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Socializzazione della Finanza e Crisi Economica Globale

Intervento di Raffaele Sciortino a Not [Net] Working, ciclo di seminari autogestiti curato da Info Free Flow assieme al Collettivo Universitario Autonomo di Bologna.

Ripercorreremo la storia delle condizioni, principalmente quelle “geopolitiche”, che dagli anni ’70 in poi hanno di fatto permesso che l’economia mondiale si regga sul debito – o meglio sulla creazione continua di circuiti di credito-debito che ormai si intrecciano e coprono tutto il globo – e che quindi mostrano come non solo non si possa tornare indietro, ma anche come sia assurdo pensare oggi di distinguere tra economia cosiddetta “reale” ed economia finanziaria in quanto speculativa – un’escrescenza che si potrebbe, se non tagliare, almeno in qualche modo regolamentare.

IL QUADRO: INDEBITAMENTO E “TOXIC ASSET” NEGLI USA

La goccia che ha fatto traboccare il vaso, lo sgonfiamento della bolla dei mutui subprime, è partita dalla tarda primavera-estate 2007, due anni fa. Per inciso, trattandosi di mutui sulla casa a tasso variabile erogati perfino a chi non presentasse i requisiti minimi per ripagarli, e scattando la loro prima rata proprio dopo il secondo anno, la loro insolvenza potrebbe produrre ulteriori ripercussioni negative a breve. Come in una piramide finanziaria rovesciata che regge sul vertice, dallo sgonfiamento della bolla dei mutui subprime, relativamente piccola rispetto alla massa di valori cartacei e titoli sulla ricchezza futura (una “polizza sulla vita futura”, sulla produzione della gente che non verrà mai ripagata) parte una dinamica di credit crunch: le banche iniziano a registrare perdite, e si innescano da parte loro sfiducia e reticenza nell’erogazione di credito, che anzi tentano di recuperare. Da qui si passa al crollo dei prezzi di case ed azioni, poi ad un ulteriore crollo dei valori immobiliari fino ad arrivare alla cosiddetta “economia reale”. Crollano – o comunque subiscono un grosso colpo – prima il commercio mondiale e la produzione manifatturiera in senso lato, poi quella di conoscenza ed i consumi: inizialmente ciò accade negli USA per poi estendersi al resto del mondo. Nonostante si dibatta oggi sul se si sia toccato il fondo (e se quindi non ci si possa che riprendere), il problema è un altro: è che il sistema bancario e finanziario mondiale, ma soprattutto quello statunitense, è insolvente, ha una marea di debiti. Cosa ha fatto la Federal Reserve, la banca centrale americana per coprirli? Ha immesso liquidità, “stampato” una quantità di denaro quasi pari al PIL USA di un anno, mentre l’amministrazione Obama ha effettuato valutazioni sulla tenuta delle maggiori 19 banche statunitensi (di copertura pari al 70% del settore) in base alla loro capitalizzazione: i cosiddetti “stress test”. Economisti sia liberal che conservatori sostengono che questi test non siano seri e che coprano l’insolvenza di fatto delle banche. Ancora più preoccupante è il fatto che Wall Street tenga ancora in mano le redini del potere, e l’amministrazione Obama non riesca ad effettuare una vera ri-regolazione: Wall Street sta infatti semplicemente cambiando i parametri formali della contabilità. Se ad esempio una banca ha degli asset (riguardo cui non si parla più di Toxic Assets ma di Legacy Assets, asset “lasciati in eredità”), cambiando i criteri di contabilità si riesce a far apparire come non in perdita qualcosa che invece di fatto non vale più niente. Il Piano Geithner della scorsa primavera affiancato a questi stress test – cioè il “bail-out”, il salvataggio delle banche – è in perfettissima continuità con il piano Paulson della precedente amministrazione Bush (vedi: la-prima-crisi-veramente-globale  –  crisi-globale-fase-ii-obama-e-la-cina) e serve come una sorta di escamotage tecnico per non chiedere più soldi al Congresso e non far insorgere il contribuente. Nei fatti però è proprio quest’ultimo (che definiremo meglio più avanti) a sovrapagare gli asset senza valore. Riepilogando: l’indebitamento statale degli USA sta salendo vertiginosamente perché essi stampano moneta, immettono liquidità, e lanciano piani di salvataggio. Anche l’Unione Europea si trova in difficoltà. Nonostante l’iniziale ottimismo rispetto alla crisi da parte della Germania, forte della propria manifattura, i problemi nel sistema bancario tedesco – e quindi europeo complessivo – restano; per non dire di quelli della Gran Bretagna, dell’Islanda e dell’Europa dell’Est (in quest’ultimo caso, fallimenti generalizzati andrebbero a colpire le posizioni di San Paolo e Unicredito). Le elite non sanno come reimpostare un modello di crescita. Ammesso che ciò sia possibile, non si tratterà di un processo indolore. L’establishment finanziario e bancario non vuole svalutare più di tanto i propri asset, perché ha capito che può manovrare anche Obama, che la UE ha problemi di leadership centralizzata e che se la Cina non finanziasse gli Stati Uniti questi non le comprerebbero le merci, ed essa non potrebbe mantenere livelli di crescita nell’ordine del 9-10% annuo – per noi pazzeschi, ma per essa minimi necessari per assorbire i 7-800 milioni di contadini migranti nelle città cinesi che altrimenti significherebbero gravi ripercussioni sociali per il paese, nell’immediato. La Cina a sua volta alza la voce e dice agli Stati Uniti: state vivendo oltre i vostri limiti, dobbiamo pensare insieme ad una moneta mondiale, che non sia il dollaro. Ma non può nell’immediato cambiare modello di sviluppo, basato sull’export. La Cina pensava che gli USA potessero tenere maggiormente la situazione sotto controllo: la sua strategia dai tempi di Deng era: noi cresciamo pacificamente, “nascondendoci” e poi emergeremo. Ma nel frattempo, e paradossalmente, la Cina per rafforzarsi ha avuto bisogno di mantenere la cooperazione con l’occidente, pagandola col valore prodotto dai propri lavoratori e lavoratrici. Secondo riepilogo: l’attuale sistema di crescita legato al debito statunitense e, a cascata, a circuiti deficitari complessivi non regge, è instabile per natura. Può ricreare un po’ di crescita ma deve farlo ricreando un’altra bolla (e non a caso si parla infatti di green economy).
L’establishment finanziario statunitense, e non solo, non ha intenzione di svalutare perché ha capito di avere ancora le leve del potere in mano. Mantiene titoli cartacei che non valgono più niente, aspettando che gli stati glieli paghino e se li deve veramente liquidare aspetta di poterli scaricare su soggetti come il contribuente statunitense, e più in genere su chi lavora e chi aveva immesso la prospettiva del proprio futuro e la propria riproduzione sociale sui mercati finanziari. Una presa di coscienza e percezione di sé dei ceti medi, già toccati dalle truffe di Enron e Parmalat, e che negli USA stanno vedendo evaporare le proprie pensioni (dinamica che Obama, in una prospettiva socialdemocratica e riformista, potrebbe adoperare contro l’establishment finanziario per salvare il sistema) è ancora tutta da vedere.

