Un oggetto misterioso? Ad un anno dall’assalto a Capitol Hill
Ad un anno dall’assalto a Capitol Hill, i fatti del 6 gennaio 2021 rimangono ad un primo sguardo un oggetto misterioso. Un fatto sospeso di cui si tende a parlare poco e con circospezione, una vicenda difficile da capire, articolare, tentare di storicizzare un minimo. Di un momento così significativo, nell’era dei social network, ci si aspetterebbe ormai di conoscere ogni aspetto, di avere una comprensione totale o quasi, una molteplicità di sguardi e di letture differenti su quanto è accaduto.
Ma è evidente che a prevalere sono due tensioni: da un lato quella a rimuovere, minimizzare, allontanare l’evento, nasconderlo alla vista, ridicolizzarlo al limite, esorcizzarlo. Dall’altro la tendenza è quella di considerarlo come un fatto abnorme, astorico, un UFO piombato all’improvviso sulla terra, qualcosa che lascia stupiti e confusi.
Entrambe queste tensioni sono presenti in chiunque si interessi alla vicenda, a qualsiasi schieramento si appartenga, in qualunque identità politica e sociale ci si riconosca.
Lo si nota in campo democratico, dove la retorica claudicante della riconciliazione si alterna con la criminalizzazione, e in campo repubblicano, dove ad una teoria del complotto ne consegue un’altra, dallo Stop the Steal alla Big Lie1.
Anche all’interno dei movimenti abolizionisti, antagonisti ed anarchici negli Stati Uniti (e di conseguenza alle nostre latitudini), salvo alcune eccezioni, la riflessione intorno alle vicende di Capitol Hill sembra concludersi nei giorni di quel gennaio, concentrandosi principalmente sull’aspetto, non secondario sicuramente, del contrasto alle milizie di estrema destra ed alla loro evoluzione. L’impressione è che ci si voglia tenere a debita distanza da una materia così controversa che potrebbe costringere a mettere in discussione alcune certezze ed ipotesi, o almeno a rivederle in chiave differente.
Eppure, sebbene la vicenda paia risolta nella narrazione ufficiale, con l’avvicinarsi delle elezioni di midterm si viene a scoprire che il “trumpismo” è tutt’altro che finito e che non solo è l’opzione politica ancora maggioritaria nella gran parte dello schieramento repubblicano, ma potrebbe vincere sia alla Camera che al Senato, dimostrando come la polarizzazione elettorale (e sociale) dentro il contesto statunitense non è di certo ricomposta.
I giornali mainstream d’altronde continuano a sostenere la tesi della centralità del ruolo dei social network e delle fake news all’interno dei processi che hanno portato all’assalto di Capitol Hill2. Una tesi sicuramente in gran parte interessata, là dove il mercato dell’informazione “tradizionale” va perdendo sempre di più il suo primato di legittimità. Volutamente si confonde lo strumento con il fenomeno (che dire allora del ruolo delle televisioni tradizionali?), per ridurre il problema ad una questione normativa. Intendiamoci, i social network sono sicuramente stati una fucina ed un’amplificatore del “trumpismo”, ed in particolar modo la loro peculiarità di costruire delle cerchie tendenzialmente omogenee e “totali” può aver avuto un ruolo nel rafforzare credenze, punti di vista e convinzioni. Ed è evidente che se la cooperazione sociale all’interno dello spazio virtuale è regolata dalle leggi del mercato, qui si venderà la merce più richiesta. Al netto di tutto ciò però, quello che rimane fondamentale è che sono il contesto, gli attori sociali e le tendenze storiche a determinare i processi: i media, il virtuale sono in un rapporto dialettico con essi e possono rappresentarne uno strumento, a volte un potenziamento.
Intanto l’amministrazione Biden appare sempre più in difficoltà, tra opposizione interna, nuova ondata del contagio Covid, che ha ormai raggiunto il milione di casi giornalieri, e una prospettiva di incertezza generale tra inflazione e sfide geopolitiche. L’anniversario dell’assalto a Capitol Hill avrebbe dovuto essere l’ennesimo momento della sfida simbolica trumpiana, con una conferenza stampa dell’ex Presidente in cui avrebbe ribadito la teoria del furto delle elezioni, ma pare che l’evento sia stato annullato, con grande sollievo per l’apparato del partito repubblicano.
In questo testo che pubblicheremo a puntate proveremo a riprendere alcune questioni di dibattito sul fenomeno che rimangono a nostro parere centrali anche per il futuro a venire e da cui non ci si può sottrarre per confrontarsi con un presente sempre più complesso.
