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Un Guatemala violento

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Ancora Guatemala. Riprendiamo questa interessante traduzione apparsa su lamericalatina.net a cura di Manuela Loi, Alice Fanti e Daniele Benzi di un pezzo di Jane Duran estratto da Monthly Review. L’articolo propone una lettura dei conflitti etnici e del colonialismo interno portato avanti nel paese e ci aiuta a comprendere il retroterra delle recenti proteste. Buona lettura!

Sono pochi i disastri etnici degli ultimi decenni che possono essere paragonati, per gravità o per diffusione mediatica, a quelli che hanno coinvolto le popolazioni indigene del Guatemala[i]. La struttura sociale della nazione- la sua gerarchia, guidata da una popolazione dalla pelle chiara, per la maggior parte appartenente al gruppo etnico mestizo che però non si identifica con gli indigeni – la sua storia e le sue piccole dimensioni, lo rendono un luogo di grande importanza per la documentazione e la segnalazione di contrasti e differenze etniche.

Nonostante il Guatemala ricordi apparentemente il suo vicino settentrionale, il Messico, i due paesi non hanno così tanto in comune come si potrebbe facilmente pensare. Si ritiene che la popolazione nativa messicana senza commistioni europee non superi il 10 percento di quella totale. Per contro, in Guatemala, si stima che la popolazione indigena superi il 50 percento. La capacità di parlare spagnolo è attualmente un simbolo di status in Guatemala, mentre in Messico il numero di persone che parlano una lingua nativa è considerevolmente minore.

A causa del suo isolamento, è possibile riscontrare uno scarso sviluppo al di fuori delle due maggiori città, Città del Guatemala e Antigua, e nemmeno qui il livello delle infrastrutture si avvicina, per esempio, alle zone più ricche di molti paesi latinoamericani. La storia degli indigeni del Guatemala è significativa, gli ultimi decenni meritano di esseri raccontati per fare luce sulla violazione internazionale dei diritti e altrettante vergognose costruzioni sociali.

I

Gli indigeni del Guatamela sono stati oggetto di continui attacchi da parte del governo durante la lunga guerra civile del Paese, il cui inizio alcuni fanno risalire agli anni 60 e che si è conclusa appena nel 1996[ii]. Come scrive Brigittine French: “[il dittatore guatemalteco] José Efrain Rios Montt è stato complice di atti di genocidio contro la popolazione Maya durante La Violencia, quando più di 200.000 mila persone sono state uccise dalle forze militari guatemalteche”[iii]. Ciò che rende la situazione guatemalteca insolita, persino se si parla di catastrofi del ventesimo secolo, è la violenza pura e semplice usata nei confronti di donne e bambini, il grado di distruzione di villaggi e territori e la demonizzazione della popolazione aggredita come gente ineducabile e indegna. Sebbene lo status dei nativi in America centrale abbia occupato storicamente il gradino più basso della scala sociale, in Guatemala essi costituiscono da molto tempo la maggioranza della popolazione e sono di gran lunga i più numerosi tra gli abitanti della nazione. Al contrario, come già detto, gli individui di origine europea o di origine mista sono un gruppo molto esiguo in Guatemala.

Così, più che prendere come capro espiatorio una minoranza per i propri fini, il governo del Guatemala ha colpito spietatamente quei gruppi che, presi nell’insieme, costituivano la maggioranza della popolazione. Come sottolinea French: “Rios Montt ha cercato di eliminare dall’organizzazione politica della nazione [gli indigeni] attraverso atroci genocidi per i quali non è ancora stata fatta giustizia nell’era del post-conflitto[iv]”.

