La fusione nucleare non ci salverà
Come di tanto in tanto succede, nei giorni scorsi i maggiori mezzi di comunicazione hanno dato grande risalto a una notizia relativa al settore nucleare: in questo caso alla fusione nucleare.
di Angelo Tartaglia da Volere la Luna
È la seconda volta in dodici mesi. La prima volta si informava il mondo del fatto che dal reattore a fusione JET (Joint European Torus), a Culham, in Inghilterra, si era riusciti, il 21 dicembre 2021, ad estrarre, in cinque secondi, un’energia di circa 16 kWh (usando unità da bolletta domestica, piuttosto che quelle più scientificamente corrette ignote al grande pubblico). Era la prima volta che si riusciva a estrarre energia dalla macchina, solo che l’energia spesa per ottenere il risultato era maggiore di quella ricavata… La seconda notizia è quella recentissima che ci informa che nella National Ignition Facility (NIF) del Lawrence Livermore National Laboratory (LLNL) in California, il 5 dicembre scorso, si è riusciti a produrre la fusione nucleare ricavandone circa 0,8 kWh. La novità è che questa volta l’energia prodotta è stata maggiore di quella iniettata dai 192 laser utilizzati per attivare la fusione: è la prima volta che succede. C’è, a dire il vero, anche un altro dettaglio che sembra essere sfuggito ai mezzi di comunicazione che hanno riportato la notizia. Se si va a leggere il comunicato ufficiale dell’LLNL (che immagino i giornalisti dovrebbero leggere e che è reperibile al link https://www.llnl.gov/news/national-ignition-facility-achieves-fusion-ignition) si trova che le attività di ricerca relative alla fusione condotte in quel laboratorio sono anche di interesse militare. Già nelle prime righe del comunicato si trova, oltre alle solite cose sull’energia pulita, l’affermazione che il risultato «lastrica la via al miglioramento della difesa nazionale» (traduzione mia); più oltre si legge che il lavoro futuro del NIF aiuterà a «mantenere un deterrente nucleare senza bisogno di test nucleari» (cioè di esplosioni in atmosfera o sotterranee oggi bandite dai trattati internazionali). Ancora: nello stesso comunicato compare una dichiarazione entusiasta del senatore Charles Schumer, portavoce della maggioranza democratica del Senato, che si dice fiero di aver contribuito a far assegnare quest’anno più di 624 milioni di dollari nel National Defense Authorization Act per il proseguimento della ricerca su questo tipo di fusione.
Lasciando tutto questo sullo sfondo, cerco in poche parole di dare un’idea di ciò che è la fusione nucleare. Si tratta in un certo senso dell’opposto della fissione. In quest’ultima un nucleo pesante si spacca liberando energia; nella fusione, invece, due nuclei leggeri arrivano a “fondersi” in un nucleo un po’ più pesante (ma meno della somma dei due ingredienti), anche qui liberando energia. I due nuclei da fondere sono quelli di due isotopi dell’idrogeno, il deuterio e il trizio, e la difficoltà sta nel fatto che essi non avrebbero alcuna intenzione di fondersi (nel senso che, essendo elettricamente carichi allo stesso modo, si respingono violentemente). Cionondimeno, se si riesce in qualche modo a portarli a contatto, entra in gioco una forza nucleare attrattiva che agisce solo a cortissimo raggio ma che è molto più intensa della repulsione elettromagnetica: i due nuclei si fondono in un nucleo di elio (He), con un neutrone d’avanzo, e nucleo di He più neutrone portano con loro una grandissima energia che nell’insieme si manifesta in forma di calore. Da lì in poi dovrebbe avviarsi la solita trafila per passare da calore a energia elettrica. Il problema è che, al fine di “costringere” i nuclei di deuterio e trizio a scontrarsi per poi incollarsi, bisogna portare la miscela dei due ingredienti a temperature altissime (200 milioni di gradi) dopodiché bisogna mantenere confinato il tutto per il tempo necessario a produrre la fusione.