A chi è servito (e serve ancora) il trumpismo?
Risposta secca, a tutte le differenti articolazioni politiche del capitalismo. Qui con articolazioni politiche si intendono le forme politiche che assumono determinati modelli di sviluppo all’interno della competizione per l’egemonia nel quadro dell’economia capitalistica. Per capirci, rimanendo al contesto degli Stati Uniti, un esempio è la concorrenza tra il modello schiavile del Sud e quello industriale del Nord che si risolse nella guerra civile.
Trump è il campione del contrattacco di un certo modello di produzione, di finanza e di estrazione di valore dal territorio che oggi pare essere destinato ad occupare un ruolo sempre più di secondo piano nei rapporti di capitale odierni. I finanziamenti del repubblicano vengono tutti da determinati settori della produzione industriale, della speculazione edilizia, dell’estrattivismo, di una certa finanza, dell’agroindustria e di un certo tipo di high tech a suo modo residuale3.
Dall’altro lato, in competizione, ci sono i nuovi (relativamente) paradigmi del capitale deterritorializzato, o riterritorializzato in chiave green, di un’altra parte della finanza più legata a questi mondi, di un high tech più strutturato e proiettato verso nuove frontiere.
Bisogna sottolineare come questa competizione non è una lotta per la reciproca distruzione, ma piuttosto per imporre il comando di un determinato modello sull’altro. La sfida riguarda quale concezione di sviluppo e organizzazione dei fattori produttivi diventerà sussidiaria all’altra. In questo senso non bisogna pensare che al prevalere del secondo modello sul primo vi sarà un’estinzione dell’estrattivismo o di un certo tipo d’industria, di finanza ecc… ecc… Di fatto oggi questi modelli sono allo stesso tempo integrati ed in competizione.
Dunque cosa rappresenta, vista da questa prospettiva, l’emersione politica del trumpismo?
Melinda Cooper nel suo libro Family Value introduce la categoria di “doppio movimento del capitale”4. Afferma cioè, semplificando un po’, che in merito alla crisi della famiglia fordista il neoliberismo assume due atteggiamenti apparentemente in contraddizione: da un lato comprende che nella liberazione dei costumi e nella rottura di un certo tipo di norme dell’organizzazione del vivere associato si annida la possibilità dell’emersione di nuovi mercati, nuove frontiere economiche da esplorare, dall’altro si rende conto che se il fenomeno diventa di massa, il suo peso a carico dello stato in termini di garanzia della riproduzione sociale potrebbe crescere enormemente (l’esempio più ovvio e quello di una madre sola con i figli nel contesto degli anni ’60 e ’70). Di qui ne consegue l’emersione politica di due tendenze apparentemente opposte: da un lato l’incorporazione neoliberale delle rivendicazioni su sesso, genere ed autodeterminazione individuale, dall’altro quello di compagini, anch’esse neoliberali, che invece si fanno promotrici del più assoluto conservatorismo sociale. Apparentemente queste due tendenze sono in guerra aperta, ma se guardate attentamente, da un lato rappresentano la capacità del capitalismo di incorporare alcune contraddizioni in maniera dialettica, dall’altro quella di scaricarle verso il basso, formando il contesto adeguato per l’integrazione differenziale e l’individualizzazione del rapporto proletario con le identità, ecc… ecc…
In questo senso la Cooper parla di “doppio movimento del capitale”. Le rivendicazioni sociali vengono processate dentro questo doppio movimento e integrate in una forma di dialettica interna apparente. Si assiste dunque al paradosso dei libertariani che rivendicano la libertà assoluta in termini identità individuali e condividono la stessa coalizione con le chiese evangeliche più retrograde. O a quello degli operai delle città in via di deindustrializzazione che votano come i loro padroni. O alla legittimazione delle speculazioni sui mutui prima della crisi del 2008 in nome dell’accesso alla casa per le minoranze povere.
Naturalmente ciò non significa in nessun modo che le contraddizioni siano risolte o spariscano e che la contrapposizione non possa assumere caratteri implicitamente di classe, sul piano politico però questo doppio movimento è uno strumento formidabile per ristrutturare continuamente le linee di faglia nella società ed evitare che lo scontro si consolidi in una evidente frattura tra alto e basso. Perché si assista al presentarsi di una contrapposizione con espliciti contenuti di classe bisogna assistere ad una crisi della capacità di incorporazione delle rivendicazioni sociali da parte di questo “doppio movimento”. Un primo slabbramento della tela si è avuto con la crisi finanziaria del 2007-2008 e con il presentarsi del movimento globale contro la crisi che negli States ha assunto le sembianze di Occupy Wall Street con i suoi contenuti a cavallo tra il riformismo radicale e la più esplicita critica al capitalismo.
