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Ypj e Ypg: il comunismo di guerra

Zande è armena e cristiana, ha 20 anni ed è originaria dell’Azerbaijian. Si è unita alle Ypj quando alcuni suoi amici sono stati uccisi dall’Is a Kobane, nonostante avesse già in precedenza delle idee politiche e le piacessero i libri di Ocalan: “Amavo l’idea della libertà del Rojava, della libertà delle donne”. La questione femminile è molto importante per lei: “Tanto in Rojava quanto negli stati arabi le donne sono molto oppresse, così come nel capitalismo occidentale, dove viene loro riconosciuto un valore a fini esclusivi di pubblicità, secondo una logica molto superficiale”. Amara, 23 anni, del reparto cecchini, è curda e musulmana, e viene da Hasakah: “Mi sono unita alle Ypj per la libertà del Kurdistan, del popolo; per quella Ocalan, per la mia”. Daesh è per lei “una realtà senza umanità, che nega completamente la libertà delle donne, imponendo il velo o la copertura integrale”. Per Ekin, 21 anni, originaria di Qamishlo, “la condizione delle donne nelle Ypj è bellissima, siamo sempre in prima linea nei combattimenti al fronte, sentiamo tutta la nostra forza”; sottolinea l’importanza della lotta del movimento curdo non soltanto contro l’Is, ma anche contro il regime di Damasco, contro cui nella sua città non si spengono le tensioni: “Il regime deve stare lontano dal Rojava, perché il Rojava deve essere libero”.

A Shaddadi, spiega, la vita sotto lo stato islamico era molto difficile per la popolazione, soprattutto economicamente: “Ora tutti sono felici dell’arrivo delle Ypj e delle Ypg. Daesh è ormai politicamente finito in Siria, così come il genere di vita che vorrebbe imporre”. Le Ypj vivono giorno per giorno separate dalle Ypg, hanno una palazzina tutta per loro e passano gran parte del tempo in gruppi di sole donne, compresi i momenti di socialità. È possibile una società dove le donne siano libere, e al tempo stesso convivano con gli uomini? “Certamente – risponde Amara – donne e uomini possono vivere in amicizia”. Viyan viene da Hasakah e si trova sul fronte, nel deserto, in un villaggio ancora più a sud di Shaddadi, verso Deir El Zor (città dove le truppe di Assad sono assediate da anni da migliaia di miliziani dell’Is, che controllano tutta la pianura circostante): “Da quando ho visto i massacri di Daesh sui bambini e le donne del mio popolo, ho deciso di diventare una Ypj; e qui, dopo 5.000 anni di oppressione maschile, noi donne ci sentiamo finalmente libere”.

Le fotografie delle Ypj e delle Ypg che circolano su facebook hanno contribuito a diffondere consapevolezza sulla battaglia che queste formazioni conducono in Siria, ma non hanno potuto trasmettere molto sulle persone le costituiscono. Non si tratta di un esercito di militanti ideologizzati, bensì di una forza popolare, densa di diversità e contraddizioni, dove tuttavia un gran numero di militanti politici ha un’influenza e un ruolo di direzione determinanti. Non tutti, però, sono necessariamente al medesimo livello di preparazione politica: quando chiediamo a Viyan che cosa pensi del confederalismo democratico, dice di non sapere cosa significhi; e, come Ekin, non sa dare un’opinione sull’intervento di Usa e Russia nel contesto siriano. Alcuni di questi combattenti hanno una parlata spigliata quando si tratta di rispondere alle domande, altri sono timidi o intimoriti, e sembrano presi dal timore di non saper esprimere i loro pensieri in un linguaggio politicamente adeguato. Non poche ragazze e ragazzi delle Ypg-Ypj, occorre ricordarlo, provengono da condizioni sociali che non hanno loro permesso una forte varietà di prospettive, e trovano ora tanto il modo di conquistare una libertà concreta e immediata (ancor più nel caso delle donne) quanto l’occasione per ottenere una sorta di educazione filosofica per la prima volta nella loro vita.

Saleh è in difficoltà quando gli chiediamo perché ritiene che il capitalismo sia un sistema sbagliato: vorrebbe dire la sua ma non riesce a formulare una risposta, e allora si volta verso Cudi, che gli viene in soccorso: “Il capitalismo non è il sistema adatto per noi giovani, perché è lontano dai bisogni reali. Nel capitalismo il denaro è tutto, e questo a noi non piace”. Saleh trova allora il suo modo di arrivare alla questione, e afferma che i combattenti non dovrebbero mai andare al fronte pagati, come fanno i peshmerga nel Kurdistan iracheno, ma per le necessità popolari, per un desiderio disinteressato di aiutare gli altri. Cudi aggiunge che, in merito al problema rappresentato dal capitalismo, sarebbe necessaria una maggiore condivisione di esperienze e punti di vista tra socialisti dei diversi paesi del mondo, e tiene a mandare un messaggio agli europei: “Le Ypg continueranno a combattere Daesh finché non sarà distrutto. L’umanità sarà liberata da Daesh grazie alle Ypg e alle Ypj; grazie a noi finirà questa minaccia di terrore in tutto il mondo. Mando un saluto al popolo italiano, e ringrazio il vostro sito e la vostra radio per l’attenzione che ci state dedicando”.