Lo stupro e la violenza sessuale sono state le principali forme di tortura impiegate contro la popolazione indigena. In questo contesto, i nativi sono stati femminilizzati mentre l’urbanizzazione e l’eurocentrismo – associati all’uso della lingua spagnola – sono stati categorizzati come maschili. Questo fattore, di per sé, costituisce una caratteristica rilevante in tutti i resoconti sulla violazione dei diritti umani e i fallimenti che si sono verificati. Irene Matthews, così come altri commentatori, indica che i crimini sessuali commessi contro i coniugi delle donne prese di mira siano più elevati in Guatemala che in altri paesi o regioni. L’autrice sostiene quanto sia importante capire questo costrutto nei termini de “La Violencia”: “La violenza specificamente diretta contro le donne sembra (ad alcuni) avere una scarsa rilevanza politica in questo clima di controllo pressoché totale. Ancora una volta, tuttavia, vorrei unirmi all’interpretazione secondo cui lo stupro diffuso rappresenta un segnale”[v].

La storia del Guatemala e dell’America Latina si prestano, purtroppo, a questo tipo di oppressione, ma il Guatemala sembra per molti versi un caso speciale. Il livello di violenza, la sua durata e i deboli tentativi da parte della comunità internazionale di opporsi a questo stato di cose contrastano con l’idea che si sia trattato semplicemente di un altro crimine nel vasto catalogo dei mali umani.

Molti commentatori nativi hanno tentato di fornire ai non addetti ai lavori un resoconto completo delle varie vicissitudini vissute dai diritti indigeni e della loro violazione. Parte del contesto che ha permesso di sostenere un attacco così duraturo contro le popolazioni riguarda la costruzione sociale dei ladinos, la loro storia e varie tematiche trasversali nelle Americhe. Enrique Sam Colop ha segnalato che: “La mistificazione e le opinioni razziste sono presentate persino nelle università e nelle scuole. Gli attuali Maya e tutto ciò che è Maya sono associati al “passato” e all’“arretratezza”[vi].

É molto marcata la tendenza da parte della popolazione più industrializzata e urbanizzata a prendere posizione su tematiche che denigrano la vita e il passato delle popolazioni indigene ed è da attribuirsi alla sequenza di eventi che si sono verificati. Per usare un’espressione alla moda, è come se l’iscrizione di un corpo (inscribing the body, NdT) significasse, nel caso del Guatemala, che tutto ciò che è nativo sia privo di merito, mentre tutto ciò che è europeo sia di grande valore. Anche se si potrebbe essere tentati di dire che questo pensiero affonda le sue radici nella Conquista (e molti sarebbero pronti a rivendicare questa affermazione), ciò che è degno di nota è la lunghissima cronologia durante la quale i modelli di pensiero “dell’epoca della Conquista” siano rimasti persistenti in questa regione dell’America Centrale. Ed è per queste ragioni, secondo Colop e altri, che si sono verificati gli abusi de “La Violencia”, anche perché molti osservatori stranieri non hanno fatto pressoché nulla per fermarla o mitigare i mali sociali che l’hanno preceduta. Un sorta di romanticizzazione degli spagnoli e del loro lascito sono lo scenario indelebile della storia del Guatemala.

II

Sembra esserci un consenso generale tra coloro che seguono la politica guatemalteca sul fatto che l’iniqua distribuzione delle terre e le condizioni generali di salute e di istruzione ne facciano una delle zone più povere e degradate dell’America Latina, ponendola più precisamente alla pari di altri paesi in altri continenti. Nel saggio Guatemala: False Hopes, False Freedom, James Painter scrive che “la risposta dell’Esercito [agli attivisti di sinistra] è stata lanciare una campagna di terrore che non ha eguali per crudeltà (e mancanza di divulgazione) nella storia dell’America Latina”[vii].

