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“E meno male che piange” La giustizia secondo i Rinaudo’s

 

dal Blog di Loredana Lipperini

 

Beatrice Rinaudo è presidente dell’Associazione italiana vittime della violenza: avvocato torinese, trentanove anni, è iscritta al foro di Palermo, dove ha il suo studio legale. Se il cognome suona noto non è per caso: suo padre è Antonio Rinaudo, pubblico ministero -insieme ad Andrea Padalino- nei processi penali ad attivisti notav.
Candidata con Fratelli d’Italia alle recenti elezioni per la regione Piemonte, non è stata eletta. Al centro della sua battaglia politica avrebbe dovuto esserci la lotta alla violenza di genere, come lei stessa ha dichiarato in un’intervista al Fatto Quotidiano e nel video in cui ha annunciato la propria candidatura. Quest’impegno al fianco delle donne (“per i loro diritti e i loro doveri”, tiene a precisare sul suo profilo twitter), non le impedisce di patrocinare in giudizio -in qualità di difensore di fiducia- imputati di reati sessuali. In ciò, sia chiaro, non c’è nulla di scandaloso o di ingiusto. Anzi, la scelta potrebbe essere dettata da garantismo autentico, se in ipotesi Rinaudo fosse convinta dell’innocenza del suo assistito. Un garantismo che però pare difettarle, allorché si tratta di indirizzare scomposte invettive contro gli autori dell’aggressione all’autista di suo padre. Non un cenno di smentita, dopo, quando era ormai chiaro che “I tre incappucciati”, cui si rivolgeva dando loro dei “piccoli meschini vermi”, dei “vigliacchi”, degli “smidollati” e altri epiteti dello stesso elegiaco tenore, fossero frutto dell’immaginazione dell’autista.
Lo scorso 12 giugno si è concluso al tribunale di Pavia il primo grado di un processo che ha visto l’avvocato torinese difendere una persona imputata, fra l’altro, di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia e tentativo di induzione alla prostituzione. Nulla di ingiusto in questo patrocinio, si diceva.
Di tutta la sua attività processuale, a colpire è stata soprattutto l’arringa conclusiva. Rinaudo ha esordito rivendicando il suo ruolo di presidente dell’AIVV, in virtù del quale si è fatta promotrice di “un disegno di legge attualmente in discussione al senato”, per poi proseguire chiedendo retoricamente ai magistrati e all’avvocato della parte civile quante volte sia loro capitato di occuparsi di reati sessuali. Intuibili erano le intenzioni e il sottotesto di quelle affermazioni: accreditarsi come l’unica esperta in materia presente in aula. Quando è passata a contestare l’attendibilità del racconto dei fatti reso dalla persona offesa al pubblico ministero, lo ha fatto esibendo un’acredine, una violenza verbale e un disprezzo per la posizione della vittima che nemmeno l’esigenza difensiva di dimostrare con veemenza la non-colpevolezza del suo cliente poteva giustificare.

 

“Leggo nel verbale –ha detto a un certo punto- che ‘si dà atto che la signora piange’… E meno male che piange!” [per dovere di precisione: il verbale dell’udienza non è stato redatto con la forma della stenotipia, ma le parole sono rimaste impresse, non solo nella testa di chi scrive]

 

La frase ha prevedibilmente suscitato l’irritazione di chi assisteva all’udienza (lo testimonia quest’articolo), a maggior ragione perché a pronunciarla è stata una donna, e una donna che insiste nell’attribuirsi un ruolo in prima linea nella battaglia contro la violenza di genere. Per fortuna la persona offesa non era presente in aula: non è difficile immaginare quale sarebbe stata altrimenti la sua reazione di fronte a tanta ingiustificata mancanza di rispetto, confermata da un’altra frase che l’avvocato ha più volte ripetuto durante l’arringa:“qui si presume che la vittima dica il vero, solo perché è la vittima”. [Vale la precisazione di cui sopra]

 

Il giudizio di primo grado, in ogni caso, si è chiuso con il riconoscimento della piena attendibilità delle parole della persona offesa, riscontrate agli atti anche da un certificato medico. Più in generale, val la pena di notare che per forza di cose i processi per questo tipo di reati, proprio perché si consumano al chiuso delle mura domestiche, si basano in prevalenza sulle dichiarazioni della vittima: su cosa, altrimenti? O preferirebbe la garantista Rinaudo che si chiudessero tutti con l’archiviazione per mancanza di prove?

 

Ancora un rilievo: in tutta la discussione, Rinaudo ha cercato di ricondurre il caso concreto ad una sorta di paradigma di violenza domestica. O meglio: ad una sua visione stereotipata ed estrema, quando è persino tautologico dire che la violenza -sia fisica che psichica- può avere diverse gradazioni, esplicitarsi secondo differenti modalità, senza per questo cessare d’esser violenza quando non è estrema.

 

L’eccessività nei toni, lo scherno alle altre parti, l’atteggiamento irriguardoso verso la posizione della vittima sono comportamenti mal tollerati pure nel contesto aspro di un processo penale, e quasi mai fanno l’interesse dell’assistito.
Due domande, non retoriche, in conclusione. Come concilia l’avvocato Rinaudo un atteggiamento come quello che ha dimostrato nel processo pavese con la sua lotta antiviolenza? È veramente ipotizzabile che l’ambito professionale e quello dell’impegno civile restino del tutto separati, e il primo non influenzi il secondo? A sentire lei, è il secondo a influenzare il primo (visto il panegirico d’inizio arringa), ma non si direbbe che ciò avvenga nel modo che sarebbe lecito attendersi.
Nota nemmeno tanto a margine: dando un’occhiata alla homepage del sito dell’associazione di cui Rinaudo è presidente, si legge che uno dei suoi obiettivi è la creazione di “ospedali rosa”. Anche solo nell’insistere sulla connotazione cromatica, è evidente che quell’associazione ignora del tutto i discorsi sull’immaginario femminile che da anni, e da più parti, ci si sta sforzando di portare avanti. Dunque, quanto davvero è aggiornato e completo il lavoro di un ente che sembra tralasciare la premessa culturale che dovrebbe caratterizzare ogni studio di genere?

da notav.info

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