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Spagna sull’orlo del baratro a tre giorni dalle elezioni

Ieri, a tre giorni dalle elezioni di domenica, la Spagna si è ritrovata di nuovo – o è stata spinta dagli gnomi senza volto dei mercati – sull’orlo del baratro.

Ieri mattina nell’asta per collocare i 3.563 miliardi i bonos a dieci anni, il Tesoro ha dovuto pagare un tasso del 6.975%, un record negativo degli ultimi 14 anni, un punto e mezzo in più rispetto al 5.4% dei bonos decennali piazzati in ottobre e praticamente sulla soglia di quel 7% indicato come il punto di non ritorno. Subito dopo lo spread è schizzato a quota 499 punti base, un livello mai raggiunto dai tempi della peseta e praticamente a quei 500 punti di rischio-paese, considerati un’altra soglia di non ritorno (anche se, dopo l’intervento massiccio della Bce ha poi chiuso intorno ai 460 punti). Cifre che rimandano alla Grecia e al Portogallo (oltre che all’Italia…) e che costrinsero quei paesi a chiedere l’«aiuto fraterno» della Bce e dell’Fmi.
Insomma, la speculazione ha messo sotto tiro la Spagna – che solo fino a qualche anno fa si vantava di essere un «modello virtuoso» nell’Unione europea, sia dal punto di vista economico (e sociale) che finanziario – in un momento di estrema vulnerabilità non solo per via della crisi globale che sta diffondendosi in Europa come un’epidemia ma anche per il vuoto di potere che si annuncia fra il voto di domenica, l’uscita di scena del premier José Luis Rodríguez Zapatero e dei socialisti, e l’insediamento del nuovo governo di Mariano Rajoy e dei popolari (non prima del 20 dicembre).
Il rischio per la Spagna, e per l’euro-zona, è forte, perché come l’Italia (e la Francia…) e al contrario di Grecia e Portogallo, è un paese e un’economia troppo grossa per lasciarla fallire ma anche per poterla riscattare.
Già lunedi, dopo la sanzione della vittoria – o peggio, del trionfo – della destra, Zapatero dovrebbe dimettersi e per il successivo mese il paese avrà un esecutivo incaricato degli affari correnti. Uno scenario da brividi con gli gnomi senza volto pronti ad azzannare. La Spagna si avvicina all’orlo del baratro, anche se il ministro dell’economia Elena Salgado ha assicurato che Madrid «assolutamente» non ha bisogno di un piano di aiuto esterno e «il nostro debito è perfettamente sostenibile». Ma anche gli altri paesi che hanno dovuto chiedere poi il fatale aiuto di Bce e Fmi assicuravano di non averne bisogno.

Questa volta neanche un tragico colpo di scena come fu l’attentato islamista ai treni di Madrid che tre giorni prima del voto del 2004 rovesciò i pronostici e decretò la sconfitta del destro Aznar e la vittoria a sorpresa del socialista Zapatero, potrebbe probabilmente portare a una «remontada» di Alfredo Pérez Rubalcaba, l’ex-vice-premier e ministro degli interni che si è sobbarcato il ruolo di kamikaze in una campagna elettorale dall’esito scontato e devastante.

I sondaggi danno a Rajoy fra 14 e 18 punti di vantaggio e l’unica speranza di Pérez Rubalcaba, peraltro molto labile, è di riuscire ad evitare che il Partido popular conquisti la maggioranza assoluta alle prossime Cortes che gli consentano di governare da solo senza dover ricorrere ai (costosi) accordi con i partiti regionali. Il futuro premier, che fa il moderato e il centrista rispetto all’ala più di destra e oltranzista del Pp, moltiplica i messaggi verso mercati e partner della Ue.

Garantisce che il suo governo rispetterà gli impegni presi con Bruxelles, il primo sarà quello di ridurre al 4.4% il deficit nel 2012, e promette lacrime e sangue agli spagnoli per rimettere in linea di galleggiamento una barca che rischia il naufragio (e che dopo gli anni delle vacche grasse e della crescita del 3.7% l’anno dall’introduzione dell’euro al 2007, è entrato in recessione e per il 2012 ha già dovuto rivedere al ribasso, più 0.8%, le speranze della ripresa delle crescita). In una intervista a El País di ieri ha assicurato che taglierà «ovunque», meno che le pensioni, e ha garantito che non ci sarà alcun vuoto di potere, grazie al «dialogo fluido» che sta sviluppando con Zapatero dopo anni di opposizione automatica e assenza di dialogo.

di Maurizio Matteuzzi per il Manifesto

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