CRISI DEL “KEYNESISMO” FINANZIARIO

Gli sviluppi della crisi non sono al momento prevedibili – anche perché il tutto non si può leggere come un quadro strutturalista, in cui il conflitto viene dopo, a margine e su questioni redistributive: non è affatto così, anzi il conflitto è centrale. Si può invece dire che: – Non c’è alcun ritorno al keynesismo di vecchio stampo, tipo New Deal. Obama non sta attuando un sostegno forte della domanda per spese sociali e investimenti produttivi pro-occupazione. – L’amministrazione Obama è ancora nelle mani di Wall street: nonostante cerchi di differenziarsi da quella Bush, in politica interna ed estera, i problemi rimangono. Si rischia che si riformi una bolla, o che l’economia non riparta causa l’indebitamento. – Si profilano ombre sul futuro del dollaro, rimasto lo strumento fondamentale del comando statunitense sul circuito globale della produzione e della finanza negli ultimi trent’anni. Chi sperava che l’Asia emergente potesse salvare il sistema per il cosiddetto “decoupling” – la capacità di un attore economico in crescita di “sganciarsi” dalle ripercussioni sui mercati mondiali dei problemi statunitensi – si è sbagliato perché l’economia è diventata un’economia del debito incentrata sugli USA, e sul consumo statunitense basato sull’indebitamento; paesi come Cina, Giappone e Corea del Sud che hanno tirato la crescita dell’ultimo decennio, e che presentano un surplus commerciale, sono sussunti da questo meccanismo finanziario. Tale surplus viene immediatamente reinvestito dalle banche centrali asiatiche sui mercati finanziari con l’acquisto di titoli statali USA – soprattutto buoni del tesoro, i “treasury bonds”, e degli enti parastatali che garantiscono i mutui – come Fannie Mae e Freddie Mac. Lasciando fuori i petrodollari (la rendita petrolifera che viene tutta risucchiata dalla City di Londra e dalla stessa Wall Street) entrano ogni giorno negli Stati Uniti con questo meccanismo più di 2 miliardi di dollari, che vanno a finanziare la domanda che dovrebbe reggere questo meccanismo di consumo per cui il consumatore USA sovraindebitato acquista le merci prodotte dalle multinazionali statunitensi nell’Asia orientale, alle condizioni che sappiamo.
Quello in crisi oggi è un “keynesismo” (il termine può indurre alla confusione) di tutt’altro genere, di tipo finanziario: non più spesa sociale, aumento di salari, tassazione di profitti…ma deficit spending tutto basato sull’indebitamento come prelievo sulla produzione di ricchezza in gran parte fuori dagli Stati Uniti, soprattutto in Asia orientale, come base di un “nuovo” patto sociale costitutivamente fragile (come si vede oggi). Tale triangolazione, assieme a tante altre minori basate sui circuiti deficitari – di commercio-surplus-deficit – e su quelli finanziari – di bilancia dei pagamenti – ha retto fin dal ’79-’80, pur in maniera instabile, l’economia e la crescita, le bolle speculative, di borsa, immobiliari e perfino il keynesismo militare: la guerra in Irak è stata pagata in questo modo dalla Cina, dal Giappone ed in parte anche dall’Europa. Quando viene messo in crisi questo sistema a partire dalla coda, dal consumatore spaventato ed indebitato statunitense, viene meno il “driver” fondamentale della domanda mondiale: se esso non può più essere il consumatore USA, allora chi può essere? O si richiude il circuito della produzione ormai globalizzata e finanziarizzata, o la ripresa non potrà che essere asfittica, ammesso che possa aversi in tempi brevi.
