciando il terreno dell’opposizione alla guerra nelle mani dell’estrema destra, in particolare in Germania.

Trump con una mano bastona il can che affoga dando il benservito alla vecchia Europa, con un’altra sparge ulteriore caos in Medio Oriente e con la terza prova a scomporre il fragile tentativo “multipolarista”. Trump non si è limitato ad aprire le trattative sulla guerra in Ucraina, ma ha affermato che la Federazione Russia dovrebbe essere riammessa nel G7, affermando che la scelta di Obama di escluderla nel 2014 sarabbe stata un errore. Nel frattempo ha chiuso nuovi accordi commerciali con l’India di Modi e ha aperto alla presenza cinese al tavolo negoziale sull’Ucraina.

Squalificare Trump non significa riabilitare l’opzione rappresentata da Biden e dalla dimensione considerata progressista e democratica, anzi, proprio in Europa vediamo come il partito della guerra sia sempre pronto a correre al riarmo generalizzato infischiandosene delle condizioni del proletariato e del ceto medio impoverito che compone la maggioranza dei paesi europei. Davanti alla nuova strategia americana sarebbe ingenuo e cieco cedere alle sirene della democrazia borghese che annaspa su scale diverse ma all’interno di ogni confine.

Parallelamente non è più possibile rimanere sordi alle istanze insite di una composizione sociale allo stremo ma anche capace di porre delle domande, più che in altre fasi storiche, che rimangono inascoltate. Pensiamo al bisogno di dare una lettura politica di parte alle proprie condizioni di vita e di poterla comunicare, trasversale a diversi ambiti in cui si percepisce un’attivazione sociale che oltrepassa i movimenti o chi si pone l’ambizione di esserne avanguardia. Pensiamo alla dimensione lavorativa in crisi produttiva, pensiamo all’ambito ecologico e energetico, pensiamo alla formazione e ai giovani bianchi e non bianchi, pensiamo alle donne che sono costrette a combattere una guerra interna quotidiana. La domanda sociale che si legge tra le righe è una richiesta di solidità e di prospettive politiche, di possibilità produttive e riproduttive che si esplicitano nella pretesa di decisionalità sui propri territori e in una richiesta di sicurezza a cui occorre rispondere disarticolando la proposta ultra-conservatrice e retrograda maggioritaria. Il sentimento antiamericano, non tanto nei confronti dell’amministrazione del momento, ma del modello che incarna in quanto evidentemente in crisi e tradito, si trasforma oggi lasciando trasparire una fase in cui gli interessi di classe tendono a coincidere con interessi “simil-sovranisti”. Il modello in crisi rappresenta l’esplicita volontà di rendere i paesi europei la merce di scambio e la zona di sacrificio per garantire la propria egemonia mondiale, sulla base di questo rifiuto è possibile costruire una rigidità contro il riarmo e la guerra.

A partire dalle necessità implicite e dalle traduzioni concrete di questo passaggio abbiamo l’esigenza di costruire contesti capaci di parlare oltre le nostre cerchie, che non scadano nei purismi ideologici ma che abbiano come obiettivo programmatico la ricomposizione sulla base delle esigenze messe in conflitto tra loro dalla controparte ma figlie della stessa matrice.

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