Acque agitate
Accade in Piemonte. È la battaglia in atto tra due marchi dell’imbottigliamento, Eva di Paesana e S. Anna di Vinadio. Il motivo del contendere – concorrenza sleale utilizzando i social – non ci riguarda.
di Valter Giuliano da Volere la Luna
Ma dà la dimensione della spietata concorrenza in un settore a basso investimento e alti profitti. E offre lo spunto per mettere la lente di ingrandimento sul mercato delle acque minerali al tempo delle progressiva siccità dove l’acqua è a rischio e si configura sempre di più non solo come risorsa ma come bene pubblico. Che sia il tempo di intervenire, come per quelle delle balneari, anche sulle concessioni per le acque minerali e termali?
Acqua bene comune che, nel momento in cui se ne vede ridotte le disponibilità, impone nuove norme per un’oculata gestione, necessita di tutela e suggerisce che il mercato passi in secondo piano. Al momento parrebbe urgente un intervento proprio sulle tariffe di concessione allo sfruttamento e all’imbottigliamento, da cui lo Stato incassa canoni ridicoli a fronte di un fiorente mercato in cui i privati accumulano ingenti profitti.
Purtroppo non esistono dati attualissimi. Bisogna rifarsi al Rapporto del Mef 2018: solo 18 milioni nelle casse pubbliche dalle aziende. Su 295 concessioni un quinto è stato firmato più di 60 anni fa. Dieci le intese perpetue, cioè senza scadenza. Per le acque termali solo 1,7 milioni, lo 0,1% del fatturato del settore. Per le acque minerali, grossomodo centonovantuno euro incassati per ogni euro versato alle casse dello Stato. Considerati i primi dieci gruppi sul mercato, in media, il rapporto tra quanto pagato per le concessioni e quanto incassato è dunque di 1 a 191. In testa alla classifica della convenienza, sempre secondo il Rapporto, ci sono Lete, che paga un euro ogni 312, per un totale di 291 milioni di euro nel 2015, seguita da San Pellegrino del gruppo Nestlé, che versa un euro ogni 268,46 di vendite, per un totale di 3,367 milioni di euro.
Delle 295 concessioni in essere pare che soltanto una, in Liguria, sia stata concessa attraverso una gara ad evidenza pubblica; una legge del 2006 ha impedito la stipula di concessioni ultratrentennali cosa che si era invece verificata in precedenza. La metà sono state stipulate dopo il 2000 ma sorprende che quasi il 19%, una su cinque, sono state stipulate tra il 1900 e il 1959. In altre parole circa 60 concessioni attualmente attive, risalgono ad accordi firmati almeno 60 anni fa. Di queste, 11 durano almeno da cento anni. Sette concessioni, infine, sono perpetue, cioè non è previsto un termine. Tra queste anche una in provincia di Bergamo di San Pellegrino, siglata nel giugno 1933, e una in Basilicata di Fonti del Vulture srl, azienda della multinazionale Coca Cola.
A fronte di scenari planetari che rendono l’acqua bene prezioso, sempre più scarso – vien da dire da classificarlo bene indisponibile dello Stato – sarebbe forse opportuno si ponesse il problema della privatizzazione. Analoga riflessione, restando nel settore delle acque, andrebbe fatto per le terme. Anche in questo caso lo squilibrio a favore delle aziende è di colossale sfruttamento. Sempre nel 2015, i canoni sono stati circa 1,7 milioni di euro, che equivalgono allo 0,1 per cento del fatturato annuo del settore, pari a 1,6 miliardi di euro, secondo il Rapporto sul settore termale 2015 di Federterme. Il Piemonte è la regione italiana con il maggior numero di concessioni di acque minerali attive (43, pari a circa 15 per cento del totale), mentre il Veneto e la Campania si pongono al vertice per numero di concessioni termali rilasciate (rispettivamente pari a 146 e 135, che insieme costituiscono il 57 per cento del totale).
Ancora qualche dato per aiutare a riflettere. Gli ultimi dati disponibili (Istat 2020) indicano che la produzione di acqua minerale è in crescita con un tasso medio annuo del 4% e nel 2020 ha raggiunto i 19, 8 milioni di m3. Oltre la metà dell’acqua è imbottigliata nel Nord: Lombardia, 3,6 milioni di m3 e Piemonte 3,3 milioni di m3 rappresentano insieme il 34,8% dei prelievi privati nazionali. Per l’acqua, la spesa media di una famiglia è di 176 euro l’anno in bolletta; nello stesso periodo, la stessa famiglia spende 140 euro in acqua imbottigliata.
La riflessione conclusiva non può che essere indirizzata a una completa revisione delle concessioni, analoga a quella che tra mille difficoltà, dilazioni e difesa di clientele e privilegi si sta cercando di fare per le spiagge. Probabilmente se non “ce lo chiederà l’Europa” sarà difficile metterci mano, ma resta un obiettivo da perseguire più che mai nel momento in cui l’acqua delle nostre montagne dovrà essere razionata.
L’auspicio finale e iniziale si scontra, tuttavia, con uno scenario globale in cui dobbiamo fare i conti con la finanziarizzazione dell’acqua che comporta il controllo e la vigilanza della finanza nel settore idrico, con l’apertura dei mercati più speculativi, quelli dei derivati, alle transazioni commerciali (futures) sull’acqua. Tutto è nato nel dicembre 2020, ad opera del World Commodity Exchange (WCE). Da allora l’acqua è diventata oggetto di mercato e il suo prezzo oggetto di speculazione. Un bene pubblico naturale il cui accesso è garantito dei Diritti fondamentali dell’Uomo, è stato consegnato alla finanza speculativa globale e sottratto alla gestione dei cittadini e delle comunità. Non solo, ma nel settembre 2021 la Borsa di New York ha creato un nuovo settore di attività finanziare quotate, legate al “capitale naturale”. La mercificazione della natura si completa.
Questo è il contesto in cui dobbiamo operare per una radicale trasformazione che ci porti alla transizione ecologica. Ha ragione il presidente di Confindustria: non possiamo accontentarci delle piste ciclabili con cui cercano di ammansirci, né delle soluzioni che ci propongono nei vari Festival dell’economia saldamente ancorate a questo sistema di mercato globale. Ma i giovani debbono impegnarsi per una rivoluzione ecologica che lo metta in discussione, a cominciare proprio dalle politiche industriali e finanziarie.
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