In aggiunta a tale problema fondamentale: che fare del dollaro? La Cina inizia ad avere problemi in merito, perché l’altro meccanismo finanziario complementare è l’accumulo pazzesco di riserve in dollari da parte sua e di altri paesi asiatici: dollari che se dovessero corrispondere a qualcosa di “reale” andrebbero fortemente svalutati. Non si tratta di fantascienza perché negli anni ’70, gli Stati Uniti fecero esattamente questo: svalutarono enormemente il dollaro e lo sganciarono dall’oro, e si ebbe la fluttuazione dei mercati dei cambi e l’incremento dell’inflazione (fenomeno peraltro non solo monetario), e l’aumento del prezzo del petrolio. Infatti, tramite il deficit di bilancio USA (pur in misura limitata rispetto a oggi) e tramite altri meccanismi finanziari della prima Bretton Woods, tra gli anni ’60 e inizi ’70 era stata messa in circolazione una bolla di petrodollari ed eurodollari sulle piazze finanziarie mondiali.

GENESI DI “BRETTON WOODS II”

Ripercorrere la genesi dell’assetto odierno, che si potrebbe chiamare della “Bretton Woods II”, ci aiuta a mostrare come è strutturato, evidenziandone anche l’estrema precarietà ed instabilità, e si accompagna ai processi di trasformazione della composizione di classe, in Occidente e non. Ancora, non si tratta di un quadro essenzialmente strutturale, in cui il conflitto è assente: anzi, questo percorre e permea il tutto, sia con il lungo ’68, sia quando esso non si dà immediatamente alla superficie. In estrema sintesi, visto cosa rappresenta oggi questa Bretton Woods II, bisogna tornare a ritroso fino all”89 – all’apertura degli anni ’90 che vedono il cambiamento totale del quadro geopolitico e alle basi di ciò negli anni Settanta. Perché è caduta l’URSS? Al di là dei limiti oggettivi del socialismo reale, a partire dalla sconfitta statunitense nella guerra del Vietnam (picco delle lotte di decolonizzazione, con grossi agganci al lungo ’68 in Italia e non solo) i repubblicani di Nixon prendono atto dei propri limiti e, nello scacchiere est-asiatico di confronto della guerra fredda, avviano il “rapproachment” con la Cina di Mao. Finisce l’ostilità reciproca, rimpiazzata da una tacita alleanza che permane tuttora: non in termini militari e politici, ma finanziari ed economici (termini alla base del cosiddetto “G2 informale” di USA e Cina oggi) e rivolta contro l’URSS – che negli anni ’60 e ’70 anche sulla base della raggiunta “parità strategica” nucleare sembrava in ascesa nei teatri del Corno d’africa, Angola, Cuba e Medio Oriente ed in grado di fare da sponda al movimento di liberazione anticoloniale – costringendola alla difesa su due fronti. Non a caso gli anni ’70 si chiudono con l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’URSS, “imperialista” e “difensiva” al tempo stesso nel quadro del “triangolo strategico” Usa-Urss-Cina, che apre il grande gioco degli Stati Uniti e di una Cina loro tacita alleata. L’amministrazione repubblicana di Reagan – dopo la “debole” parentesi di Carter con la politica filocinese appoggiata dal Pentagono e dal consigliere per la sicurezza nazionale Brzezinski (già falco anti-URSS e autore della strategia delle provocazioni che portano all’invasione dell’Afghanistan, oggi consigliere di Obama) che porta al riconoscimento ufficiale della Cina – fa fronte con la Cina contro l’URSS, rafforza l’alleanza con la monarchia saudita reazionaria finanziando la guerriglia islamista, corsa al riarmo, ecc. Un insieme di dinamiche che l’URSS non può sostenere, e che portano al suo crollo. Questo è il quadro complessivo, con il riavvicinamento della Cina maoista e poi denghista negli anni ’70 agli USA che ha fornito la condizione geopolitica in grado di sostenere la ripresa degli Stati Uniti dalla guerra in Vietnam e dalla fine dell’assetto di Bretton Woods I. Cosa si può dire su quest’ultimo aspetto?

