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Davide torna a casa, il gip decide per i domiciliari

Il 29 Novembre 2012 un’operazione della questura di Torino porta all’applicazione di diverse misure cautelari nei confronti di 17 NoTav per l’occupazione simbolica dello studio della Geovalsusa, una delle ditte implicate nei lavori per la Torino-Lione (sul come si sono veramente svolti i fatti, leggere questa testimonianza di un giornalista presente,). Uno dei Notav non è, però, stato rintracciato. Da quel giorno abbiamo avuto poche notizie di Davide, perlopiù lettere pubblicate online, ma ci ricordiamo quando lasciò mezza questura di Torino a bocca asciutta in occasione della presentazione del suo romanzo al salone del libro, a cui non si presentò. Oggi è comparso davanti al gip che aveva autorizzato le misure cautelari. Adesso a Davide è stata applicata misura della detenzione domiciliare con il divieto di comunicare. Pubblichiamo qui di seguito la sua  ultima lettera indirizzata al movimento NoTav e a tanti compagni in giro per l’Italia e l’Europa.

Con la speranza di riaverlo presto tra noi!

 

Continuare a resistere: ancora l’unica scelta

Quando sono partito, poco più di un anno fa, avevo una direzione precisa, ma gli eventi si sono incaricati di annullare qualsiasi rotta. Da allora ho attraversato dodici frontiere e ventitré città, ho dormito in nave o in auto, nei palazzi popolari e nei posti occupati, in tenda o in barca. Nella ricerca di un lavoro, di una casa, di una lotta cui dare il mio contributo ho conosciuto centinaia di persone e luoghi, e ho potuto percepire in forma vivente la solidarietà che chi vive nei movimenti ha il privilegio di poter raccogliere. Ho sempre considerato (posso ora dire: a giusto titolo!) una delle conquiste istantanee, legate alla nostra lotta, il sorgere come per incanto, attorno a noi, di milioni di amici ovunque nel mondo. Chi altri, se non noi, può affermare di avere in ogni angolo del pianeta questa inesauribile riserva di persone pronte a conoscerci, ad aiutarci e a capirci sull’essenziale, magari senza parlare la nostra lingua, con una semplice occhiata? Questo soltanto sarebbe bastato a dare un senso alla mia esperienza.

Ho avuto il supporto di compagni di ogni estrazione politica, ma anche di persone di ogni età o cultura che non frequentano i movimenti, eppure sentono che qualcosa di molto sbagliato attanaglia il mondo in cui viviamo, e hanno messo volentieri da parte ogni scrupolo o timore per aiutarmi. In tutti i luoghi che ho attraversato le lotte della Val Susa sono seguite, raccontate, analizzate. Non di rado in forma mitizzata, altre volte con notevole precisione, ho sentito racconti di prima, seconda o terza mano, o ho condiviso ricordi e impressioni con persone che pronunciano a fatica, con accenti stranieri, ma sempre con un grande sorriso e con grande rispetto, parole come “Comitato”, “Chiomonte” o “Credenza”. Non di rado, arrivato in una città, erano i compagni stessi a informarmi dell’ultima azione contro il cantiere, delle condizioni di salute di chi era in carcere o degli ennesimi arresti. Ho visto sui loro volti le espressioni di rabbia per le violenze subite in luglio da Marta, per gli arresti di molti e le accuse di terrorismo per molti altri, e ho potuto apprezzare quanto sia grande il sostegno per tutti coloro che hanno accumulato, in questi due anni di resistenza, galera, denunce, processi.

Sono contento di questa esperienza, non foss’altro perché credo che il viaggio figuri a pieno titolo tra le forme di liberazione. Nonostante io rispetti chi è uso compiere scelte come la mia per questioni di principio, non ho agito mosso dalla fiducia nell’efficacia delle delegittimazioni solitarie dell’apparato statale; credo, anzi, che una vita degna sia impossibile senza le trasformazioni che soltanto una forza esterna a ciascun singolo, una forza sociale, può provocare o cercare, e che essa non dipenda dalle vicende interiori di un individuo. Non ho neanche compiuto questa scelta per evitare le misure restrittive in sé, che sapevo mi avrebbero atteso puntuali ora, al mio ritorno; né penso che chi sfida un sistema sociale debba aspettarsi nulla di diverso da quello che ci sta accadendo, credo anzi che dobbiamo accettarlo come parte di una soddisfazione più grande. Il gesto che ho compiuto ha avuto un significato politico, di rivendicazione della mia agibilità concreta, di ribellione pratica contro un’ingiustizia. Non ha avuto maggior rilievo dei tanti gesti che ogni giorno mille compagni compiono in ogni angolo d’Italia; gesti che magari, anche più importanti, non si prestano alla stessa idealizzazione.

Ciò che ho compiuto, puro e semplice, è qualcosa che ha sempre fatto e sempre farà parte del differenziato spettro di scelte che possono farci acquisire capacità organizzative o aiutarci a conquistare tempi e spazi di libertà, se è vero che l’autonomia è una qualità che si attribuisce anzitutto alle decisioni. Non ho mancato di cercare e approfondire contatti e scambi, maturare le mie concezioni politiche, acquisire esperienza e, spero, potenziare questo genere un po’ particolare di disciplina. Ho cercato di dare il mio contributo politico dove e come potevo, ma è inutile negare che mi è mancato molto poter agire nel modo più efficace, ossia alla luce del sole, a Torino e in Val Susa. Per questo ora lascerò, mio malgrado, che l’ingiustizia abbia il suo corso, per poter tornare il prima possibile a condividere in forma piena le mobilitazioni che ci attendono, dopo aver scontato le misure cautelari in sospeso e una vecchia condanna per antifascismo. Sono però ansioso di riemergere compiutamente in superficie, perché ovunque io sia stato, in Italia, ho respirato aria di crescita e di attesa; ho visto nascere nuove occupazioni, nuovi collettivi nei quartieri e nei luoghi della formazione, e morire vecchie esperienze di delega e rappresentanza, ed è sempre un fatto positivo.

