Oddio si sono ristrette le madamine
Sabato 6 aprile la Torino che fu ha vissuto uno dei suoi punti più bassi.
Quel corteo striminzito, gonfiato dai grandangoli dei fotografi e stirato dall’allungamento degli spazi tra un gruppetto e l’altro di manifestanti mostrava il volto di una città esaurita. Povera di idee, di proposte, di senso di sé. Teste grigie e passi stanchi. Con gli striscioni che scandivano il corteo a volte banali, (“Sì tav subito”, “Sì allo sviluppo del territorio”) altre incomprensibili (“Sì il treno rispetta il Piemonte”).
E’ lontana la piazza del 10 novembre, e nemmeno le madamine sono più quelle di allora (sono rimaste in cinque, ne hanno perse due per strada…). Hanno detto di essere in 20.000, la questura parla di qualcosa come la metà, i realisti ne contano 5-6.000 effettivi a dir tanto: “Se loro sono in 20.000 – mi dice uno che se ne intende e che aveva partecipato allo straripante corteo NO TAV dell’8 dicembre -, noi eravamo 300.000!” Ma la questione non sta solo – o non sta tanto – nei numeri. Anche le cause più calde si raffreddano con la coazione a ripetere. E i cappelli elettorali, si sa, non aiutano. Ciò che turba e preoccupa e anche intristisce è l’immagine della città che da quella “esibizione in piazza” vien fuori, del suo stato materiale e morale. La radiografia del suo male nemmeno tanto oscuro che la debilita e scolorisce.
Torino è stata, per buona parte del Novecento, una città fortissima. Forte della sua vocazione produttiva. Del suo ruolo di vertice manifatturiero del triangolo industriale. Forte, soprattutto, del conflitto potente, vivificante, dinamico che l’animava. Operai e padroni, ognuno con la propria posizione “di classe” da tenere. I primi con l’orgoglio di produttori fieri della propria autonomia. Gli altri con la consapevolezza del proprio ruolo nazionale. Ognuno con la sensazione radicata di poter “fare da sé”, un palmo più in alto dello Strapaese che li circondava. Gli operai perché, come scriveva Gobetti, le “complesse esigenze di produzione” alimentavano in loro “una coscienza oscura di idealismo aristocratico”. Gli industriali – anzi, l’industriale per antonomasia – perché sovrani in quello che consideravano (ed era) uno Stato nello Stato, il che faceva dire a Gramsci che a Torino era “nato il primo Soviet dei capitalisti, la Fiat di Giovanni Agnelli, piccolo Stato locale…”.
Ora, di quella “nobiltà” non resta che cenere e rottami sfatti. La fotografia della città che ci restituisce il corteo pre-feriale dei Si Tav è l’esatto negativo dell’immagine di ieri, con gli operai (quel che resta degli operai) e i padroni (quel che resta dei padroni) a sfilare insieme, con comune spirito di questuanti. Tutti lì, in processione col cappello in mano, a implorare dal governo – dal bolso Strapaese che sta a Roma, Strapaese essi stessi – l’apertura dei cantieri di un’opera inutile e dannosa, sperando nelle briciole. E ad adorare, come camminanti medievali, un feticcio vuoto.
L’ho guardato con attenzione quel corteo, come negli anni ’70 avevo guardato i colorati cortei operai che si prendevano la città, come il 14 ottobre del 1980 avevo guardato la cosiddetta “marcia dei 40000” che quei colori aveva cancellato, e poi quello rabbioso, all’inizio di un altro aprile, del ’98, per il suicidio di Baleno (la prima vittima del TAV, schiacciato, con la sua compagna Sole, da una macchina accusatoria troppo grande per loro), su su fino ai tanti sfilamenti del primo maggio sempre più sfilacciati. E da ognuno avevo tratto un sentimento che mi parlava dello stato d’animo della città. Quello di sabato, devo dirlo, comunicava un senso di tristezza. E un po’ anche di pena.
Erano tristi – e fuori posto – quelli della CGIL, rappresentata dai soli edili della Fillea (non certo la migliore “categoria” della Confederazione, incapace com’è di ridurre la nocività del lavoro se è vero che l’edilizia ha il maggior numero di morti dopo l’agricoltura e di contrastare le infiltrazioni mafiose che nel settore imperversano in particolare nei cantieri del TAV): camminavano nei loro gilet rossi con una sola idea in testa, aprire i cantieri nella valle che non li vuole, come se da quello dipendesse la loro ragione di esistere. Forse credevano alle balle spaziali rilanciate da Boccia di Confindustria sulle ricadute occupazionali della Torino-Lione, o a quelle di TELT sui 4.761 posti di lavoro diretto nei cantieri TAV una volta andati a regime, ignorando che quella era in realtà la somma dell’organico annuale moltiplicato per tutti i dieci anni previsti per il completamento dell’opera, in realtà una media annua di 476 occupati, quanto una qualsiasi impresa come ce ne sono migliaia in Italia e in Piemonte più di 300!