NIXON SHOCK

Nel 1971 Nixon era stato costretto a sganciare il dollaro dall’oro, portando alla fluttuazione ed una notevole svalutazione del biglietto verde. Cos’era successo? La conferenza di Bretton Woods del 1944 vede l’imposizione del signoraggio del dollaro su un’Europa occidentale distrutta e divisa, il piano Marshall del ’47 garantisce il predominio statunitense su di essa. Quando l’Europa occidentale si riprende, e con essa il Giappone (quest’ultimo con la ristrutturazione produttiva toyotista, resa possibile dalla sconfitta del conflitto operaio nei primi anni ’50 che porta alla normalizzazione delle fabbriche: nesso lotta-ristrutturazione), inizia a essere messa in discussione la primazia economica degli Stati Uniti, la cui bilancia dei pagamenti inizia ad andare in deficit già a fine anni ’50. Con la guerra di Corea del ’50-’53, il riarmo anche nucleare e, soprattutto, la guerra del Vietnam, da Kennedy in poi viene messo in atto un fortissimo keynesismo militare. Parallelamente, esplodono le rivendicazioni del movimento dei diritti civili, della classe operaia bianca, dei neri e degli studenti. Gli enormi deficit militari e in spesa sociale che si aprono producono il deficit statunitense, mentre le corporation USA investono massicciamente all’estero a suon di dollari, facendo più profitti lì che in patria. Da qui iniziano il downsizing, la relativa deindustrializzazione degli USA e la creazione di una bolla di dollari al loro esterno: prima eurodollari, poi petrodollari (quando sale bruscamente il prezzo del petrolio) che iniziano a fluttuare sui mercati finanziari e spingono per la deregolamentazione, la fine del keynesismo e del compromesso postbellico tra classe operaia fordista occidentale in lotta da un lato e stati del welfare dall’altro. Bretton Woods I finisce perché Nixon, davanti all’indebitamento USA ed al rischio di crollo del dollaro preferisce gestire da sé tale situazione e, facendo svalutare il dollaro sganciandolo dall’oro, svaluta il proprio debito facendolo ripagare a Germania, Giappone ed Europa. L’inflazione cresce di colpo, e con essa il prezzo del petrolio: la rendita petrolifera (non avendo i paesi OPEC innestato un ciclo industriale autonomo di investimenti) finisce a Wall Street e nella City. L’aumento del prezzo del petrolio sottrae risorse a chi non lo possiede (ancora Giappone ed Europa, altro travaso di capitale verso gli Stati Uniti) e gli USA riescono a riprendersi economicamente dalla sconfitta del Vietnam.