Painter ritiene che il numero totale tra morti e desaparecidos si aggiri intorno alle decine di migliaia, se non oltre, e, come altri osservatori, è colpito dalla facilità con cui la costruzione sociale sugli indigeni venga accolta. Sostenendo che i nativi americani fanno “parte della natura”, sono simili a “piante e animali”, i ladinos che forniscono le informazioni agli osservatori stranieri non sembrano in grado di capire che le popolazioni indigene sono costituite da esseri umani cui vanno garantiti dei diritti[viii]. A quanto pare, buona parte delle ragioni che motivano la distruzione e la conseguente espropriazione è da ricercarsi nella giustificazione ad hoc secondo la quale gli indigeni non hanno bisogno o non meritano le loro vite o le loro proprietà. Oltre alla caratterizzazione generale de “La Violencia” da parte degli osservatori esterni, durante questo periodo il Guatemala ha anche conquistato il dubbio primato di aver realizzato, come indica Painter, una sorta di “falsa democrazia”, che la maggior parte dei critici hanno considerato una perfetta messinscena.

L’attuale struttura del paese, descritta in termini geografici, è costituita da grandi proprietà terriere, chiamate latifundios, lavorate dai nativi americani ma sotto il controllo da quello che può essere meglio definito un governo centrale. Molti di coloro che vivono nelle regioni montane raramente si sono allontanati dalla zona in cui abitano e sono pochi i centri urbani. Nel 1992, l’interprete culturale W. George Lovell ha riferito che intere aree del paese erano sottopopolate e sottosviluppate[ix].

Per questo motivo, in aggiunta al razzismo verso la popolazione indigena, si sono verificate gravi violazioni secondo modalità che non sarebbero state possibili in società più industrializzate, o in nazioni con una diversa conformazione geografica. È come se gli indigeni fossero invisibili e, non appena ci si accorge della loro presenza, le loro vite venissero rubate e i loro villaggi distrutti. Gli informatori riferiscono che, nel caso del Guatemala, la migrazione verso le città, altra costante della vita latinoamericana, si è tradotta in sacche di povertà così estreme come in nessun’altra parte del pianeta. Come ha recentemente sottolineato Susanne Jonas, rispetto alle condizioni di sviluppo di qualche decennio fa, “la migrazione verso Città del Guatemala iniziava a ingrossare le barrancas, le baraccopoli dei canali fangosi della capitale[x]”. Chi non le conosce direttamente, può solo immaginare come sia l’aspetto di una tipica barranca in un canale fangoso.

I commentatori notano come sia una caratteristica della vita nei villaggi il fatto che si mantengano aspetti chiave della cultura maya, eppure sembra che questo renda i nativi americani ancor più vulnerabili. La loro cultura si basa sul concetto di fertilità e di ciclicità: molti hanno notato che una parte fondamentale del loro sistema di credenze si basa sull’idea che il “primo padre” e la “prima madre” fossero fatti di pasta di farina di mais[xi]. La vulnerabilità agli attacchi della cultura maya come gruppo, assieme al loro legame verso la terra, sembra solo fomentare ulteriormente coloro che li sfruttano.

Susanne Jonas è probabilmente una delle migliori e complete autrici che ha scritto sull’importanza degli eventi degli anni ‘70 e gli ‘80 e sull’ineguagliabile livello di violenza raggiunto in Guatemala. Scrive: “Non esiste capitolo più doloroso nella storia del Guatemala moderno degli episodi del 1980-1983. A livello umano, ci troviamo di fronte a una carneficina di massa e a un genocidio perpetrato dai nuovi squadroni della morte. Il fatto che questo olocausto sia pressoché sconosciuto e inimmaginabile per la maggior parte dei paesi occidentali, certamente negli Stati Uniti, è una testimonianza dell’“assordante silenzio” sul Guatemala…forse perché si tratta di vittime in gran parte indigene”[xii].

Jonas prosegue osservando che più di 440 villaggi sono stati distrutti e più di 100.000 persone sono state uccise o sono state vittime di sparizione forzata[xiii]. Qualunque sia la fonte delle statistiche -per quanto accurate o imprecise possano essere- una cosa è certa: la violenza in Guatemala sembra essere un caso particolare di rabbia genocida contro la popolazione indigena, con alcune caratteristiche che sembrano essere uniche. La costruzione degli indigeni come subumani non è nuova; ciò che è nuovo è la costruzione sociale combinata con la capacità tecnologica di causare danni irreparabili; in altri casi simili, o l’interpretazione della cultura era in qualche modo differente, o mancava la capacità tecnologica, almeno nel suo senso attuale.

