
Rojava: “Agire da socialisti”. La rivoluzione si muove per abbassare i prezzi
Il cantone di Afrin confina a sud e a est con gruppi islamisti ostili (Is, Arhar ash-Sham, Jabat Al-Nusra) e a nord e a ovest con la Turchia, mentre i cantoni di Cizire e Kobane confinano a sud e a ovest con lo stato islamico, a nord con la Turchia, e a est con il governo regionale del Kurdistan in Iraq (Krg). Il Krg è l’unico governo che permette sporadici passaggi di viveri e materiali dai varchi che controlla, sebbene, da quasi due mesi, abbia completamente bloccato qualsiasi passaggio di uomini e mezzi su richiesta dell’alleato turco. La Turchia, dal canto suo, ha stabilito l’embargo totale. I beni che giungono da lì devono passare, se riescono, nella forma del contrabbando, mentre quelli che giungono dal Krg sono soggetti ad enormi “tassazioni” in nero: ogni funzionario, dall’alto funzionario all’ultimo peshmerga, vuole la sua piccola o grande fetta della torta (alla faccia del “nazionalismo curdo” tanto caro al Pdk). La Hevgirtin è stata fondata due mesi fa con il compito di affrontare i danni economici provocati da questa situazione. “Ognuno dei nostri soci può acquistare una, due o tre quote da 15.000 sterline siriane (ca 30 $). Con la somma accumulata gestiamo noi l’acquisto delle merci dal confine, per eliminare la speculazione di tutti gli intermediari che finora sono esistiti tra il confine e i Suk delle diverse città”.
I costi logistici e di mano d’opera per il trasporto e la rivendita (Hevgirtin distribuisce personalmente i beni al mercato) sono ammortizzati dalla commissione economica del consiglio esecutivo cantonale e dal coordinamento cantonale. “Nella nostra cooperativa lavorano 500 persone, tutti soci, e soltanto in 70 ricevono una paga; gli altri 430 sono volontari”. I salari sono calcolati in modo opposto a come avviene nelle economie liberali: “Chi fa un lavoro di scrivania prende 40.000 Syp al mese, 50.000 vanno a chi si carica i pesi sulla schiena, 60.000 agli autisti che compiono il lavoro più stressante”. I volontari “sono quelli che hanno altre persone che lavorano in famiglia, e vengono a dare una mano. Se però qualcuno di loro ha un periodo difficile, gli diamo quello che gli serve”. Non è un’impresa, né un progetto per accumulare capitali: “abbiamo creato una grande cooperativa per andare incontro alle richieste della gente, che è povera e non può sostenere l’inflazione del mercato nero”. La cooperativa è oggi presente in tutte le dieci province del cantone di Cizire, e a Qamishlo ci sono un migliaio di soci, che sono i proprietari anche dei due depositi e dei due magazzini di smercio che sono stati aperti.
Lavorare qui, dice Nazim, significa fare qualcosa per la comunità, non perseguire un disegno personale: “Gli orari di lavoro vanno formalmente dalle 8.30 alle 12.00, o dalle 8.30 alle 14.00; ma se gli altri vedono che io resto e faccio delle cose, non mi lasciano solo, rimangono anche loro, pure fino a sera”. Le paghe sono fisse, al mese, e non sono calcolate né sull’orario, né su un cottimo: l’idea del Tev Dem, il movimento rivoluzionario che è dietro alla costituzione della cooperativa, è che in essa non si opera per un padrone, ma per il vantaggio delle famiglie, per cui gli sforzi devono essere bilanciati non alla paga, ma all’obiettivo comune. L’adesione alla cooperativa è filtrata da controlli: “Se qualcuno compra quote per fare il venditore o l’affarista, viene espulso immediatamente. Lo stesso vale per chi non lavora, per chi non intende darsi da fare come tutti gli altri”. L’unico incentivo per l’esistenza della cooperativa e per il lavoro al suo interno è quindi quello morale, chiediamo? “Certo” risponde Nazim; e aggiunge: “Il nostro metodo ci consente di contemplare lievi variazioni di prezzo, che mantengono comunque i prodotti molto più economici del solito, e mettere da parte una differenza che possiamo destinare alle comuni, che lo daranno a qualcuno se sta male, se c’è da organizzare un matrimonio in quartiere, ecc.”.