L’INFLAZIONE NEGLI ANNI ’70

Anche se il tema è controverso, l’inflazione degli anni ’70 ha rappresentato una risposta alla crisi di profittabilità del capitale ma anche, provvisoriamente, la continuazione del compromesso sociale – pur basato sulla forte conflittualità insorta negli anni ’60 (in Italia da Piazza Statuto in poi) – quando le condizioni non lo permettevano più. Da un lato i molti dollari stampati permettevano agli USA di non pagare debiti e di erogare salario diretto ed indiretto aumentando i deficit pubblici – cresciuti notevolmente in occidente dagli anni ’60 in poi laddove in precedenza erano bassi e ben governati – mantenendo il compromesso sociale. Invero l’inflazione svaluta il salario ma, con una conflittualità basata su di un tipo di composizione tecnica e di produzione fondamentalmente rigida, le lotte operaie riuscivano a recuperare abbastanza bene (cosa ora inconcepibile con la flessibilizzazione e la digitalizzazione) ed insieme ad esse, con l’ampliamento della spesa pubblica, anche i movimenti dei diritti civili e delle donne. L’inflazione è servita a svalutare il dollaro mantenendo la sfera del controllo saldamente nelle mani degli USA perché non c’erano alternative – né da parte europea, né militare, né del socialismo reale. Ma a fine anni ’70 l’inflazione diventa un rischio altissimo per i capitali finanziari, in particolare per quelli che iniziano a transnazionalizzarsi e sono legati direttamente a Wall Street ed allo stato USA; quasi scavalcando gli altri stati nazionali, la cui decadenza (non scomparsa) e ristrutturazione in fase di globalizzazione è stata anticipata da queste dinamiche. Rischi ed ostacoli dell’inflazione per i profitti si riassumono in: 1) Inflazione produce incertezza, perché non si sa ancora se con i cambi fluttuanti giorno per giorno si possa perdere o guadagnare. 2) Classe operaia che prima della ristrutturazione postfordista recupera facilmente con il conflitto. 3) Lotte, riproduzione, aumento livello sanità e spesa sociale – che comportano altre detrazioni sui profitti. Quando il presidente democratico Carter chiama alla Federal Reserve Volcker – un monetarista, ora coincidenzialmente a capo del Consiglio Presidenziale per la Ripresa Economica dell’amministrazione Obama – per discutere l’azzeramento dell’inflazione (ai fini di bloccare il lungo ’68, tagliare le gambe ai sindacati dell’auto in USA ed alle insorgenze degli operai-massa nel resto del mondo ed evitare la fuga sui mercati dal dollaro eccessivamente svalutato) anche i capitali finanziari fluttuanti – la global class embrionale – pongono l’aut-aut a Washington. Non è quindi lo stato che impone: esso è piuttosto lo strumento della nascente borghesia transnazionale (da non intendersi come blocco unico, perché in contrasto al suo interno, ma che è accorpata attorno al polo USA). Quindi il massimo stato nazionale, gli USA, deve tenere conto del capitale transnazionale e di quello finanziario, con il dollaro come punto di incontro. In tal modo viene creata una recessione ad arte, durissima: vengono alzati i tassi di interesse fino al 20%, si tagliano le gambe a tutti i nemici precedentemente individuati e si impongono il reaganismo ed il thatcherismo. E’ Reagan ad ampliare a dismisura i deficit statali: da lì in poi, gli USA diverranno il massimo debitore mondiale, condizione da cui non torneranno più indietro. Si amplia contestualmente la spesa militare con la corsa al riarmo che contribuisce al crollo dell’URSS; verrà leggermente ridotta da Bush padre, ma pur sempre mantenendosi ai livelli della seconda guerra mondiale. Le elite fanno definitivamente i conti con la composizione di classe fordista; inizia così la fine del vecchio movimento operaio, il cui tipo di produzione viene delocalizzato in Asia orientale – attorno al circuito giapponese ed a quello cinese, in cui contestualmente vengono attuate le riforme di Deng. Il cerchio sembra chiudersi… a spese del “lungo ’68” mondiale.

LE RELAZIONI SINO-AMERICANE E NUOVO “NEW DEAL”