Delegati Fillea-Cgil e Filca-Cisl nel cantiere TAV di Chiomonte col ministro di polizia Salvini
Ricorderò sempre l’8 dicembre del 2005, quando ci riprendemmo la piana di Venaus e cancellammo il cantiere della CMC aperto per il tunnel geognostico che poi, per effetto di quei fatti, sarà spostato a Chiomonte: al centro della piana, in mezzo ai sindaci e ai valligiani che difendevano la loro terra, c’era Gianni Rinaldini, segretario della Fiom, orgoglioso del suo sindacato che uscendo dalle fabbriche si faceva territorio e rilegittimava così il ruolo di un sindacalismo altrimenti messo all’angolo dalla metamorfosi sociale in corso. Ora, 6 aprile del 2019, gli spezzoni spolpati di un mondo del lavoro arreso – il centinaio scarso della Fillea, qualcosa di più, non molto, quelli della CISL, avvolti nelle bandiere a strisce bianche e verdi come a dire “ci siamo”, qualcosa di meno quelli della UIL colorati di azzurro – sfilavano rarefatti e questuanti, in un rito stanco, indifferenti alla più che ventennale resistenza della Valle, alle documentate ragioni di chi vede nel TAV un assurdo spreco di denaro che potrebbe essere ben più utilmente investito in interventi labour intensive, a tutto ciò che di nobile e dignitoso la storia del sindacalismo torinese ha rappresentato (quell’”idealismo aristocratico” che non è più). Prova vivente (anzi deambulante) di quanto la metamorfosi sociale abbia eroso il vecchio ceppo… Ce ne fosse stato uno tra loro – uno! -, magari tra quei delegati Fillea e Filca che si sono fatti fotografare nel tunnel geognostico accanto al ministro di polizia Salvini, che avesse a suo tempo denunciato la presenza nel cantiere di Clarea, dei mezzi e degli uomini della TORO srl smascherata nell’ambito dell’inchiesta “San Michele” sulle infiltrazioni mafiose come il tramite per gli affari legati all’Alta velocità in Val di Susa della ‘ndrina Greco di San Mauro marchesato “distaccata in Piemonte”, e dello stesso Giovanni Toro, poi condannato a 7 anni per “concorso esterno in associazione mafiosa” (erano lì, particolare gustoso, per asfaltare le strade interne al cantiere più sorvegliato d’Italia su cui far transitare i mezzi dell’ esercito e della polizia!!!).
Subito davanti al Lavoro il Capitale (si fa per dire): i “padroni” anzi i “padroncini” (i primi, quelli che contano, i soli, pochi, pochissimi, che ci guadagneranno davvero dalla Grande opera, se ne stavano lontani, a casa loro, sulle colline di Villar Perosa o in qualche cantone svizzero): le file, anch’esse rarefatte, dell’Api, l’Associazione che raggruppa le piccole imprese e che ha un portavoce loquacissimo, delle cui esternazioni sono state piene le pagine locali, ma che ha mobilitato solo qualche decina di “titolari” (le imprese con meno di 9 dipendenti sono in provincia di Torino, è bene ricordarlo, più di 160.000 e quelle tra 10 e 50 quasi 10.000); e subito dietro a loro, senza soluzione di continuità – d’altra parte è difficile capirne la differenza – , i quattro gatti di Confartigianato e della CNA, poche decine con più bandiere che braccia (e le imprese artigiane, anche questo è bene ricordarlo, sono a Torino e provincia circa 100.000!). Difficile dire che quel giorno c’erano in piazza, a tifare per il Treno, le “categorie produttive” del territorio… C’erano tutt’al più le loro estenuate rappresentanze formali, inconsapevoli del fatto che, finito il “fordismo” dei tempi forti, toccherebbe a loro, alle rizomatiche componenti del nuovo “capitalismo molecolare”, il ruolo egemonico che fu un tempo delle gigantesche imprese del capitalismo famigliare con il conseguente orgoglio del far da sé. E invece, per questa inconsapevolezza colpevole, piegati lì ai piedi di ciò che resta di quei vecchi poteri e di quelle vecchie famiglie fattesi capitalismo finanziario, subalterni e a rimorchio, ad aspettare, come i poveracci alla mensa del ricco epulone, che dal tavolo cadano le briciole di un’opera che solo alla finanza serve, e a chi di rendita finanziaria (e di posizione) vive, senza neppur voler immaginare invece quale ruolo e quale flusso di risorse riserverebbe loro una politica industriale capace di distribuire capillarmente le risorse. D’innervarle nei mille rivoli del territorio, quale sarebbe appunto un piano di riassetto idrogeologico, o di riqualificazione immobiliare finalizzata al risparmio energetico…
Così, in questa ritirata strategica della Società – sgretolata e resa muta dal declino della città e della regione – quella che balza in primo piano, è la Politica. Posta alla coda del corteo – dove la post-sinistra del PD sfila a pochi metri dai post-fascisti di Fratelli d’Italia in consonanza di amorosi sensi – ma in realtà in primo piano nei media e in video, vero utilizzatore finale della manifestazione. E mentre le madamine passano in cavalleria, perse a inseguire il loro fantasma dell’Opera (o la loro Opera-fantasma), quello che balza in primo piano è il volto patinato di Maria Elena Boschi (che chissà per quale ragione il governatore uscente Sergio Chiamparino ha voluto al suo fianco, a reggere lo striscione del PD, come se la Regina d’Etruria potesse portargli più voti di quanti in realtà respinge).
E allora diciamocelo chiaro: quella che ha sfilato sabato 6 aprile è la Torino del declino. O meglio, è il declino di Torino. Il declino che ha sgretolato e reso inerte la società, e che a sua volta dall’ ottusità di quella società – dalla sua incapacità a guardare il proprio presente per ciò che è – è stato accentuato. Non sarà quella Torino a far uscire la città dalla palude in cui langue. Il futuro, se un futuro ci sarà, bisogna cercarlo altrove.
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