Il trumpismo si inserisce in questo quadro, ed è allo stesso tempo una continuazione del “doppio movimento” ed una frattura con esso determinata dal fatto che la dislocazione delle condizioni oggettive di riproduzione del sistema capitalistico impongono sempre con maggiore forza una divaricazione difficile da ricomporre dato che i processi di integrazione sono quasi completamente inceppati. Il dato di fondo della irriformabilità del capitalismo neoliberista (salvo sconvolgimenti radicali), si disloca al momento secondo queste faglie.
I richiami alla guerra civile americana che si sono susseguiti nei momenti più duri dello scontro negli scorsi anni sia nel campo dei sostenitori di Trump che in quello antagonista di fatto sono una presa d’atto dell’apparente consumarsi di questa dinamica. Rimane la domanda se di fronte ad uno scenario del genere con un conflitto imposto dallo scontro intracapitalistico avrebbe avuto senso prenderne parte o rifiutarlo. Per fortuna questo scenario ad oggi non si è dato, a dimostrazione tutto sommato che la divaricazione non si è ancora dispiegata nella sua pienezza e che non è affatto detto che si risolverà in quella direzione.
Ed ecco dunque che il trumpismo, con lo sguardo rivolto alle dinamiche politiche del capitale, svolge una doppia funzione. Quella ovvia di agire come spazio di contrattazione per certi ambiti della borghesia (strutturata su scale diverse) tradizionale, e quella meno scontata di spingere su un nuovo tentativo di incorporazione e reintegrazione di più o meno ampi strati della popolazione che viene rappresentata dai democratici di Biden. La spinta dall’alto alla risindacalizzazione, l’attenzione, presunta o reale, dell’amministrazione attuale verso i territori più depressi, l’investimento ideologico intorno alla conversione green stanno tutti all’interno di questa dinamica.
Il permanere del trumpismo però sottolinea due aspetti, che evidenziano come questo tentativo sia per lo più destinato a fallire: in primo luogo il fatto che Trump sia rimasto sulla scena politica deriva anche dalla necessità di ricostruire una presunta dialettica democratica in cui il fattore emergenziale, la paura del ritorno delle politiche suprematiste, razziste e negazioniste dovrebbe spingere gli elettori democratici a mantenere una certa coesione con il progetto del partito, in secondo luogo il trumpismo non si è estinto proprio perché lo “scongelamento” dei blocchi sociali non accenna a concludersi e i due schieramenti tradizionali dell’arco costituzionale USA si reggono più che sulla propria legittimità tra i settori popolari sull’odio e la paura per la parte avversa. Questo spiega in parte la contemporanea polarizzazione e l’estrema volatilità del voto. Qui è la faglia dove accadono le cose più interessanti, come la rivolta antirazzista ed interraziale di BLM e la ripresa di nuove, per quanto circoscritte, mobilitazioni di classe sui posti di lavoro a cui si è assistito incessantemente dal 2018 ad oggi, con delle forme anomale durante la prima ondata del Covid, per poi toccare una punta significativa nello scorso ottobre.
Fino a questo punto si è guardato principalmente il trumpismo dal lato del capitale, ma se si assume fino in fondo questa tesi del “doppio movimento” è necessario non guardare ai soggetti sociali che hanno trovato in questa proposta politica un qualche tipo di riferimento solo come a degli attori passivi, ma bisogna porre attenzione sugli elementi dialettici tra le pulsioni sociali e la rappresentazione politica.
La coalizione di Trump è stata, e forse in parte lo è tutt’ora, un fenomeno ampiamente interclassista, con addentellati anche in alcune specifiche composizioni proletarie. Ma per comprendere come questa coalizione si sia aggregata e necessario partire da un po’ più indietro, giungendo al momento in cui il paradigma neoliberale ha preso il sopravvento e si sono generati gli elementi alla base della crisi del 2007-2008.
Qui le altre puntate:
parte 2 | parte 3 | parte 4 | parte 5
Note:
1 https://www.msnbc.com/rachel-maddow-show/year-later-gop-support-big-lie-remarkably-stable-n1286939
2 https://www.politico.eu/article/us-capitol-hill-riots-lay-bare-whats-wrong-social-media-donald-trump-facebook-twitter/
3 https://theintercept.com/2019/08/26/david-koch-donald-trump/
4 https://www.dissentmagazine.org/article/family-values-melinda-cooper-review
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