Queste riforme non vengono interrotte dai fatti di Tienanmen, bensì incentivate. Ai tempi di Bush padre, nonostante la critica pubblica mossa dagli USA alla Cina rispetto della mancanza di democrazia e della repressione al suo interno, le viene assicurata in privato la continuità, con un ulteriore accentuamento nel post-’89 del ruolo di opificio mondiale del paese asiatico. Vi si assemblano prodotti di basso-medio livello tecnologico provenienti da altri paesi estremo-orientali; vi si importano le macchine dal Giappone; si esportano le merci negli USA e nell’UE, vendute tramite multinazionali della distribuzione come Wal-mart in un circuito veramente globale. Queste multinazionali iniziano a fare profitti direttamente sulla circolazione, il che non vuol dire che quest’ultima diventi immediatamente produttiva, ma che la leva finanziaria, il dollaro, il controllo dei circuiti di anticipo e circolazione del capitale e tutti i meccanismi della distribuzione permettono di ridurre il valore aggiunto destinato ai produttori. Quello della Cina è uno strano fordismo, sussunto dai meccanismi finanziari e dal controllo tramite dollaro e indebitamento statale Usa, portato avanti dal knowledge worker della finanza, e combinato con forme di produzione pre-fordiste, imprese familiari a rete (come per le comunità cinesi d’oltremare), ecc. Apriamo una “parentesi” sugli aspetti di classe che questa situazione riconfigura. La composizione di classe mondiale si va a stratificare in una catena del valore interconnessa: il comando diventa “integrato”, e lo spettro varia dal lavoro integralmente schiavistico a quello creativo-artistico del migliore dei lavoratori della conoscenza. Anelli estremi di una catena che si regge sui circuiti finanziari e sulla bolla finanziaria che ha iniziato a crescere incredibilmente proprio con Reagan. Quando si parla di keynesismo finanziario negli USA – sul versante della riproduzione sociale: indebitarsi per iscriversi all’università, investire i propri risparmi nei fondi pensione, in borsa e nelle assicurazioni mediche, legare insomma la riproduzione della propria vita e di quella della propria famiglia in tutti i sensi ai mercati finanziari – è chiaro che per tutta una certa fase, soprattutto negli anni ’90 della globalizzazione ascendente e clintoniana, esso ha goduto di un reale consenso nella middle class, sulla spinta della trasformazione della composizione di classe avvenuta durante il periodo reaganiano e della passività degli strati proletari. Cosa è successo? E’ tramontata la composizione sociale ed elettorale “new-dealista”, quella da Roosevelt a Johnson (e che non a caso Carter non è riuscito più a rieditare), anche a seguito della stessa pressione esercitata dalle lotte della working class bianca, ma soprattutto dei neri, degli studenti e dalle donne che avevano lottato sui diritti civili, sulla guerra e sulla riproduzione appunto per farsi corrispondere lavoro non pagato ecc. Ma intanto cos’era successo ai salari diretti? Mentre dal New Deal fino agli anni ’70 il “male bread-winner” bianco (che portava a casa uno stipendio o salario sufficiente alla famiglia con il suo solo lavoro) bastava per mantenere la moglie casalinga ed i figli (che iniziavano a potersi permettere il college), dagli anni ’70 in poi progressivamente moglie e marito, compagno o compagna o comunque l'”household” familiare necessitano di due lavori: occorre indebitarsi per andare al college piuttosto che per curarsi e così via. E’ questa la base su cui il capitale, attaccando la vecchia composizione di classe, è riuscito a collegare il salario diretto ed indiretto (quindi la riproduzione) ai mercati finanziari. Paradossalmente, la finanziarizzazione dell’accumulazione capitalistica diviene la condizione di possibilità anche della realizzazione diffusa dell'”esodo” dal lavoro salariato frutto delle lotte degli anni Settanta (v. genesi del lavoratore della conoscenza), e viceversa ovviamente. Forte di questo tipo di consenso degli anni ’90 si è tentato un “nuovo new deal” a suo modo anti-statalista (nel senso liberista), servendosi all’occorrenza dell’unipolarismo statunitense e delle guerre umanitarie nella speranza di nuova fase capitalistica ascendente, un nuovo ciclo che andasse oltre il fordismo, stabilizzandolo. Tuttavia la pressione, cioè la presenza dei soggetti sociali e delle classi lavoratrici in senso lato, era all’opera anche in quel contesto: un’inedita presenza della “classe” nel capitale, anche con la proletarizzazione dei ceti medi che si dà nella forma della finanziarizzazione della vita (più che in quelle “canoniche” dell’impoverimento assoluto). Si tratterà di vedere, domani, come la nuova composizione sociale si ridislocherà al momento di prendere atto che con la crisi globale il “deal” è fallito.