III

Si potrebbe essere tentati di confrontare la situazione in Guatemala con altre situazioni conosciute a livello internazionale negli ultimi decenni, come ad esempio quella del Bangladesh, quando nei primi anni ‘70 stava cercando di rendersi uno Stato-nazione indipendente dal Pakistan. Sappiamo, per esempio, che i punjabi della regione occidentale del Pakistan disprezzavano i bengalesi, e sappiamo anche di molti casi di stupro, di umiliazione delle donne della regione orientale e via dicendo. A causa della brutalità dell’esercito, guidato dall’allora Generale Yahya Khan, si potrebbe voler paragonare l’insieme delle circostanze in Guatemala con l’insieme delle circostanze in Bangladesh. Come ha osservato il giornalista pakistano Akbar Ahmed, la guerra “ha alimentato l’immagine internazionale del Pakistan come una brutale potenza militare che opprime il proprio popolo…Si è creata una solidarietà globale per la causa bengalese”[xiv].

Anche se esistono margini di somiglianza tra questi due avvenimenti, ci sono anche importanti differenze. La violenza in Bangladesh era dovuta in gran parte al tentativo dei bengalesi di creare il proprio Stato-nazione -infatti la guerra può essere probabilmente descritta come una guerra civile portata avanti da un movimento indipendentista. La repressione in Guatemala ha avuto a che fare soprattutto con il timore del governo e della classe dominante che gli indigeni fossero pericolosi e potessero diventare simpatizzanti di sinistra. Sebbene in Bangladesh la distruzione e l’umiliazione della popolazione femminile siano state al centro di molti commenti internazionali (vi alludeva anche, per esempio, Benazir Bhutto prima della sua morte, nonostante lei stessa appartenesse a un contesto punjabi), il livello di distruzione del Guatemala è stato ancora più intenso, comprendendo individui di tutti i generi e di diverse fasce d’età.

In un volume dedicato alle questioni delle violazioni internazionali dei diritti umani, James Waller osserva che “oltre il 60 percento della popolazione guatemalteca vive in comunità rurali disperse con popolazione inferiore ai 2000 abitanti. Nella maggior parte di queste comunità, i servizi sanitari ed educativi sono quasi inesistenti. Complessivamente, il 45 percento della popolazione non dispone dei servizi sanitari minimi e il tasso di mortalità infantile sotto i 5 anni era di 67 su 1000 nati vivi nel 1995 -uno dei più alti del mondo industrializzato[xv].” Qui possiamo vedere, afferma James Waller, ciò che causa l’impoverimento della vita degli indigeni del Guatemala: essi sono privi di servizi sociali e di infrastrutture funzionanti, a differenza delle classi medie e medio-alte del paese, composte da individui di diversa estrazione sociale. 

IV

Gli abusi contro gli indigeni del Guatemala sono particolarmente importanti da raccontare poiché sono esemplificativi del forte eurocentrismo che ha guidato il colonialismo in gran parte della sua storia[xvi]. Da questo punto di vista, le persone che non hanno origini europee non godono di diritti nel significato stretto del termine e il progetto dell’Illuminismo, nonostante i suoi vari proclami, non si applica in modo significativo a chi vive in altri continenti. La costruzione dell’idea degli indigeni come dei bambini, incapaci di apprendere, “arretrati” e non educabili non solo mette in dubbio le motivazioni di coloro che occupano posizioni di leadership in molti dei governi centroamericani, ma in un senso più ampio possiede un potere esplicativo rispetto a gran parte di ciò che è accaduto altrove.