Ovunque si percepisce il rafforzamento delle strutture di movimento, e ovunque ho percepito nei compagni una sorta di attesa inquieta o fiduciosa per ciò che accadrà. Il compito che ci attende è immane. Scontiamo decenni di fallimenti e sconfitte che hanno reso i linguaggi dei movimenti distanti da quelli di larghi settori delle popolazioni. In alcune aree europee, più ancora che in Italia, ho visto ben rappresentato il paradosso del militante che pensa di parlare in nome di chissà quali figure sociali o inesistenti insurrezioni, mentre il mondo e la storia gli passano accanto e non si curano neanche della sua esistenza. Il progetto di un attacco all’esistente si è sovente ridotto a un altro modo di vivere in esso, alla costruzione di controculture o forme di vita che si credono diverse, ma spesso si riducono a pose e ideologie che oscillano tra il moralismo e l’estetismo, nell’infondata convinzione che il carattere minoritario delle nostre lotte ci renda migliori rispetto al resto dell’umanità. Ho sovente visto nei limiti di situazioni lontane i nostri, i miei stessi limiti. Dobbiamo smetterla di costruire ghetti dipingendoli come zone di esistenza liberata, e prefigurare invece il radicalmente altro nell’unico modo possibile, ossia con la messa in discussione pratica dei rapporti di forza esistenti, orientando il conflitto sociale contro il loro cuore politico, che sono le istituzioni della rappresentanza e del mercato. L’unico modo di farlo è attraverso la condivisione dei nostri progetti con chi non è come noi, non li conosce e magari, ancora, non li condivide.

Il dibattito che si è sviluppato dopo il 9 dicembre credo sia stato utile da questo punto di vista, dobbiamo continuarlo. Capisco la difficoltà che molti compagni hanno (anche a causa dell’eterogeneità geografica delle mobilitazioni ribattezzate come “Forconi”) ad ammettere che dietro una bandiera italiana può esserci tanto un fascistello pronto a vendere retoriche da ventennio, quanto una ragazza o un ragazzo che identificano il nome e i colori dell’Italia, in modo ingenuo, con uno spazio neutro rispetto a tutte le parti politiche, che essi identificano (in modo molto meno ingenuo) con l’esistente. Comprendo questa difficoltà, eppure credo che il futuro prossimo ci chiederà molti altri sforzi critici, e anche di capire che il fallimento dei sistemi socialisti del passato, l’inconcludenza di molte critiche libertarie e la trasformazione sistematica della sinistra mondiale in agenzia dell’amministrazione capitalista non avrebbero potuto restare senza conseguenze sul piano della ricerca di semantiche e simbologie alternative, che purtroppo tendono a pescare, a seconda dei contesti, nella tradizione nazionale o religiosa. Far prevalere il totalmente altro è una sfida che vinceremo soltanto al prezzo di immergerci nelle difficoltà del reale, e di mostrare rispetto per le persone, di saperci confrontare umilmente con la gente, non da maestri, né da profeti; perché essere rivoluzionari non significa essere né l’uno, né l’altro.

L’incremento della nostra presenza sociale è e deve essere la vera cifra del nuovo corso dei movimenti, che hanno continuato a radicarsi e a crescere negli ultimi due anni, anche grazie al segnale di chiarimento, trauma benefico, del 15 ottobre. Le logiche della compatibilità istituzionale e di piazza che hanno per anni causato l’immobilismo, e talvolta condotto alla più triste operetta, appaiono in molti luoghi sorpassate, e questo sarà il primo passo per non lasciare più penetrare le culture dell’estrema destra tra tanti ragazzi che abitano le periferie delle nostre metropoli, perché questi ragazzi cercano anzitutto compagni di rabbia; e se non scommettiamo sulla rabbia noi, perché non dovrebbero farlo i nostri nemici? La piazza del 19 ottobre è stato anche per questo il più bel luogo in cui mi potessi mimetizzare. Quel giorno abbiamo visto che costruire partecipazione, autonomia e conflitto è possibile, senza rinunciare a nessuno di questi elementi. Poche ore dopo i compagni di Roma e delle altre città erano nuovamente impegnati nella crescita della contrapposizione più militante, quella del quotidiano. Ciò che in questi anni abbiamo imparato dal popolo valsusino è, da questo punto di vista, inestimabile.

In questi tempi dalla valle tutto inizia e alla valle tutto torna, dagli arresti alla solidarietà, dai piccoli viaggi di libertà alla grande resistenza. Mando un pensiero a Chiara, Mattia, Nicco e Claudio, detenuti perché No Tav, a tutti i No Tav ai domiciliari, a tutti i detenuti e gli imputati per il 15 ottobre, a tutti quelli che resistono, dentro e fuori. Per ognuno di noi che si ferma, cento altri salgono sulle barricate.

Davide

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