NO GLOBAL

Nel frattempo, assieme alla distruzione del vecchio movimento operaio ed alla finanziarizzazione del ciclo di accumulazione, sale l’indebitamento del terzo mondo tramite il meccanismo del prestito internazionale. Si inizia a creare questa bolla, per cui si preda valore mercificando la riproduzione, delocalizzando la produzione, facendo outsourcing oppure rubando risorse naturali ed umane, con le esternalità negative connesse – e da lì cambia il ruolo del FMI della Bretton Woods I, che in principio doveva mettere in ordine i deficit reciproci tra paesi occidentali. (La Cina partecipa in modo peculiare a questo ciclo perché il capitale occidentale, oltre a predare valore prodotto in quel paese, rende compartecipe l’elite cinese allo sfruttamento della propria massa operaia e contadina, con gli effetti che vediamo oggi). Partono i piani di aggiustamento strutturale contro il Sud che lo porteranno al disastro – al deserto visto in Argentina, che negli anni ’50 toccava livelli di sviluppo paragonabili a quelli italiani. Il no global nasce lì, nelle risposte di fine anni ’80 ed anni ’90 contro il FMI, come ci mostrano i film di Fernando Solanas. A Seattle viene fuori un movimento nuovo, non sull’onda della decolonizzazione come nel ’68: il sud del mondo, raggiunta l’indipendenza, intraprende percorsi eterogenei. Utilizzando la terminologia di Wallerstein ed Arrighi, la periferia si sfrangia nel senso che, mentre un certo sud come la Cina ed altri paesi del sudest asiatico si integra nell’economia globale, un altro – l’Africa – ne viene tagliato fuori. L’India si trova nel mezzo perché appoggiandosi agli Stati Uniti, ma priva di una rivoluzione contadina democratica come avvenuto in Cina, affronta maggiori problemi nell’industrializzarsi. Occorre una lotta di tipo nuovo, e l’America Latina in ciò è avvantaggiata perché riesce a sfruttare contro le forme più alte di sviluppo della globalizzazione il comunitarismo indigeno progressivamente e non reazionariamente. Lì si iniziano a trovare quegli spunti, coalizioni, accordi che porteranno a Seattle, Genova ed oltre. Ma il tutto finisce a Bombay, non a caso punto di incontro e crinale della globalizzazione filoccidentale e dell’antiglobalizzazione rappresentata da attivisti come Arundhati Roy. Il no global si ferma lì, e non può parlare alle classi lavoratrici cinesi ed est-asiatiche, proprio perché il tipo di sviluppo e di intreccio con la globalizzazione targata USA che coinvolge queste ultime (attraverso la classe borghese cinese) è differente dalle problematiche del movimento no global di qui. Punto di domanda: cosa faranno queste classi lavoratrici, come soggettività potenzialmente antagonista? Stanno già lottando, e su questo è interessante tutta l’analisi di Arrighi e di Beverly Silver. Ma quale rapporto si dà tra lotte operaie e sviluppo cinese? E’ tutto oggetto di ricerca…

PROFITTI, PRODUZIONE, DEBITO

Altro punto di domanda: perché negli anni ’90 assistiamo a profitti reali pazzeschi pur in presenza di un’accumulazione – tolta la crescita asiatica – abbastanza asfittica (aumenti del PIL nell’ordine dell’1-2% annuo in occidente)? Si può dare una risposta tradizionale, come fanno la scuola regolazionista francese e Le Monde Diplomatique: sono profitti di carta, la produzione reale è surclassata dalla speculazione. Così, a loro dire, ci si potrebbe salvare trovando un nuovo compromesso sociale, una nuova regolazione. Questa intellettualità francese di sinistra si è spinta fino a proporre un protezionismo anticinese e pro classe operaia, ed in ciò simile ai discorsi di Tremonti. Perché? Perché, a loro dire, non solo i cinesi fanno precipitare i nostri salari perché producono a meno, ma investono il mondo dei loro risparmi, diventando responsabili della creazione della bolla. In parte questo discorso viene ripreso anche negli Stati Uniti tranne che da parte dei più intelligenti, i quali sono ben consci che le cause sono altre: però si cerca sempre qualcuno su cui scaricare la colpa. E’ una risposta che dobbiamo iniziare ad aspettarci, paradossalmente con una sponda a sinistra, da una parte del vecchio movimento operaio. Come dire: difendiamo i nostri lavoratori, la colpa è della Cina. In merito a questo, dovremmo iniziare a discutere di come la soggettività (anche quella non antagonista) si dislocherà. Si può anche rispondere da un punto di vista critico, neomarxista. Da un lato con il capitalismo cognitivo, o più precisamente il biocapitalismo che comporta sussunzione reale: tutta la vita, il tempo di lavoro, la natura, la riproduzione viene messa a valore con le ripercussioni che sappiamo. Si possono allora spiegare questi enormi profitti in presenza di un’accumulazione asfittica perché il paradigma è cambiato, e non è più quello fordista ma quello cognitivo. Dovremmo cambiare gli indici: si accumula sulla vita, sulla conoscenza, sul cervello e così via. Ad esempio Christian Marazzi prospetta una crisi profonda e strutturale, ma di contro proprio su questa base interpretativa si potrebbe pensare che la crisi sia di passaggio, che il capitalismo e l’elite abbiano bisogno di una regolazione adeguata al capitalismo cognitivo, al nuovo paradigma di produzione e di accumulazione (nelle analisi postoperaiste appaiono entrambe le versioni). Anche in quest’ultimo caso non sarebbe comunque un passaggio indolore, e si potrebbe aprire un varco per l’opzione antagonista, riprendendo le lotte attorno al nuovo (vero) new deal, al welfare, al reddito di esistenza, ecc. Sono tutti problemi da porsi, perché ognuno di questi avrà una ripercussione sulla mobilitazione delle soggettività antagoniste. Sicuramente si è aperto un nuovo terreno, e su questo Marazzi ha perfettamente ragione: indietro non si torna. Lottare sulla produzione immediata – cioè contro la chiusura delle fabbriche, per i salari ed i redditi – non è sbagliato, ma non è più lì la leva per cui la lotta diventa potere – un tempo operaio, oggi non più solo esclusivamente tale. Come lottare piuttosto contro il debito, quando i meccanismi di indebitamento ti hanno coinvolto? La lotta diventa veramente sulla vita sociale: non più come quando, con la lotta dell’operaio fordista contro la produzione e sulla produzione, avevamo ripercussioni positive a cascata dalla fabbrica sulla società (per le donne, i movimenti, ecc.). In quella lotta il potere veniva dal salario diretto e indiretto, sulla capacità operaia di imporre un salario più alto con l’organizzazione. Anche in presenza di studi interessanti nel lungo ’68 fino al ’77 e a Bologna, non si è analizzato più di tanto il tipo di produzione – come si produce, per cosa si produce, quando si produce. Pur non volendolo, tutto si risolveva in una lotta di distribuzione (certo antagonista e necessaria in quel frangente) che, in quanto tale, lottava su meccanismi, tempo di lavoro e rifiuto del lavoro, ma che oggi rimane ancora oggettivamente “incastrata” in quei tipi di antagonismo e dialettica. Ora il problema è che quel terreno non c’è più – si provi a lottare in fabbrica: la sola minaccia di delocalizzare fa calare la tensione interna. Cosa sono allora la produzione e la valorizzazione oggi?