Anche se si potrebbe voler affermare, per esempio, che i diritti delle donne in altre zone hanno poco a che vedere con questa serie di difficoltà, un esame più attento dimostrerà che non è così. In generale, qualsiasi sistema di abusi contro un gruppo etnico si basa solitamente sulla costruzione di quel gruppo etnico all’interno di una cultura più ampia e, in molti casi, esiste qualche presunto legame (almeno simbolico) tra il gruppo e il genere. Così, molti gruppi che sono stati vittime del tipo di abusi commessi in Guatemala sono stati classificati come femminili e gli indigeni del Guatemala non fanno eccezione. In questo modo, si può stabilire un legame tra il maltrattamento delle donne e il maltrattamento di alcuni gruppi etnici.

Inoltre, come già detto, è importante rilevare che i crimini perpetrati contro i nativi americani del Guatemala sono stati commessi in una nazione delle Americhe situata molto vicina agli Stati Uniti. Invece di affermare che questi abusi hanno avuto luogo in un altro continente, chiunque sia interessato ad approfondire la questione può rendersi conto che, in termini di miglia o chilometri, gli abusi si sono verificati molto vicino al Messico e in una sfera di autoproclamata distanza dal Paese capitalista egemone. Questi crimini, che si verificano in questo modo e all’interno di questa sfera geografica, potrebbero far riflettere più attentamente su come si costruiscono le categorie degli abusi e sul perché siamo troppo spesso tentati di pensare a tali episodi di umiliazione come il prodotto di società e culture lontane.

I crimini del Guatemala sono stati argomento di numerosi libri, articoli e istanze presentate a organi civili e giudiziari. Il pensiero illuminista del XVII secolo, sebbene sancito e promulgato dalle organizzazioni internazionali e dai codici civili, è sembrato incapace di fermare il massacro massivo degli indigeni del Guatemala solo qualche decennio fa. Forse la lezione da trarre dal caso del Guatemala è che gli abusi sono molto più vicini di quanto si pensi. Il recente arresto dell’ex-presidente, Otto Pérez Molina, accusato di corruzione, non fa altro che mettere in luce, ancora una volta, la natura catastrofica del passato e del presente del Guatemala.

[i] Infatti è in parte grazie alla segnalazione di questi problemi che è stata rivolta attenzione al lavoro di Rigoberta Menchú, alla quale è stato conferito il Premio Nobel nel 1994.

[ii] Diane M. Nelson, Reckoning (Durham: Duke University Press), xiii–xiv.

[iii] Brigitte French, Maya Ethnolinguistic Identity (Tucson: University of Arizona Press), 2.

[iv] French, Maya Ethnolinguistic Identity, 2

[v] Irene Matthews, “Torture as Text,” in The Women and War Reader, ed. Lois Ann Lorentzen and Jennifer Turpin (New York: New York University Press, 1996), 190.

[vi] Enrique Sam Colop, “The Discourse of Concealment and 1991,” in Maya Cultural Activism in Guatemala, ed. Edward Fischer and R. McKenna Brown (Boulder: Westview, 1996), 111–12.

[vii] James Painter, Guatemala: False Hopes, False Freedom (New York: Crossroad, 1986), xiv.

[viii] Painter, Guatemala, xiv–xv.

[ix] George Lovell, Conquest and Survival in Colonial Guatemala (Montreal: McGill-Queens’ University Press, 1992), 37.

[x] Susanne Jonas, The Battle for Guatemala (Boulder: Westview, 1999), 65.

[xi] Lovell, Conquest and Survival in Colonial Guatemala, 34.

[xii] Jonas, The Battle for Guatemala, 146.

[xiii] Jonas, The Battle for Guatemala, 149.

[xiv] Akbar S. Ahmed, Jinnah, Pakistan and Islamic Identity (New York: Routledge, 1997), 238.

[xv] James Waller, Becoming Evil (Oxford: Oxford University Press, 2007), 190.

[xvi] Edward Said’s Orientalismo, di Edward Said, è un lavoro che si propone di rendere trasparente gran parte di questo progetto. (Edward Said, Orientalism [New York: Vintage, 1978]. Edizione italiana: Orientalismo, Bollati e Boringhieri, 1991).

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