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Un racconto della “morte in diretta” da piazza Taksim

E dire che nel pomeriggio era stata una bellissima giornata. L’unico attacco era stato quello portato dai moscerini che, dopo aver svernato negli alberi, al richiamo di un prematuro acquazzone estivo erano riusciti baldanzosi dalle loro larve. Se avessi saputo interpretare i segni del destino l’avrei capito subito che questa era una metafora di quello che sarebbe successo dopo. Ma mi manca la pratica divinatoria; sebbene viva in Turchia da tempo, ho ancora difficoltà a leggere i fondi di caffè; e l’ultima zingara che mi ha fatto i Tarocchi mi aveva promesso grandi avventure e mi sono sposato.

L’acquazzone, dunque, io non l’avevo previsto. Che i blindati annaffiassero la piazza come un campo da coltivare, io non l’avevo capito. Che la pioggia fosse arrivata da terra, e non dal cielo, io non me lo sarei mai immaginato. Che l’attacco, quello vero, scoppiasse sul far della sera al dolce canto del muezzin, io… nemmeno in un incubo l’avrei potuto sognare. Non chiamatemi né Cassandro né Do Nascimiento. No. Chiamatemi testimone poiché questa è l’unica cosa che so fare, forse.

Comunque. Nel pomeriggio, insieme a dei compatrioti, chiamiamoli con fantasia Gianluca e Michele c’eravamo dati appuntamento a Taksim per un’allegra scampagnata al parco di Gezi. Ora, con questi valorosi çapulcu (“straccioni”), di diverse vedute politiche, eravamo tutti d’accordo a farci un giretto. Già, Erdogan connecting people. In Italia noi non saremmo mai (e poi mai) potuti andare d’accordo: qui sì. Poi al trio si era aggiunta Monica, e avevamo pareggiato lo schieramento politico.

Dicevo. Gezi Park era come al solito in festa. C’era chi suonava il saz, chi il piffero, chi la chitarra; il piano di “Bella Ciao”, invece, era stranamente silenzioso, come se anche lui aspettasse qualcosa.

La libreria open-air era sempre attiva; e avevano coperto, con un telo, gli scaffali per impedire alle gocce che cadevano dai rami bagnati di ricongiungersi con la carta dei libri. Poi c’era chi ballava, chi pregava e chi arringava: “L’impegno per la democrazia andrà avanti!” E quasi tutti i manifestanti erano convinti che l’offerta di pace effettuata da Erdogan, tramite un referendum, non fosse né la nuova Magna Charta né tantomeno la nuova Tanzimat – c’è un giornalista che se la vuole rivendere? Era stato organizzato persino un piccolo kindergarten in cui le mamme (improvvisate e non) tenevano a bada le grida, già di protesta, degli infanti. C’erano molte donne e bambini nel parco. E la sera i poliziotti avrebbero preso di mira anche loro.

Nel completare il giro della piazza, dopo esserci rinfrescati con ayran corretto con grappa, abbiamo cominciato a vedere una grande massa di poliziotti cominciare a raggiungere gli altri rappresentanti delle forze dell’ordine presso l’entrata d’AKM, e cioè il vecchio teatro che dà sulla piazza. Ed io lì ho buttato my two cents: “Poiché l’ultimatum dello sgombero è scaduto da ventiquattr’ore e non è successo nulla, proveranno a sgomberare tutto con la manifestazione AKP di domani (oggi ndr), oggi solo violenza psicologica”. Ma come vi ho detto come indovino sono negato. Dovevo guardare bene tutti i venditori ambulanti che facevano fagotto e andavano via. Solo ora capisco che non ho creduto al valore di quel dettaglio. Che non era un dettaglio. E poi, infatti, sappiamo com’è andata a finire.

Dopo il terzo giro della piazza – non sia mai anche noi non si partecipi attivamente alla candidatura di Istanbul per le prossime Olimpiadi 2020 – abbiamo deciso di scendere lungo la via principale di Taksim, Istiklal Caddesi, in cerca di qualcosa da metterci sotto i denti. Meritato kebab. Ma manco il tempo di addentare la carne che, nello spazio acustico, è cominciato un lungo lamento divino. La chiamata alla preghiera. Ed è anche in nome di una religione, almeno secondo Erdoğan, che è iniziato l’attacco. E le sirene della polizia si sono unite al canto in maniera blasfema. In nome di un signore; non in nome del Signore.

