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Tunisia: salvare l’ambiente è una questione di vita o di morte

Nel sud-est tunisino, a Gabes, l’emblema della protesta attuale è una lettiga azzurra, di legno, quella che serve per trasportare le salme durante i riti funebri. Ma la simbologia religiosa in questi giorni non è importante. Nella periferia di Bouchemma, oggi luogo di uno sciopero generale, si contano morti e malati colpiti dall’emissioni del Gruppo Chimico Tunisino (GCT).

Questo sito industriale tratta i fosfati da ormai 45 anni e la sua azione sul lungo periodo si è dimostrata quanto meno problematica: le acque e le oasi stanno scomparendo, il mare e l’ etere sono inquinati, e di conseguenza un intero ecosistema è stato sconvolto. Il GCT, come quinto produttore mondiale nel suo settore, alimenta una mole di lavoro considerevole tanto da meritarsi un occhio di riguardo da parte del governo tunisino. La sua importanza strategica vale quasi 4.000 salariati, il 3% del PIL e il 10% dell’export (tra fertilizzanti e conservanti).

Quella che però un tempo era una tra le oasi sul mare più grandi del Mediterraneo oggi è una grande città inquinata che è andata sempre più urbanizzandosi in virtù dell’esistenza di questo polo logistico e lavorativo, collegato alle miniere dell’est del paese. Dalla città di Gafsa giungono i fosfati che qui vengono trasformati, con il sovra-sfruttamento delle acque dolci, per poi ripartire in nave e in treno verso il “mercato”. Tra cui quello europeo.

La lotta di chi si mobilita per questa causa non è quindi facile, soprattuto quando molti abitanti dipendono dal GCT: “Gli stipendi dei dipendenti sono molto onerosi rispetto al reddito medio tunisino, e i figli di questi godono di diversi sussidi” spiega una giovane studentessa. Tuttavia il prezzo da pagare per l’intera comunità è molto alto, spesso vale la vita stessa.

Alcune fonti parlano di 13 tonnellate di phosphogypse al giorno che viene versato in mare, ormai diventato di color nero, dove è ovviamente proibito fare il bagno (nel raggio di 10-15 km). I danni collaterali sono la moria dei pesci e delle tartarughe marine (specie molto rara) e parallelamente il crollo della pesca costiera tradizionale. Per gli essere umani la sorte non cambia spiega un taxista: “noi possiamo anche morire in questa lotta, ormai siamo adulti, ma i nostri figli non possono crescere in queste condizioni”. Le persone lamentano da anni casi di fluorosi scheletrica, infertilità e cancro.

Negli ultimi giorni si è così scatenata una grande mobilitazione successivamente al caso di asfissia di tre studenti della scuola elementare di Bouchemma che ha provocato l’ira dei genitori e della popolazione che vive in questa periferia attigua allo stabilimento. L’inalazione è stata causata, spiega il direttore della scuola, da una fuga di gas dal GCT.

Così è stato fissato un ultimatum al 30 giugno 2017: associazioni e collettivi locali chiedono la chiusura graduale o immediata dell’interno complesso e nel frattempo è stato avviato uno sciopero generale con presidio permanente, chiusura dei negozi e blocco delle strade.

“Non c’è lavoro, non c’è supporto medico, c’è solo inquinamento” gridano i manifestanti, rassegnarsi alla lotta è l’unico strumento in mano alla popolazione che non ci sta. Il capo del governo Essebsi, per concludere, in un recente meeting rivolto allo sviluppo nazionale, ha dichiarato in diretta televisiva che farà di tutto, attraverso l’aiuto dell’esercito, per difendere i siti di produzione presenti nel paese (fosfato, petrolio e gas). In nome della sicurezza.

 

 

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