IPOTECARE IL FUTURO

C’è a proposito nei Grundrisse una frase di Marx veramente profetica: “La valorizzazione consiste nella possibilità reale di una più grande valorizzazione”. Oggi per produrre valore occorre impegnare il proprio futuro – con il comando sul lavoro, porre il lavoro futuro come lavoro salariato, servile, ecc, nelle forme del lavoratore della conoscenza, del fordismo sussunto e di tutte le altre. Paradossalmente il capitale fittizio e finanziario è una polizza sul futuro che diventa condizione del presente – che non a caso è lo stesso concetto di virtuale. Esso è già effettivo ed ha influenza sul presente e sul reale, cosa interessante rispetto ai processi di astrattizzazione del capitale che sono tutti dentro ai dispositivi della rete. Si guardi cosa stanno facendo Marchionne e il capitale industriale-fittizio non in senso speculativo e reale ma marxiano, tramite titoli cartacei che permettono un prelievo sulla ricchezza del futuro. Cosa gestisce Marchionne? Un’industria con debito fornito dagli stati ma per tagliare posti di lavoro, non per ampliare l’accumulazione industriale. Per mettere su un marchio che valga più degli altri, creare una bolla, far salire i prezzi delle azioni e dei derivati e profittare di tutto ciò. Questo è il più grosso manager della classe transnazionale in Italia. Perché lottare sul nuovo terreno del debito, della vita sociale? Perché la finanziarizzazione come finanziarizzazione dei consumi, del salario diretto ed indiretto, di tutta la produzione è il lato perverso della socializzazione capitalistica del lavoro, che è un lavoro globale in rete, che comporta un altissimo impatto sul globo. Per lottare è come se si dovesse affrontare il rapporto sociale di produzione e riproduzione capitalistico, non la produzione e neanche la riproduzione immediate: per cosa si produce? Come ci riproduciamo in comune? Il capitalismo si riproduce nel comune, ma in un comune distruttivo. Qui c’è la grande potenzialità dei futuri antagonismi e soggettività: in tutta la fase keynesiana e fordista e ancora con il tentato “nuovo new deal” finanziario le elite globali hanno fatto vedere che il capitale si riproduce. In modo ingiusto, ma permettendo intanto la riproduzione sociale dei singoli come uomo, donna,ecc. Ora le due cose si stanno veramente divaricando: come aveva capito per primo il sud del mondo col movimento no global, la riproduzione sistemica è sempre più predatoria e vorace sulla riproduzione sociale complessiva – ed è questa la contraddizione che i nuovi antagonismi hanno il compito di far emergere.

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