Questo minimo margine di ricavo della cooperativa (rimpolpato dal coordinamento cantonale) potrà essere utilizzato, oltre che per le comuni, per creare centri di smercio e acquistare appezzamenti di terra, in modo da creare spazi per nuove cooperative e creare relazioni tra queste ed Hevgirtin, e tra le cooperative stesse e il sistema delle comuni e delle istituzioni cantonali. “Il sistema confederale fa sì che tutti i pezzi del sistema siano indipendenti e autonomi gli uni dagli altri, ma anche in relazione tra loro. Lo stesso sindacato è in relazione con il Pyd e con il Tev Dem, ma è ciononostante un’entità autonoma”. L’iscrizione al sindacato Hanala è obbligatoria per i soci che decidono di lavorare per Hevgirtin. “Il segretario del sindacato viene da me tutti i giorni a fare delle lamentele su quello che non va bene e su quello che manca, su ciò che è necessario migliorare. Ciononostante, non può interferire con il mio ruolo di coordinatore della cooperativa, così come io non posso interferire col suo”. Una legge che regoli le misure da prendere affinché i lavoratori operino senza rischiare danni alla salute non esiste ancora in Rojava, sebbene sia, dice Nazim, in discussione. “Se vedo che qualcuno sta male o è stanco, in ogni caso, non gli chiedo certo di lavorare”, afferma.
Hevgirtin vorrebbe essere un traino per lo sviluppo economico del Rojava e per il ramo sociale della sua economia, che convive con quello privato preesistente. Il sistema nuovo e quello vecchio sono, in qualche modo, in “competizione” economica, benchè i progetti dei compagni abbiano il vantaggio di essere promossi dalle istituzioni rivoluziarie e disporre quindi di un notevole potere. Hevgirtin sembrerebbe essere in qualche modo un progetto di dirigismo economico e, spiega Nazim, la rivoluzione vuole fare in un certo senso di necessità virtù, trasformando le transazioni speculative del mercato nero (in una situazione critica a causa di embargo e guerra) in transazioni controllate dal movimento, che così può a un tempo abbassare i prezzi e agire da “investitore rivoluzionario” nei territori su cui opera. Se si chiede ai compagni che avviano queste attività quali sono i bilanciamenti e i controlli per evitare che iniziative come questa sfuggano di mano, dando luogo a forme di concentrazione di potere politico o economico, ci si scontra con il livello di approssimazione delle loro risposte, radicato – più che nell’assenza di argomenti – in una sorta di scetticismo politico verso la domanda.
Per persone come Nazim, incrementare il proprio potere o la propria ricchezza grazie al ruolo che si riveste nelle istituzioni sarebbe, sembra, fonte di genuina vergogna, e di nessun reale vantaggio esistenziale. I quadri della rivoluzione in Kurdistan hanno rinunciato a tutto per la causa, comprese la certezza di restare in vita e qualsiasi comodità; e non divengono tali, e non assumono incarichi, se non hanno prima attraversato volontariamente condizioni estreme di sopravvivenza, isolamento, clandestinità e sacrificio. Se ciò non li rende al di sopra da ogni tentazione egoistica, ne fa persone comunque diverse dagli imprenditori e dai menager cui siamo abituati quando si parla di economia. L’idea che un processo di sviluppo e organizzazione economica si basi sulla buona volontà dei suoi attori, come sembrano presupporre Tev Dem e Hevgirtin, appare quindi certo assurdo nel quadro dell’ideologia liberale, ma la scommessa del partito rivoluzionario curdo è rovesciare, in Rojava, l’antropologia hobbesiana che si cela dietro il liberalismo nella pratica, formando schiere di militanti che rappresentino un’eccezione ruspetto alle pretese di astorica universalità di questo genere di concezioni.
Il militante dell’organizzazione è tenuto a far propri i contenuti della perwerde, “educazione politica” che teorizza la contrapposizione, proposta da Ocalan, tra etica e dominio: la prima orientata all’assunzione di responsabilità sociali, il secondo al parassitismo individualistico a danno dei propri simili. Assumere concretamente questo punto di vista e questa inclinazione etica è considerato presupposto ineludibile per avere un ruolo nelle iniziative istituzionali del Rojava, anche economiche. “Molte persone non si fidano a entrare in una cooperativa, a mettere la loro quota, perché hanno paura di essere ingannati: dicono di essere troppo ignoranti per capire” racconta Nazim; e ci sono donne, dicono le compagne, che neanche accettano il salario o i dividendi della cooperativa, convinte che soltanto gli uomini siano in grado di amministrare il denaro. Il popolo, spiega tanto Nazim quanto le compagne, non può agire completamente da solo: “Noi mettiamo la nostra esperienza al servizio della collettività, producendo iniziative, trasmettendo competenze e instillando fiducia, affinché i progetti poi marcino da soli”; e una volta che un progetto marcia con le sue gambe, non si stancano di spiegare, si considereranno liberi di andare a crearne un altro. “Insomma – sorride Nazim nel salutarci – cerchiamo di agire da socialisti”.
Dall’inviato di Radio Onda d’Urto e Infoaut a Qamishlo, Rojava
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