La possibilità di utilizzare la fusione nucleare a fini pacifici è oggetto di ricerche fin dagli anni ’60 in diversi paesi del mondo. Si perseguono principalmente due approcci. Uno si basa sul confinamento magnetico di plasma caldissimo in cui far avvenire la fusione tra deuterio e trizio. I nuclei dei due ingredienti sono particelle cariche e, se le si mette in un campo magnetico generato dall’esterno, si muovono lungo traiettorie circolari che praticamente non toccano le pareti di un contenitore a ciambella. La difficoltà è che il campo magnetico deve essere intensissimo e per mantenerlo ci vogliono dei magneti superconduttori che, per rimanere tali, devono lavorare a temperature molto basse (tipicamente un paio di centinaia di gradi sotto zero). Questa è la strada seguita per il reattore JET menzionato all’inizio e implica il ricorso a tecnologie simili a quelle richieste dai grandi acceleratori di particelle usati per la fisica fondamentale (come il CERN di Ginevra). L’altro approccio è quello basato sul confinamento inerziale che consiste nel bombardare un piccolo contenitore in cui sta una miscela solidificata (in quanto freddissima) di deuterio e trizio con dei potentissimi impulsi laser (generati da 192 superlaser nell’esperimento del NIF): si verifica così una intensissima compressione che fa salire contestualmente la pressione e la temperatura (fino a una sessantina di milioni di gradi), tanto da innescare la fusione. Questa strada presenta delle analogie con il funzionamento delle bombe termonucleari, donde l’interesse militare. Le bombe a fusione (quelle da “fine di mondo” del dottor Stranamore) innescano la fusione usando come “spoletta” una bomba a fissione (come quelle di Hiroshima e Nagasaki) la quale genera una violentissima onda d’urto concentrica che comprime un nocciolo contenente la miscela deuterio-trizio portandola a pressioni e temperature tali da innescare la fusione esplosiva. Nel confinamento inerziale sono invece gli impulsi laser a produrre l’onda d’urto.
Orbene, pur con sullo sfondo l’inquietante spettro militare, quelli che vengono annunciati sono certamente dei passi avanti nella ricerca. Ma siamo molto lontani dall’applicazione pratica (pacifica). Le dichiarazioni ufficiali parlano di decenni prima che un reattore commerciale possa entrare in funzione e così si diceva già negli anni ‘70. La grande risonanza che viene data alla notizia ha però anche altre motivazioni: 1) l’esigenza dei laboratori di ricerca di assicurarsi gli ingentissimi finanziamenti pubblici necessari, per cui debbono “vendere” bene ai decisori e al pubblico i risultati conseguiti; 2) la competizione presente da decenni tra confinamento magnetico e confinamento inerziale che spinge sempre a cercare di dimostrare di essere i più bravi.
A ben guardare il tracollo climatico, se non si riduce drasticamente il consumo di energia e in particolare quella da combustibili fossili, arriverà ben prima di qualsiasi concreto reattore a fusione ma, in compenso, il mito della fusione potrebbe servire da alibi per non cambiare nulla nelle strutture di una economia profondamente insostenibile oltre che iniqua. Il ritornello è sempre lo stesso: la ricerca della fonte dell’infinita energia pulita (rilanciata anche questa volta dai titoli di stampa) che finalmente consentirà di alimentare la crescita perpetua senza effetti collaterali.
Ma ci sono, ahimè, alcuni però: a) la fusione non è comunque una fonte illimitata (fattore limitante: il litio 6 da cui si ricaverebbe il trizio, che, essendo radioattivo con un tempo di dimezzamento di 12,3 anni, non si trova nelle miniere o negli oceani); b) i neutroni prodotti dalla fusione inducono radioattività nei materiali che li assorbono, il che vuol dire che la struttura stessa del reattore diviene radioattiva e quando dovrà essere dismessa andrà trattata come una scoria anche se per tempi più brevi di quelle della fissione; c) comunque solo circa un terzo del calore prodotto dalla fusione diverrebbe energia elettrica, mentre il resto dovrebbe essere smaltino nell’ambiente (come avviene in tutte le grandi centrali termiche). E c’è poi ancora il fatto che l’innocuo elio (prodotto dalla fusione e anche dal trattamento che porta dal litio al trizio) si accumulerebbe in atmosfera; oggi ce n’è circa 5 parti per milione (ppm): per la CO2 sono oltre 400. Non è peregrino pensare che se dal valore attuale si passasse progressivamente alle decine di ppm le proprietà generali dell’atmosfera ne risentirebbero impattando una volta di più sul clima.
Ma cosa non si farebbe per (illudersi di) cambiar tutto senza dover cambiar nulla.
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