Noi non ci abbiamo pensato due volte. E al posto di battere in una saggia ritirata abbiamo deciso incoscientemente di essere testimoni. Ma il nostro gruppo, nella calca di una massa di persone che affolla il sabato sera, si è diviso; non si poteva scegliere giorno migliore per fare una strage. Gianluca Michele e Monica sono rimasti sulla via principale dove già si vedeva formarsi il cordone di polizia; ed io sono svicolato per una via laterale per cercare di raggiungere la piazza. E ci sono riuscito. Mi sono acquattato insieme a giornalisti, attivisti e curiosi davanti all’albergo Marmara. Ma è stato un attimo. Dei poliziotti prima sono avanzati contro di noi e poi, d’improvviso, si sono ritirati lasciando andare avanti a loro delle grosse ombre. Il cielo, intanto, era coperto dai fumi dei lacrimogeni e non si riusciva a vedere bene cos’erano. Molti di noi se ne sono accorti solo poco prima dell’impatto. Erano dei Toma, dei bulldozer. Con degli idranti caricati con acqua e una “sostanza nociva”, i Toma avanzavano senza fermarsi. E allora tutti siamo scappati verso l’unica possibile via di uscita a lato della banca Garanti. Nel fuggi fuggi ho scoperto, poi, che qualcuno c’era rimasto sotto.

Mentre fuggivo e tentavo di superare la barricata della piazza di Taksim, gli altri in fuga dicevano che avevano visto bulldozer, caterpillar e ruspe avvicinarsi al parco di Gezi; io, in quel momento, non ho potuto far altro che sperare e pregare che le donne e i bambini se ne fossero andati. Poi, con il telefono, ho provato a mettere in contatto gli altri e mi sono sorpreso a pensare come mai il telefono funzionasse. Era strano. Di solito c’era la schermatura. Ma forse loro volevano proprio questo. Volevano che noi raccontassimo la morte in diretta. E devo dire che ci sono riusciti. Michele e Gianluca, sebbene innaffiati e gasati anche loro, stavano bene; ma di Monica avevano perso le tracce.

Mentre camminavo ormai fuori pericolo vicino a Besiktas, ho visto scorrere sul telefonino le immagini di bambini gasati, di donne picchiate e di uomini che ancora resistevano nel parco. Bulldozer, Caterpillar, gas asfissianti, lacrimogeni, polizia a go-go… contro mani nude. Questo è stato. Del resto sono dei marginali. E dovevano essere emarginati. Ma come sans culottes i çapulcu, “gli straccioni”, continueranno la loro lotta radicale e non si arrenderanno. Mai.

Mentre correvano le voci che Starbucks, ancora una volta, aveva chiuso le sue ignominiose porte; c’erano pure le voci che Divan Otel le avesse aperte. Ho scoperto poi che alcuni dei manifestanti si erano rifugiati lì. Inseguiti dalla polizia fin dentro le camere. È da questo hotel che sono giunte le immagini strazianti dei bambini intossicati che si stringono nel grembo delle madri. Immagini che non so se siano giunte in Italia. Dove, ultimamente, mi ricordo di un bellissimo servizio di Floris su una Turchia che non esiste. Cazzo, Floris, ma da chi sei andato? È forse la Bonino che ti ha passato i contatti?

Poi è arrivato un messaggio di Monica, stava bene. Ed è passata così la notte dei lunghi coltelli. E l’alba di un nuovo giorno (non) è arrivata. Oggi il giornale Sabah titola “Buongiorno Gezi” e sottotitola “polizia non fa spargimento di sangue”. Bugiardi. La verità è una menzogna. Buttano altra acqua sul fuoco. Non gli andava bene che la laicità del paese stesse nelle mani dell’esercito è l’hanno soppresso, ma nel farlo non hanno eliminato lo stato di polizia. Ops. Chiamatelo: passaggio di consegne. Ma sono negato per l’analisi. Io sono solo un testimone. Un testimone di questa resistenza.

Oggi camminare a Taksim è considerato “atto di terrorismo”. Ma se è vero che una volta tutte le strade portavano a Roma, oggi portano a Taksim. Chi è il terrorista?

di Luca Tincalla
su twitter: @lucatincalla

da Baruda

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