È impossibile concepire il fenomeno delle Ypg soltanto in relazione alle imprese militari, e il loro stesso progetto politico non è sufficiente a restituirne la forza. Le Ypg sono un fenomeno comunista non soltanto perché la messa in comune delle ricchezze è l’obiettivo finale del movimento di cui fanno parte, ma perché sul fronte del Rojava questi combattenti hanno già messo in pratica una forma di comunismo reale. Le Ypg sono libere da qualsiasi necessità materiale, e in un senso molto più profondo delle formazioni militari regolari al fronte. Tra loro non esiste il denaro, né altra responsabilità se non quella di vivere una vita in comune e combattere. Tutto è in comune, dal cibo ai materassi, dalle coperte agli spazi in cui si vive e la proprietà individuale è abolita di fatto. Per questo i giovani che portano questa uniforme parlano – in una condizione terribile, in cui tanti di loro saltano sulle mine o vengono colpiti dai cecchini dell’Is (e in cui le condizioni alimentari, igieniche, climatiche e di comunicazione sono spesso proibitive) – di un’esperienza meravigliosa, cui non vorrebbero mai rinunciare. “Nelle Ypj tutto è bellissimo, dall’amicizia alla vita, ai combattimenti contro Daesh” afferma Amara; e per Ekin ciò che rende eccezionali le Ypj è “l’amicizia politica [hevalti in curdo, Ndr] così come il senso di umanità e la realizzazione di una vita libera”.

Azad (nome di battaglia) non è curdo, ma viene da un paese europeo e combatte con le Ypg. Si trova di passaggio a Terbespiye; negli ultimi mesi è stato quasi sempre al fronte nella provincia di Hasakah. Ogni combattente Ypg, spiega, “possiede” i propri caricatori e il proprio kalashnikov, ma tutto il resto – persino le uniformi – è completamente in comune. Le Ypg non hanno nulla, ma al tempo stesso non hanno bisogno di nulla: la logistica provvede all’arrivo del cibo, benchè spartano (riso, pane, tè, fagioli, scatolette). “Prendiamo una pentola dove la troviamo, con l’aiuto della popolazione o nelle cucine dei villaggi abbandonati, accendiamo un fuoco e cuciniamo quel che ci serve per sfamarci. Talvolta raccogliamo ortaggi dai campi che troviamo nei dintorni”. Se circola del denaro si tratta del poco necessario a comprare per tutti merendine o energy drink, ma anche questi “lussi” sono possibili grazie alla cassa comune gestita dal comandante, che è sempre la logistica a finanziare. La logistica delle Ypg dipende economicamente dal Desteya Mala, il ramo del coordinamento cantonale (il governo del Rojava, che agisce parallelamente al potere delle comuni e dei consigli cittadini) che supplisce a tutti i costi amministrativi della rivoluzione (anzitutto quelli militari) grazie, ad esempio, alla vendita del petrolio locale sul mercato interno.

Se le relazioni comunistiche claniche, tuttora presente in Siria, sono frammentate in miriadi di micro-cosmi tribali, e il socialismo comunalistico delle cooperative sfida con il suo avanzamento i rapporti capitalistici, sia pur senza poterli annullare, il “comunismo di guerra” delle Ypg (inteso in senso letterale, quindi maggiormente ristretto a quello della Russia bolscevica del 1919) è reso possibile – senza alcun paradosso – da ciò che in Rojava è tuttora più simile a un socialismo di stato. Ciononostante, i processi vitali che l’organizzazione cantonale mette all’opera sul fronte travalicano anche questo: “Il comunismo delle Ypg appare pre-politico, qualcosa di ancestrale – spiega Azad – ed è anche radicato nella cultura profonda del luogo”. In queste terre da sempre le famiglie dormono nella stessa stanza, ed è inconcepibile che qualcuno mangi da solo. Al fronte atteggiamenti simili vengono addirittura visti con sospetto: “I curdi pensano: se è così individualista da non condividere i momenti della vita quotidiana, anche al fronte penserà a sé stesso”. Zilan (nome di battaglia di una Ypj, a sua volta europea) interviene per ricordare come il primo compito di rilievo che le è stato assegnato sia stato accompagnato da questa frase della sua comandante: “Puoi andare ora, perché ho visto che l’amicizia con le tue compagne è diventata profonda”.

Questo crea sovente frustrazione tra i foreign fighters, che ritengono di essere, in certi casi, esclusi dalle prime linee perché occidentali, mentre ciò avviene a causa della difficoltà o non volontà, da parte di alcuni di loro, di integrarsi con questi aspetti della cultura orientale. Ciò avviene in misura minore, dice Azad, nel caso (minoritario) rappresentato da quelli che giungono in Rojava con un retroterra politico: “I compagni sono di solito più umili degli ex militari, seguono senza adombrarsi le indicazioni delle Ypg e fanno meno fatica a mettere alla prova la propria attitudine individualistica, di cui qui si percepisce il carattere fortemente occidentale”. Il comunismo delle Ypg, tuttavia, ben oltre la condivisione del cibo o dei momenti di autocritica assembleare, crescita ed educazione ideologica, risiede in una sorta di annullamento panico, in cui i corpi degli uni e degli altri sono uniti e a stretto contatto tra loro e con il territorio in una quotidianità e in una molteplicità di istanti che durano anni, o mesi; e tuttavia, tiene a sottolineare Azad, questo essere tutt’uno non è soltanto fisico e corporeo, ma mentale: “Finisci per guardarti allo specchio tutto sfatto e domandarti: chissà che impressione diamo…”. Dice di trovare appropriati i versi di una canzone che un compagno italiano gli ha tradotto di recente: “Geniali dilettanti/ in selvaggia parata”; e ancora: “Non si teme il proprio tempo…/ è un problema di spazio”.

Dall’inviato di Infoaut e Radio Onda d’Urto a Terbespiye, Rojava

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