Sull’alluvione nel messinese
Ancora pioggia, ancora morti dunque: è questo il leit-motiv a cui ci si sta abituando. Eppure è ormai coscienza diffusa quanto queste morti non siano imputabili al caso o alla forza dirompente della natura. Eppure solo due anni fa a Giampilieri (a qualche decina di km dalle zone colpite ieri) una frana simile aveva provocato altri 37 morti portando alla luce della ribalta i danni e i pericoli causati dalla speculazione edilizia e dal dissesto idrogeologico che ne è conseguito negli anni, e l’anno scorso un’alluvione a San Fratello, che ha causato duemila sfollati, aveva confermato la necessità di interventi nella zona.
I comitati di cittadini locali hanno chiesto a gran voce in questi anni gli interventi in difesa del territorio e dell’ambiente in cui vivono, considerato anche il gran furto di denaro pubblico per la non-costruzione del ponte che li vede direttamente coinvolti, e non si sono lasciati abbindolare dai racconti sugli eventi imprevedibili e sulla loro incontrollabilità.
Non è assolutamente possibile pensare di potersi abituare a queste stragi, o di poterle classificare come calamità naturali: non era possibile farlo a Genova e a maggior ragione non è possibile farlo a Messina, un territorio che ha vissuto più volte in poco tempo catastrofi di questo calibro e ha già imparato a individuarne i responsabili. La speculazione edilizia a tutti i livelli: dai palazzinari alle amministrazioni che passano al vaglio piani regolatori e progetti di opere pubbliche criminali. E non si tratta solo di “piccole” opere (strade sui letti delle fiumare, scuole nei percorsi naturali dei corsi d’acqua, etc…) pensate e progettate per trarre profitto sulla pelle e la sicurezza di intere cittadine, ma di questi giorni è la notizia che anche la più grande delle opere della zona, il ponte sullo stretto, prevede delle procedure degne delle più diaboliche menti: milioni di metri cubi di terra di risulta degli scavi andrebbero infatti riversate su cime di montagne a rischio, proprio a monte di storici percorsi di scolo delle acque.
Il ponte, dunque, non è solo un’idrovora di risorse che potrebbero essere utilizzate per servizi molto più utili (nello specifico opere di prevenzione e di riassetto idrogeologico), non è soltanto l’affronto a una comunità con infrastrutture e trasporti pubblici quasi inesistenti e con servizi sociali scadenti, ma è insieme il simbolo di un furto di risorse pubbliche da parte di grandi aziende private e la massima espressione della mal gestione e della depredazione dei territori. E questo, a soli due giorni dalla tragedia che ha ucciso tre persone, e a due anni da quando i comitati dei paesi alluvionati hanno cominciato a chiedere l’utilizzo di quelle risorse per ricostruire i loro paesi e mettere in sicurezza tutta l’area fa ancora più rabbia.
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